Le relazioni tra Roma e Pechino: nuovi orizzonti

L’autunno del 2010 sarà forse ricordato come una nuova primavera nelle relazioni tra Italia e Cina. In un contesto politico internazionale che ha visto Pechino sulla difensiva per gran parte dell’anno, l’ottimo stato dei rapporti con Roma costituisce una visibile eccezione, che è di notevole valore per la diplomazia cinese.

In effetti, non è la prima volta che l’Italia si trova a trarre vantaggio da circostanze che mettono in risalto il valore aggiunto del suo partenariato con la Rpc. Nell’anno del quarantesimo anniversario dall’allacciamento dei rapporti diplomatici bilaterali viene spontaneo pensare alla rottura sino-sovietica degli anni ’60 del secolo scorso, che portò al maturare delle condizioni per il riavvicinamento cinese agli Stati Uniti e consentì all’allora Ministro degli Esteri italiano Pietro Nenni di autorizzare l’avvio dei negoziati segreti di Parigi, che avrebbero condotto alla normalizzazione delle relazioni tra Italia e Rpc il 6 novembre 1970. Nenni e il presidente del Consiglio dell’epoca, Vittorino Colombo, entrarono nel pantheon degli “amici della Cina” e il passo compiuto dall’Italia – quasi contemporaneo al riconoscimento canadese – contribuì ad aprire le porte a scelte analoghe da parte di altre nazioni, come ricordato dal senatore Giulio Andreotti nel 2000 in un discorso presso l’Associazione d’Amicizia del Popolo Cinese con l’Estero.

Più immediatamente tangibile fu il ruolo giocato dalla diplomazia italiana nel contesto della risposta internazionale alla violenta repressione di Piazza Tienanmen del 4 giugno 1989. Durante il semestre italiano di Presidenza della Comunità Europea nella seconda metà del 1990 il Ministro degli Esteri Gianni De Michelis contribuì con particolare impegno a creare le condizioni per superare l’isolamento imposto alla Rpc, potendo contare sulla benevola neutralità degli Stati Uniti, interessati in quel momento a ottenere il più ampio sostegno in seno al Consiglio di Sicurezza Onu in vista prima guerra del Golfo. La visita a Pechino del presidente del Consiglio Andreotti nel settembre del 1991 ruppe l’embargo informale sulle visite di stato dei paesi Nato, suscitando l’entusiastica riconoscenza della leadership cinese.

Oggi, fortunatamente, il contesto in cui si collocano le relazioni bilaterali tra Italia e Cina non è più caratterizzato dall’eco drammatica di una strage di civili o dalle minacce della Guerra fredda. C’è, tuttavia, la complessità di un mondo multipolare (o apolare), che, dopo essere stato a lungo negli auspici della dirigenza cinese, ha di recente mostrato a Pechino il suo lato oscuro, fatto di riallineamenti finalizzati a un soft containment della Cina riconducibili a elementari dilemmi di sicurezza, ma sovente motivati anche in chiave ideologica (come la “solidarietà democratica” che preoccupa non poco i cinesi).

In questo quadro non va sottostimato l’investimento politico di Pechino nei confronti dell’Italia: nell’arco di 18 mesi si sono recati in Italia quattro dei nove membri del Comitato permanente del Politburo del Pcc, il massimo vertice politico della Rpc. La visita del presidente dell’Assemblea popolare nazionale Wu Bangguo del maggio 2009 è stata seguita a stretto giro dalla visita di stato del presidente Hu Jintao il luglio successivo, in concomitanza con il G8 dell’Aquila. A giugno 2010 è stata la volta di He Guoqiang, seguito il 6 e 7 ottobre scorsi dal Premier Wen Jiabao.

Il Presidente Napolitano e il Vice Presidente della Scuola Centrale del Pcc Chen Baosheng L’Italia, dopo una fase di relativa disattenzione a inizio legislatura, ha replicato con un crescendo di presenze ministeriali a Pechino, culminate con la lunga e articolata visita di stato del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il mese scorso in occasione della chiusura dell’Expo di Shanghai, esperienza di straordinario successo per l’Italia grazie a un padiglione tra i più apprezzati da critica e pubblico.

