La crisi in Kirghizistan e la passività cinese

Il mese scorso un’improvvisa esplosione di odio interetnico ha precipitato nel caos il Kirghizistan, piccolo paese montuoso nel cuore dell’Asia centrale, generando una crisi umanitaria e politica di proporzioni inedite in un delicatissimo teatro geopolitico. Con una riedizione del conflitto del 1990, quando il paese era ancora una repubblica sovietica, si sono verificati violenti scontri tra popolazione di etnia kirghisa (il 70% del totale) e uzbeka (15%) nell’oblast di Osh e in altre località del sud. Circa 400.000 cittadini sono stati costretti ad abbandonare le loro case, tra profughi e sfollati. La situazione si è poi parzialmente stabilizzata e gran parte dei profughi che erano fuggiti in Uzbekistan ha riattraversato il confine. Il governo è anche riuscito a organizzare un referendum che ha approvato il cambiamento della Costituzione da presidenziale a parlamentare (la consultazione è stata valutata positivamente da gran parte degli osservatori internazionali). La situazione però resta tesa sia sul fronte politico che su quello dei rapporti interetnici. E il fatto che durante la crisi le potenze esterne, Russia e Cina in primo luogo, siano rimaste a guardare solleva alcuni interrogativi sul ruolo che queste ultime, ma anche le organizzazioni regionali che ad esse fanno capo possono effettivamente avere nella gestione della sicurezza in Asia centrale.

La crisi kirghiza si è innestata su un quadro politico interno instabile: nel 2005 la cosiddetta “rivoluzione dei tulipani” aveva abbattuto il regime autocratico di Askar Akayev, presidente dal 1991, quando la Repubblica di Kirghisia (denominazione ufficiale del Paese) ottenne l’indipendenza da Mosca. Il 7 aprile di quest’anno il successore, Kurmanbek Bakiyev, era stato rovesciato al termine di una violenta sollevazione popolare nella capitale, Bishkek.

Nella fase più acuta del recente conflitto l’attuale amministrazione transitoria, guidata da Roza Otunbaieva, aveva dichiarato di non essere in condizione di riportare l’ordine a Osh, chiedendo soccorso militare alla Russia. Il Cremlino aveva respinto questa sollecitazione.

Il Kirghizistan ospita la base Usa di Manas – cruciale per la guerra in Afghanistan – ma anche quella russa di Kant, sede della forza di reazione rapida della Collective Security Treaty Organization (Csto), l’organizzazione per la sicurezza che Mosca guida con l’ambizione di mantenere la propria influenza nella regione.

In questo contesto, segnato anche da ripetuti viaggi a Bishkek del sottosegretario di Stato americano Robert Blake e dalla mediazione della Presidenza di turno dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) detenuta dal Kazakistan, Pechino ha brillato per reticenza. Benché circa 30.000 cinesi vivano nel vicino Kirghizistan – la più nutrita comunità straniera – e le relazioni tra i due paesi siano migliorate vistosamente negli ultimi anni, portando alla firma di un trattato di amicizia e buon vicinato nel 2002 (la Cina è il secondo esportatore sul mercato kirghiso dopo la Russia), il Ministero degli Esteri cinese si è limitato a lodare l’efficienza dell’operazione di evacuazione di 1.300 cittadini cinesi residenti nelle zone a rischio.

Eppure la recente crisi non rimarrà senza conseguenze geopolitiche significative. Essa solleva non pochi dubbi sul ruolo della Shanghai Cooperation Organization (Sco) negli affari regionali. Fondata nel 2001 e composta da Cina, Russia e quattro repubbliche ex-sovietiche (Kirghizistan, appunto, insieme con Kazakistan, Uzbekistan e Tagikistan), la Sco è nata allo scopo di favorire la stabilità nella regione attraverso la lotta coordinata contro movimenti terroristici e separatisti.

Gli scontri in Kirghizistan, scoppiati quasi in contemporanea all’avvio dei lavori del nono summit della Sco, svoltosi a Tashkent (Uzbekistan) il 10 e 11 giugno, hanno avuto un riscontro quantomeno paradossale in quella sede. A dispetto di una dichiarazione conclusiva del vertice che parla della maturazione di una “efficace organizzazione impegnata per la stabilità e la prosperità nella regione”, Pechino si è trovata a prendere freddamente atto che sarebbe toccato alla Csto – di cui non fa parte – assumere le iniziative eventualmente necessarie per riportare la stabilità nel sud dello stato kirghiso. Ci si può, quindi, interrogare su quale incidenza l’organizzazione possa effettivamente avere nella gestione delle dinamiche politiche e di sicurezza dello spazio ex-sovietico in Asia centrale.

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