[EUROPA&CINA] Il bicchiere delle riforme ancora mezzo pieno – ma per quanto?

Per l’Europa, il bicchiere delle riforme in Cina sembra ancora essere mezzo pieno. La Legge sulle organizzazioni caritatevoli e la Legge sull’amministrazione delle ong finanziate dall’estero – entrambe approvate nell’ultimo mese – sono un indubbio segno dei cambiamenti in atto nel paese e gettano luce sui tentativi da parte della dirigenza cinese di fornire un quadro normativo alle molteplici istanze provenienti da una società civile che si è sviluppata alquanto negli ultimi decenni, sulla scia della formidabile crescita economica avvenuta nel grande pease asiatico dall’inizio della politica di riforme e dell’apertura attuata da Deng Xiaoping a partire dalla fine degli anni Settanta.

L’evoluzione del rapporto tra Stato e società civile in Cina è uno degli elementi cruciali per valutare gli effettivi cambiamenti in corso. Questo è particolarmente importante per l’Occidente che ha scommesso sui riformatori cinesi fin dalla fine della guerra fredda, una volta riprese le relazioni politiche, deterioratesi in seguito alla repressione degli studenti di piazza Tian’anmen avvenuta nel giugno 1989.

A partire dai primi anni Novanta Europa, Stati Uniti e Giappone hanno riformulato il loro approccio verso la Cina, nella speranza che una maggiore interdipendenza dell’economia cinese con il resto del mondo portasse con sè lo sviluppo di una società civile che avrebbe domandato maggiore libertà politica e democrazia. Questo fu messo nero su bianco in un importante rapporto della Commissione trilaterale del 1994 che auspicava una maggiore integrazione della Cina con le nazioni sviluppate dell’Occidente e il Giappone al fine di promuovere il cambiamento interno in senso liberal-democratico, cosa che avrebbe oltretutto avuto benefici effetti per l’ordine regionale ed internazionale.

Tra i membri della Trilaterale, furono gli europei che – meno preoccupati di “contenere” la Cina rispetto ad americani e giapponesi – appoggiarono in maniera piena i tentativi dei riformatori cinesi dell’epoca di cambiare il Paese, un approccio iniziato ufficialmente nel 1995 con la pubblicazione del primo documento Ue sulla Cina dove compare la definizione di “impegno costruttivo”. Questo significava, in essenza, che le questioni delicate quali la democrazia e i diritti umani – seppur importanti per le opinioni pubbliche occidentali – non avrebbero comunque impedito lo sviluppo di relazioni a tutto campo con il gigante asiatico, in particolare in ambito economico-commerciale, con il duplice obiettivo di trarre vantaggio dal grande mercato cinese e promuovere, in tal modo, il cambiamento interno.

Un importante risultato in tal senso fu l’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) nel 2001, un evento fortememente sostenuto dalle élite industriali e politiche europee dell’epoca, ma poi criticato negli ultimi anni, soprattutto da esponenti politici italiani quali Giulio Tremonti che nei suoi libri ha più volte identificato l’entrata della Cina nell’Omc come una delle cause principali degli attuali problemi dell’industria italiana. Temi questi che sono riaffiorati negli ultimi mesi riguardo alla questione se l’Ue debba riconoscere alla Cina entro la fine del 2016 lo status di economia di mercato.

L’Italia è fortemente contraria a tale riconoscimento e sostiene – a ragione – che la Cina non è ancora un’economia di mercato nel pieno senso della parola – e comunque non lo è sicuramente secondo i cinque criteri stabiliti dalla Commissione europea per dare a Pechino un tale riconoscimento. Il resto dell’Europa, in particolare quella del Nord e centro-orientale, non la pensa allo stesso modo, sostenendo – con varie sfumature – che in Cina, in ambito economico le forze del mercato e della società civile continuano a fare progressi (anche se non in maniera lineare e con frequenti marce indietro) e che sarebbe importante, pertanto, mandare un chiaro segnale di sostegno ai riformatori cinesi. Un dibattito, questo, che caratterizza — e talvolta divide — l’Europa da più di un ventennio.

In ambito politico sta succedendo la stessa cosa. Se da una parte la Legge sull’amministrazione delle ong finanziate dall’estero ha ricevuto numerose critiche in Occidente, dal canto suo la Legge sulle organizzazioni caritatevoli è stata accolta in maniera più favorevole, grazie anche al fatto che tale Legge – come ricorda Flora Sapio nel suo contributo – fornisce finalmente un quadro normativo a un settore no profit che, nato e sviluppatosi durante gli ultimi quattro decenni, mancava di una chiara regolamentazione. Anche Zhu Shaoming, nel suo contributo, sottolinea come questa Legge rappresenti un passaggio importante non solo nella produzione legislativa per un settore chiave – al crocevia tra Stato, mercato e società — ma anche per la realizzazione complessiva dello Stato di diritto in Cina. Un concetto ribadito con forza da Wang Ming che ritiene che la Legge sulle organizzazioni caritatevoli abbia una portata storica, in particolare nel promuovere una trasformazione delle relazioni tra Stato e società civile.

L’impressione che si ricava a Bruxelles è che i policy-makers europei vedano con favore la Legge sulle organizzazioni caritatevoli – seppur con qualche distinguo – mentre voci critiche si sono levate per sottolineare alcuni aspetti della Legge sull’amministrazione delle ong finanziate dall’estero che potrebbero nuocere alle attività delle numerose ong e fondazioni europee operanti in Cina per promuovervi lo sviluppo di un’autonoma società civile, nonché democrazia e diritti umani.

Sia il dibattito in corso sulla questione dello status di economia di mercato sia quello relativo alle recenti disposizioni legislative riguardo le ong finanziate dall’estero e le organizzazioni caritatevoli mostrano l’esistenza di varie posizioni in seno alla Ue, all’interno delle istituzioni europee di Bruxelles, ma anche all’interno – e tra – i 28 paesi membri. Una situazione che non rende facile all’Ue assumere una chiara e netta posizione su queste tematiche, al contrario degli Stati Uniti che sembrano prediligere un approccio più tranchant verso la Cina e che hanno talvolta criticato l’Europa per la sua tendenza al compromesso.

La politica dell’“impegno costruttivo” – seppur declinata in maniera diversa a seconda del momento e della questione trattata – sembra comunque ancora dominare l’approccio di Bruxelles verso il gigante asiatico, come tra l’altro si evince dalla lettura dell’ultimo documento Ue sulla Cina – l’Agenda strategica Ue-Cina 2020. C’è da chiedersi, però, per quanto tempo ancora questo approccio possa durare, essendo sotto attacco sia da molteplici partiti politici all’interno dell’Europa — come dimostra il dibattito sullo status di economia di mercato – che dai nostri tradizionali alleati e partner asiatici, in primis Stati Uniti e Giappone. Per ora, l’Europa vede il bicchiere delle riforme ancora mezzo pieno. C’è da sperare che ulteriori cambiamenti in senso liberal-democratico all’interno della Cina possano permettere all’Europa di continuare in un tale approccio. Se ciò non avvenisse e le chiusure aumentassero, è probabile che il vecchio continente segua Washington e Tokyo sulla via di un “contenimento costruttivo”.

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