Per cogliere pienamente il senso della visita del capo dello stato e del suo discorso presso la Scuola Centrale del Pcc, occorre ricordare le parole del presidente del Consiglio Berlusconi in occasione dell’ultimo incontro bilaterale con Wen Jiabao a Roma: “L’Italia intende far sì che l’eccellenza delle relazioni economiche e commerciali con la Cina si traduca sempre più in un dialogo costante e in una comune visione delle relazioni internazionali”. Roma è dunque consapevole dell’importanza di un’interlocuzione non episodica con la leadership cinese. E in effetti negli ultimi tempi il governo Berlusconi ha dato prova di maggiore attivismo verso la Cina, fugando l’impressione che le riservasse meno attenzione di quello che l’ha preceduto. Questo è importante, perché Pechino è interessata a partner stabili, con cui possa cooperare al di là dei cambiamenti di governo.

A differenza di Germania e Francia, l’Italia ha mantenuto un atteggiamento cauto sui dossier più caldi. Il caso del Tibet è emblematico: l’Italia è per la tutela della specificità culturale e religiosa tibetana, ma senza intromissioni nell’assetto istituzionale della regione autonoma del Tibet (che peraltro copre soltanto una porzione del più ampio Tibet storico, dove vive la popolazione tibetana). Uno dei risultati è che la Cooperazione italiana, diretta dall’Unità tecnica locale di Pechino, è ancor oggi attiva ufficialmente sul campo in Tibet con progetti di sviluppo diffusi in contesti rurali inaccessibili a pressoché tutte le altre agenzie di cooperazione.

Molto avanzato – pur se non scevro da tatticismi – anche l’orientamento italiano in tema di embargo degli armamenti e riconoscimento a Pechino dello status di economia di mercato (il tasto dolente su cui è fallito il vertice tra UE e Cina dello scorso ottobre). La reiterata apertura dell’Italia su entrambi i dossier le ha fatto guadagnare punti politici a Pechino (paesi come Germania e Spagna hanno peraltro assunto un atteggiamento analogo), anche se, in assenza di un consenso europeo, non sono stati finora ottenuti risultati concreti. La domanda è se e come si possa fare un salto di qualità, andando oltre la “diplomazia della disponibilità”. Il riconoscimento dello status di economia di mercato – che verrà comunque automaticamente garantito alla Rpc nel 2016 – è un’importante carta negoziale per far progredire le relazioni economiche sino-europee: come evitare che la si sprechi? E come avanzare una proposta di alto profilo per la sostituzione dell’embargo sugli armamenti con un rafforzato codice di condotta sulle esportazioni, tenendo conto anche delle preoccupazioni di sicurezza di Usa e Russia?

La sfida è complessa anche perché l’Italia ha una serie di interessi nazionali da promuovere: l’accesso delle proprie imprese ai mercati delle città di seconda fascia anche attraverso opportuni canali di distribuzione, la creazione di partenariati per lo scambio e la cooperazione culturale, un’efficace protezione della proprietà intellettuale, l’ampliamento del dialogo bilaterale alle grandi tematiche geopolitiche, incluso lo sviluppo economico e infrastrutturale del mediterraneo. Tuttavia, per un paese che rimane la settima economia al mondo e il terzo partner commerciale europeo della Rpc sarebbe una scelta miope trascurare l’evidente potenziale di sviluppo delle relazioni con la Cina. Tali relazioni hanno un’importanza che va ben al di là della dimensione strettamente bilaterale, dato il peso crescente di Pechino negli equilibri globali.

Sarà questo uno degli stress-test più significativi per la nuova struttura del Ministero degli Esteri, che vive la seconda riforma radicale dal 2000. L‟obiettivo dichiarato è favorire un orizzonte interpretativo e operativo più globale per il nostro servizio diplomatico. Far sì che Italia e Cina si guardino meno negli occhi e imparino invece a guardare nella stessa direzione sarebbe un primo, bel risultato.

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