[LA RECENSIONE] Racconti di templi e di divinità. La religione popolare cinese tra spazi sociali e luoghi dell’aldilà

Alessandro Dell’Orto, Racconti di templi e di divinità. La religione popolare cinese tra spazi sociali e luoghi dell’aldilà, Roma, Aracne, 2014

Camminando per le metropoli asiatiche, e osservando i templi cinesi, mi è capitato spesso di chiedermi se la religione tradizionale svolga ancora un ruolo significativo nelle comunità urbane in tumultuosa corsa verso la modernità, oppure se il materialismo storico e quello consumistico abbiano condannato le forme di spiritualità cinesi alla polvere della storia, come se l’assedio urbanistico dei grattacieli fosse metafora di un’evoluzione culturale ben più profonda e radicata. E come se avessero ragione quanti ritengono i cinesi un popolo senza religione, incapace persino di comprendere perché gran parte dell’umanità abbia bisogno di credere in una divinità, non rassegnandosi invece ai tangibili aspetti della (difficile) esistenza terrena. In Racconti di templi e di divinità, Alessandro Dell’Orto – antropologo presso l’Università Urbaniana di Roma – illustra in maniera convincente come non soltanto gli edifici religiosi resistano all’assedio, ma addirittura attorno a essi rimanga vitale e si rafforzi la funzione di collegamento tra territorio, comunità locale e luoghi dell’aldilà, svolgendo un ruolo di prezioso collante sociale in un’epoca di velocissimi mutamenti. Lungi quindi dal finire tra le macerie, il tempio ricostruisce lo spazio identitario anche negli angoli più inverosimili dei vicoli delle megalopoli. Basato su pluriennali ricerche svolte principalmente a Taiwan e nella provincia dello Yunnan, il libro è un rigoroso studio etnografico su un aspetto della spiritualità cinese molto trascurato in Occidente, abituato dai tempi dei Gesuiti a classificare (e declassare) le religioni cinesi secondo la tripartizione classica in confucianesimo (più una filosofia dell’organizzazione sociale che una religione), taoismo (minoritario), e buddismo (una religione di origine indiana, soltanto mutuata dalla popolazione cinese).

Nella religione popolare cinese un assunto importante prevede “che i luoghi dell’aldilà, con le loro cosmologie e i loro rituali, siano rappresentazioni degli spazi sociali della vita quotidiana” (p. 94) e che le divinità (antropomorfe) svolgano un ruolo di “intermediazione” tra la realtà immanente e il mondo dopo la morte (popolato dagli antenati), paragonabile secondo l’autore a quello interpretato dai santi nella religione cattolica, in una relazione dinamica in continuo mutamento. Analogamente, non è rintracciabile solamente tra i cinesi, bensì diffuso in tutte le forme popolari di religione, un atteggiamento utilitaristico e negoziale verso la religione, al punto che l’oggetto della devozione (o il santo cui votarsi) può mutare se la divinità pregata non esaudisce le richieste per una vita migliore, ricca, fertile e serena. Infatti, “per i cinesi non vi è spazio sociale o domestico, attività umana o soprannaturale, ambiente fisico o fenomeno naturale, che non sia sotto la sfera protettiva di una particolare divinità” (p. 94-95), così facendo della religione popolare uno strumento pervasivo di gestione degli affari familiari, di custodia del lignaggio, di organizzazione del futuro.

Dell’Orto descrive “il trittico” della religione popolare cinese – Mazu, la protettrice del mare, Guan Gong, divinità della guerra e protettore dei commercianti, e Tudi Gong, divinità del luogo; racconta il diffondersi dell’appartenenza multipla dei cinesi a comunità religiose e templi diversi; ricorda le due entità principali (terrestre e celeste) che animano l’uomo; sottolinea l’importanza dei rituali, che stabiliscono “relazioni di reciprocità” tra esseri umani e divinità, organizzati spazialmente e socialmente in maniera straordinariamente simile; presenta gli spiriti, da tenere a bada anche con la geomanzia, e come essi possano in alcuni casi riscattarsi e acquisire natura divina; evidenzia il concetto di daode (道德), una sorta di etica del bene comune, che in fondo è anche alla base del ruolo “resistente” della religione nei casi di perdita del “mandato del cielo” da parte di una dinastia regnante.

Ricco di citazioni colte, di dettagli linguistici, di classificazioni riguardanti i templi e i titoli delle divinità, e accompagnato da un discreto apparato iconografico, il testo ha l’unico limite di non essere di facile lettura per chi non frequenta gli studi antropologici: soddisfatte le esigenze accademiche, l’autore potrebbe in futuro considerare la possibilità di attingere alla propria enciclopedica conoscenza dell’argomento, frutto di lunghi soggiorni sul campo, per scrivere un testo alla portata di un più vasto pubblico.

Una breve annotazione finale: tra l’utopia dell’uguaglianza socialista e la realtà della disuguaglianza capitalistica, la seconda appare forse più cinese della prima. “Il buon Tudi Gong rispose prontamente che il suo unico desiderio era di rendere ricchi e felici tutti gli abitanti del mondo. L’Imperatore si commosse nell’ascoltare il desiderio di Tudi Gong ma si rattristò nell’udire che Tudi Po si era furiosamente opposta al desiderio del marito. Ella sosteneva, infatti, l’idea di un mondo diviso in ricchi e poveri, giacché solamente in questo modo ogni società sarebbe potuta essere veramente prospera. Se tutti sono ricchi – Tudi Po disse al marito – chi si occuperà dei più umili lavori nella società? Se tutti sono ricchi chi trasporterà la portantina nuziale al matrimonio di nostra figlia?” (p. 101).

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