Governo del Partito o stato di diritto?

Traduzione dall’inglese di Andrea Ghiselli e Giovanni Andornino

Analizzando lo sviluppo dell’ordinamento giuridico nella Cina contemporanea, si può affermare senza dubbio che la 4a sessione plenaria del XVIII Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese, tenutasi nello scorso mese di ottobre, ha segnato un passaggio di particolare rilievo. Questo non solo perché, per la prima volta nella storia del Pcc, il tema della costruzione di uno “stato di diritto” (yifa zhiguo, 依法治国, letteralmente “governare il Paese secondo la legge”, NdD) è stato posto come centrale nell’ordine del giorno di una sessione plenaria del Comitato Centrale. Soprattutto, il dibattito politico ha portato all’approvazione di una significativa “Risoluzione su alcune importanti questioni relative alla complessiva promozione di uno stato di diritto”.

Articolata in oltre 186 punti, la Risoluzione interviene tanto sull’ambito strettamente giuridico, quanto sul più ampio ordine politicosociale della Repubblica Popolare, e punta a innescare un processo di rinnovamento del diritto in Cina con l’obiettivo di “promuovere la modernizzazione del sistema di governo e accrescere la capacità di governo dello Stato” (cujin guojia zhili tixi he zhili nengli xiandaihua, 促进国家治理体系和治理能力现代化). Questa “Quinta modernizzazione” promossa dal Partito va considerata in continuità con le “Quattro modernizzazioni” avviate alla fine degli anni ‘70 del secolo scorso: il linguaggio utilizzato dimostra come – a 65 anni dalla conquista del potere attraverso una guerra rivoluzionaria e 36 anni dopo l’inizio delle riforme e dell’apertura del Paese – il Pcc stia cercando di completare la propria trasformazione da “partito di lotta” a “partito di governo”. Il rafforzamento e la razionalizzazione delle norme che regolano la società vengono presentati come funzionali al conseguimento di un lungo periodo di stabilità politica in Cina.

Secondo gli esperti che da più tempo studiano le problematiche riguardanti i legami tra diritto e potere politico in Cina, a questo corposo documento si può attribuire una duplice valenza. Per un verso, esso conferma l’impegno dei leader cinesi nella costruzione di uno stato di diritto. I numerosi cambiamenti – di maggiore e minore portata – che la Risoluzione preannuncia, e che verranno introdotti nel prossimo futuro, dovranno rafforzare l’apparato amministrativo dello Stato, corroborando al contempo l’autorevolezza della Costituzione e dell’ordinamento giuridico cinese più in generale. Questa dinamica dovrà facilitare la creazione di una cultura dello stato di diritto, necessaria in una società moderna.

D’altra parte, però, la frequente reiterazione del principio di “primato del Partito” nel testo della Risoluzione evidenzia il permanere di ostacoli all’edificazione di un compiuto stato di diritto, rimarcando le contraddizioni latenti tra ordinamento giuridico e potere politico in Cina. Nonostante i frequenti riferimenti alla Costituzione, infatti, non appare convincente l’argomentazione secondo cui primato del Partito e stato di diritto socialista sarebbero perfettamente coincidenti: non convince la tesi secondo cui lo stato di diritto socialista richiederebbe il mantenimento del primato del Partito, e quest’ultimo si fonderebbe sull’efficacia dello stato di diritto socialista.

Piuttosto, il tentativo di porre il rafforzamento della leadership del Pcc come obiettivo della promozione di un sistema di governance fondato su uno stato di diritto socialista fa risaltare la tensione tra ordinamento giuridico dello Stato e interna corporis del Partito. Ad esempio, la Risoluzione afferma che le leggi vanno applicate secondo la Costituzione e che il Paese deve essere governato nel rispetto della Costituzione, sicché anche il Pcc potrebbe operare solo entro i limiti fissati dalla Costituzione e dalle altre leggi. Al contempo, però, si stabilisce che qualsiasi intervento legislativo che abbia implicazioni sistemiche deve essere determinato dal Comitato Centrale del Pcc, cui spetta anche il potere d’iniziativa in caso di revisione costituzionale. Le modalità di funzionamento di questo supremo organo di indirizzo del Partito, tuttavia, non sono mai state fissate da alcuna legge.

Un secondo esempio riguarda il soggetto destinatario della lealtà primaria di cittadini e servitori dello Stato: in un passaggio della Risoluzione si specifica che l’autorità della legge deriva dalla fiducia e dal rispetto che di essa hanno i cittadini, cui si richiede di agire da strenui difensori dello stato di diritto socialista, sottostando volontariamente alle regole che questo impone. Tuttavia, ai cosiddetti “lavoratori del diritto” (fazhi gongzuo duiwu, 法治工作队伍) – termine che indica non solo magistrati e legali, ma anche forze dell’ordine, docenti e studenti di giurisprudenza – viene richiesto di anteporre la fedeltà al Partito a qualsiasi altra. La Costituzione e le altre leggi vengono in subordine. Se neanche chi lavora nell’ambito legale ha come primo riferimento la Costituzione e le altre leggi, come si fa a rendere queste ultime oggetto di “fiducia sincera” da parte dei cittadini?

La radice del problema è da rintracciarsi nell’ordine politicoistituzionale intorno a cui è stata edificata la Cina contemporanea, un sistema di governo formato dall’intreccio tra Stato e Partito differente da quello di una moderna nazione democratica. Questo particolare sistema ha assunto l’attuale conformazione come esito delle rivoluzioni che si sono succedute in Cina per quasi un secolo: innescate con l’obiettivo di dar vita a uno Stato democratico, esse hanno infine condotto alla creazione di un “Partito-Stato” (dangguo, 党国). Secondo la storiografia ufficiale, il Partito Comunista Cinese, avanguardia del popolo, ha creato un nuovo Stato, emergendo come insostituibile partito di governo in possesso di un diritto senza limiti temporali di monopolizzare l’amministrazione dello Stato stesso. Questa posizione unica ha consentito al Partito di essere sia al di sopra dello Stato – “il Partito guida lo Stato e la società attraverso gli organi del potere statale”, nelle parole della Risoluzione –, che al suo interno, “supervisionando la situazione generale e controllando i diversi attori”.

Il Partito è lo Stato, o perfino superiore ad esso. Il Pcc è a tutti gli effetti il detentore del potere e il concetto di “governo del Partito” (dangzhi, 党治) coglie chiaramente questa situazione. Il “governo del Partito” non è lo stato di diritto. Nella sua storia di governo, il Partito non ha mai trovato indispensabile appoggiarsi alla legge per governare. Anche il primato del Pcc e la sua funzione di guida non sono stati codificati attraverso strumenti giuridici. L’affermazione secondo cui la leadership del Partito deve basarsi su uno stato di diritto socialista è dunque eminentemente politica.

Data l’attuale situazione interna e internazionale, non sorprende che i governanti cinesi ritengano che un governo che attribuisca maggiore peso a regole e leggi possa risolvere i problemi di governance esistenti. Ci si aspetta che ciò possa contribuire al mantenimento della stabilità politica nel lungo periodo. Il problema è se si possa godere dei benefici dello stato di diritto e se si possa realmente accrescere l’autorevolezza della Costituzione e delle altre leggi senza cambiare il sistema di Partito-Stato, senza un’appropriata distinzione tra ordinamento giuridico e potere politico e senza intervenire sul principio di governo del Partito.

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