AgiChina – 24 novembre 2016

“Trump: dopo ritiro da TPP non è scontato l’idillio con Pechino”

l’intervista a Enrico Fardella di Alessandra Spalletta

 

Gli Usa di Trump annunciano il ritiro a gennaio dal Trans-Pacific Partnership (TPP) e la Cina incassa una vittoria strategica, candidandosi a nuovo artefice dell’integrazione economica dell’Asia-Pacifico. Ma il nuovo Pivot in Asia lo rilancera’ The Donald se riuscira’ a ricucire i rapporti con Mosca. “Il fatto che Trump abbia annunciato di voler concentrare gli sforzi sulla ricostruzione interna degli Stati Uniti, non implica un atteggiamento isolazionista e non significa che Washington dedichera’ meno tempo a contenere la Cina”: lo ha dichiarato ad AgiChina Enrico Fardella, Professore di Storia delle relazioni internazionali alla Peking University e ricercatore del Torino World Affairs Institute. Dopo l’addio al TPP (l’accordo di libero scambio tra gli Usa e 11 Paesi che si affacciamo sul Pacifico, esclusa la Cina) annunciato da Trump nel suo video sul piano dei primi 100 giorni alla Casa Bianca, la Cina assicura di promuovere l’integrazione dell’area Asia-Pacifico (spingendo su un’altra alleanza commerciale, la Rcep) e spera di avere nuovi spazi di manovra senza intaccare il rapporto con Washington, rilanciando il concetto di cooperazione. “Non siamo tuttavia di fronte a un nuovo isolazionismo americano”, ha spiegato Fardella. “La decisione di Trump non deve trarre in inganno – ha aggiunto -. Si tratta di una revisione tattica, seppur profonda, della proiezione americana verso l’Asia-Pacifico. Ma la strategia resta la stessa: impedire l’emergere di un’altra potenza capace di sfidare la supremazia globale degli Stati Uniti”.

PERCHE’ TRUMP POTREBBE NON ESSERE POSITIVO PER LA CINA – Trump, dunque, potrebbe non essere cosi ‘buono’ per la Cina come scrive Eric Li sul New York Times. “Non mi convince l’equazione secondo cui Trump si dedichera’ al mercato interno e quindi lascera’ la Cina libera di emergere come potenza egemone nel Pacifico – afferma l’analista -. Se si pensa che il Giappone, nonostante le minacce nordcoreane e la competizione cinese, spende solo l’1% del suo PIL per la difesa contro il 3.5% degli Stati Uniti, una revisione appare razionale per poter garantire maggiore equilibrio alla supremazia americana nella regione e liberare risorse utili per le infrastrutture funzionali da realizzare all’interno del Paese”. In realta’, quindi, dietro all’apparente soddisfazione cinese per il ritiro di Washington da un accordo regionale che Pechino non aveva mai digerito e che Trump aveva definito un potenziale “disastro per il nostro paese”, si potrebbe nascondere una “certa preoccupazione” da parte di Pechino. “Se la Clinton e il suo team erano ben noti alle cancellerie del pianeta, Trump e i suoi uomini sembrano degli outsider – spiega Fardella -. Cio’ li rende imprevedibili, e l’imprevedibilita’ delle mosse americane e’ un fattore di grande incertezza per Pechino, specie in un momento cosi’ delicato per la sua transizione economica e politica”. Gli ‘esperti’ di Trump sulla Cina non lasciano presagire nulla di buono per i cinesi. Personaggi come Peter Navarro (autore di “Death by China“), vedono nella Cina una minaccia strategica. Peggio: “Per loro e’ un competitor commerciale aggressivo che attraverso la concorrenza sleale e la manipolazione della sua moneta, accumula risorse per sviluppare il proprio esercito e la propria marina con l’obiettivo di sfidare l’egemonia americana nella regione e nel mondo”, continua Fardella. Per contrastarlo, Trump aveva annunciato di voler imporre dazi del 45% su tutte le importazioni cinesi. E’ il primo passo verso ‘America First’ (l’America al primo posto) – piu’ volte declamata in campagna elettorale – che prevede lo smantellamento dei trattati di libero scambio stipulati dall’amministrazione Obama (il TTP, il TTIP con l’Europa e il NAFTA con il Canada e il Messico) e la loro sostituzione con ‘Trump Trade’, concetto ancora poco chiaro fondato su una politica piu’ protezionistica e nuove relazioni basate su maggiori tariffe doganali verso la Cina e il ritiro da trattati di libero scambio. “Tra il dire e il fare c’e’ di mezzo il mare – scandisce Fardella -; il rischio di una guerra commerciale non e’ da sottovalutare, ma eventuali misure protezionistiche non sarebbero ad ampio raggio per due motivi: uno, la legislazione americana non consente al presidente di imporre dazi superiori al 15% a meno che egli non dichiari lo stato d’emergenza; due, eventuali dazi del 45% sulle merci cinesi danneggerebbero i consumatori (senza dimenticare che le supply chain sono troppo complesse per essere smantellate con un tratto di penna)”. I dazi non sono da escludere ma “prenderebbero di mira acciaio e alluminio, trovando d’accordo l’Europa”. E arriviamo cosi’ al nodo della questione: “Queste misure, con la Germania che ha cambiato posizione nei confronti di Pechino, potrebbero favorire la creazione di un fronte piu’ compatto in chiave anti-cinese, che unitamente a una riapertura alla Russia di Putin, consentirebbe a Washington il recupero di fondamentali posizioni strategiche”, sottolinea l’analista.

