Scioperi scuotono l’industria cinese

Nella seconda metà di maggio, gli operai hanno incrociato le braccia nella fabbrica di componentistica auto della Honda a Foshan, una città nella provincia meridionale del Guangdong. Lo sciopero ha causato la temporanea chiusura degli altri stabilimenti Honda nel paese che dipendono dalla produzione degli impianti di Foshan. Grande eco sui media ha avuto anche lo sciopero agli impianti produttivi di Shenzhen della Foxconn, una sussidiaria della taiwanese Hon Hai, che produce componenti elettronici per i colossi mondiali del settore, a partire dalla Apple, e che impiega in Cina 400.000 persone. Lo sciopero fa seguito ad una serie di suicidi tra giovani lavoratori, apparentemente a causa delle difficili condizioni di lavoro, che prevedono straordinari e turni di dodici-tredici ore al giorno in catena di montaggio sei giorni su sette.

Gli scioperi alla Honda e alla Hon Hai/Foxconn rappresentano solo i casi più eclatanti di un fenomeno in atto da qualche anno: ad esempio, nella sola provincia di Guangdong, le controversie del lavoro nel primo trimestre del 2009 sono cresciute del 42%.

In Cina, non esistono sindacati indipendenti dal partito comunista: sono tutti raccolti nella All-China Federation of Trade Unions, che è accusata di tutelare, in realtà, gli interessi dei manager. Quando il 31 maggio la municipalità di Foshan ha mandato un centinaio di dirigenti sindacali alla fabbrica Honda, essi hanno ricevuto una pessima accoglienza da parte dei lavoratori. Per risolvere le dispute, sono stati offerti degli aumenti salariali: Honda ha aumentato il salario minimo del 24%, mentre Foxconn ha quasi raddoppiato la paga base, dopo avere offerto in un primo tempo un aumento del 30%, e ha promesso di migliorare le strutture per l’alloggio e il (poco) tempo libero degli operai, che già includono piscine, bar e altre aree ricreativi, senza contare gli ospedali e la banche. La provincia di Guangdong e la municipalità di Pechino hanno aumentato il salario minimo del 20%.

Questi aumenti salariali potrebbero però non bastare a fermare le rivendicazioni operaie: in giugno, scioperi si sono verificati alla Toyoda Gosei di Tianjin, e nella fabbrica di birra Chongqing Brewery di Chongqin, partecipata dalla danese Calsberg. Nella fabbrica della Toyota ci sono anche stati tafferugli con la polizia.

La dirigenza cinese non ha potuto ignorare questi eventi. Un editoriale del giornale del popolo ha ricordato come sia necessario, di fronte a un crescente benessere di vasti strati della popolazione, evitare il risentimento, mantenendo un delicato equilibrio tra i profitti delle aziende e l’armonia sociale (concetto, che, come noto, rappresenta il mantra degli anni di governo della coppia Hu-Wen).

Gli aumenti salariali potrebbero indicare che l’economia cinese è a una svolta e che l’epoca in cui la Cina ha invaso il mercato mondiale con i suoi prodotti a basso costo potrebbe essere finita. Secondo l’economista Nicholas Lardy questo timore è eccessivo, poiché negli ultimi dieci anni, malgrado i salari reali siano cresciuti in media del 10%, le esportazioni cinesi non hanno sofferto e la gente ha continuato a migrare nelle città, dove il lavoro è meglio remunerato.

Nel caso in cui gli aumenti salariali continuassero, le fabbriche in Cina potrebbero vedersi ridurre i profitti, ma non è detto che la Cina perderebbe competitività: come ricorda Lardy, nel settore della componentistica elettronica, il costo del lavoro è appena del 5%; così, a una crescita dei salari del 30% corrisponderebbero, a parità degli altri costi, un aumento del costo totale della produzione dell’1,5%. D’altra parte, già tre anni fa Cai Fang, dell’Accademia cinese delle scienze sociali, ricordava come sarebbe imminente la fine della “fase di Lewis” dello sviluppo economico (la fase in cui in un paese sacche nascenti di economia industriale capitalista possono, attingendo a un vasto surplus di manodopera nelle campagne, mantenere per decenni i salari reali costanti, realizzando continui profitti). Lo studioso giunge a questa conclusione osservando l’invecchiamento demografico della Cina: sono i giovani tra i 16 e i 30 anni i più propensi ad abbandonare le aree rurali per diventare operai urbani, ma si calcola che nei prossimi dieci anni il numero dei giovani tra i 15 e i 24 anni che entreranno nel mercato del lavoro diminuirà di quasi il 30%. Inoltre, il miglioramento delle condizioni di vita nelle campagne ridurrà ulteriormente gli incentivi allo spostamento. Se, per effetto di ciò, il capitale migrerà verso paesi come il Vietnam e la Cambogia anche la Cina, come a suo tempo Hong Kong, Taiwan, la Corea e il Giappone, dovrà affrontare un nuovo capitolo dello sviluppo, con tutti i rischi di instabilità sociale che ciò comporta.

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