IL NUOVO ‘PIVOT’ DI TRUMP IN ASIA – Nei primi mesi dell’amministrazione Trump, quindi, potrebbe presentarsi uno scenario caratterizzato, da un alto, da un riallineamento di Stati Uniti e Europa sul tema della concorrenza sleale cinese, che avra’ come simbolo i dazi sull’acciaio e l’alluminio; dall’altro, dal rilancio di un nuovo Pivot in Asia: ” Il Pivot dell’amministrazione Obama in Asia aveva per lo piu’ una dimensione economica con il TPP al suo centro – sostiene Fardella -. Il conflitto con la Russia in Ucraina e in Medio Oriente ne limitava tuttavia lo sviluppo e la sua proiezione militare. Ma se Trump riuscisse a ricucire i rapporti con Mosca. cio’ potrebbe consentire un nuovo rilancio, anche militare, alla presenza strategica degli Stati Uniti in Asia”. Una mossa, questa, che avrebbe implicazioni notevoli sulle ambizioni cinesi e potrebbe modificare anche il corso della loro crescente intesa con Mosca. Del resto, da tempo tra Cina e Russia si e’ frapposto un sentimento di diffidenza: “L’alleanza sino-russa ha avuto fino ad oggi una convenienza occasionale, alimentata dalla contrapposizione agli americani che stavano portando avanti operazioni sgradite sia a Pechino sia a Mosca (in Asia, Ucraina, Medioriente, Siria)”, ha spiegato lo studioso. La politica americana ha spinto Cina e Russia l’una nelle braccia dell’altra. “Ma in realta’ anziche’ maturare una sinergia strategica – ha aggiunto – tra i due e’ cresciuto un sentimento di reciproca diffidenza e sono aumentati i problemi irrisolti, come la Siberia”. La posta in gioco per il Cremlino oggi e’ alta: l’apertura degli Usa consentirebbe alla Russia di ridurre la dipendenza energetica dalla Cina, agevolando la fine delle sanzioni e la riapertura dei rapporti con l’Europa.

SOLUZIONE ISOLAZIONISTA UN “SUICIDIO” PER GLI USA – Stiamo quindi assistendo alla nascita di Trumpolitics, un nuovo ordine globale in cui Washington sceglie una serie di interlocutori privilegiati scardinando equilibri consolidati? “Nelle relazioni internazionali e’ sciocco parlare di ‘gioco a somma zero’ – precisa Fardella – Non esiste una soluzione isolazionista per gli Usa, sarebbe un suicidio”. Gli Stati Uniti sono una potenza globale. La Cina ha prosperato grazie alla globalizzazione guidata dagli Stati Uniti, diventando la seconda potenza economica al mondo: “Gli Usa hanno inoltre garantito la sicurezza: la pax americana e’ stata creata grazie alla presenza della marina americana nel Pacifico – aggiunge l’analista -. I cinesi hanno sfruttato abilmente un sistema di regole globali creato dagli Stati Uniti: se non ci fossero stati i mercati aperti e una legislazione che favoriva gli investimenti esteri, i cinesi non avrebbero potuto sviluppare la strategia del “going abroad”. La stessa politica di apertura liberale promossa da Deng Xiaoping alla fine degli anni ’70 era fondata su un rapporto sinergico con Washington”. Come profeticamente si domanda la brillate firma della giornalista Hu Shuli, se gli americani si chiudono, la Cina che fa?

PER CONSIGLIERI TRUMP, CINA PIU’ PERICOLA DI ISIS – Per i consiglieri di Trump, la Cina rappresenta una minaccia strategica per gli Usa. “Il vero nemico per gli Usa di Trump non e’ l’Isis e non e’ la Russia: e’ la Cina che mette a repentaglio l’egemonia americana. E’ indubbio, quindi, che la Cina si trova oggi in una posizione delicata, anche perche’ “Il vento populista monta in Occidente e cio’ potrebbe rappresentare un problema per Pechino, che spesso diventa il capro espiatorio usato dal populismo per spiegare gli squilibri di una globalizzazione che sembra non riuscire piu’ a distribuire ricchezza e sicurezza”. Di fronte a un fronte occidentale piu’ compatto e critico nei confronti di Pechino, i cinesi eviteranno di puntare i piedi: “Pechino potrebbe mostrarsi piu’ accomodante”, ipotizza Fardella. “La Cina, anche in vista del Congresso del partito del prossimo anno che rinnovera’ la leadership – spiega lo studioso – cerchera’ di tenere un profilo piu’ basso. Come scrive Damien Ma del Paulson Institute, la logica vorrebbe che Xi Jinping nel secondo mandato avviasse le riforme finora incompiute, cruciali per un sistema che in assenza di riforme strutturali sembra essersi incartato. Ma come scrive Hu Shuli, la riforma non esiste senza un rapporto sinergico con il resto del mondo e con gli Stati Uniti in primis”. Che poi, a ben guardare, lo stesso sembra vero per gli Stati Uniti: sin dai tempi di Deng Xiaoping la parte riformista del PCC ha integrato il paese nel sistema internazionale disegnato da Washington , garantendo sicurezza e sviluppo per un quinto della popolazione mondiale. “Il successo delle riforme in Cina e’ stato dunque fino ad oggi un successo anche per l’Occidente”, aggiunge Fardella.

MA TRUMP NON METTERA’ LA CINA IN UN ANGOLO – L’America di Trump metterà la Cina in un angolo? “Lo escludo – continua Fardella -: nessuno a Washington o altrove ha interesse a far sentire la Cina assediata. Anzi sarebbe piu’ plausibile che questa amministrazione possa puntare, come suggerito dal consigliere per la sicurezza di Trump, James Woolsey, al ‘Grand Bargain’ con Pechino fondato sull’impegno americano a non interferire nella politica interna cinese e ad accettarne la struttura in cambio della promessa cinese di non sfidare lo status quo in Asia”. Emergeranno dunque delle nuove piattaforme di intesa. La tensione nel Mar Cinese Meridionale si sta gia’ allentando negli ultimi mesi e forse potremmo avere qualche progresso in quella direzione. “La proposta dell’ingresso degli Usa nell’AiiB ,ventilata dallo stesso Woolsey, e’ un chiaro segnale che esistono gia’ nuovi importanti fronti di cooperazione tra i due paesi”, conclude Fardella.

 

Enrico Fardella

Head of Project

Enrico Fardella is Director for Area Studies of the ChinaMed Business Program and Director of the ChinaMed Project. He is Associate Professor of the History Department of Peking University, Director of the Center for Mediterranean Area Studies of Peking University and Global Fellow at the Woodrow Wilson Center for International Scholars.

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