La “ruota della crisi” e le due opposte narrative della società thailandese

Karl Marx nota, in un passo del suo saggio sul 18 brumaio di Luigi Napoleone, che tutti i grandi eventi della storia si presentano due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa[1]. Ma Marx non poteva conoscere la Thailandia contemporanea e l’eccezione che il Paese del Sud-Est asiatico presenta a questa regola. Negli scorsi trent’anni, tragedie o farse che dir si voglia, si susseguono a intervalli ciclici, seppur sempre più riavvicinati, senza alcun senso di progressione: mobilitazioni di massa, repressione militare, colpi di Stato, nuove costituzioni ed elezioni. Cambiano i personaggi e le scenografie ma la trama sembra ripetersi, invariata e irrisolvibile. Le proteste che hanno animato il Paese nell’ultimo anno, e la risposta repressiva del governo militare, sono la più recente fase di quella che vari studiosi hanno chiamato la “ruota della crisi[2]”, una ripetizione di eventi e controeventi che sembra sempre riportare il Paese al punto di partenza.

Il mio scopo qui è di aiutare i lettori a dare senso alla fase attuale, storicizzandola e offrendo alcune linee di connessione e di frattura tra le proteste che si sono coagulate a partire dalla metà del 2020, e che continuano al momento, e quelle che hanno bloccato Bangkok nel 2010[3], offrendo dei suggerimenti su percorsi che potrebbero profilarsi. Il mio obiettivo non è perciò presentare una storia esaustiva di un movimento sociale ancora in trasformazione, né analizzarne nei dettagli le radici, ma fornire piuttosto un controappunto a una narrativa spesso ripetuta da osservatori internazionali, giornalisti e accademici, che vede le proteste in corso, i suoi partecipanti, discorsi politici, e le loro forme di aggregazione come una cesura netta col passato. Ovviamente alcune caratteristiche sono nuove – specie dal punto di vista della composizione generazione, demografica, e di classe – ma le proteste thailandesi, come quelle che Marx analizzava nello stesso saggio, operano nelle circostanze che esse trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione. Ed è proprio questa tradizione, le sue parole d’ordine e le forme di mobilitazione politica che le attuali proteste stanno evocando: spiriti del passato messi al servizio del presente, proiettati al contempo verso un futuro alternativo, antiautoritario e panasiatico. Un futuro che i manifestanti sperano non rispetterà la legge di Marx e non si trasformerà in farsa. Da buon antropologo, è proprio da questi manifestanti e dalle strade di Bangkok che voglio cominciare, seguendo i due principi epistemologici della mia disciplina: la fede nell’importanza del sapere induttivo e la consapevolezza che spesso nei dettagli si rivelano le storie più generali. Partiamo perciò da un tempo e luogo particolare.

È il 15 ottobre 2020. Una nuova ondata di proteste sta scuotendo la capitale thailandese. Sono passati dieci anni dalle mobilitazioni delle “Camicie rosse”. Il 19 maggio 2014 – esattamente quattro anni dopo la loro dispersione – l’esercito ha preso il potere. Prayut Chan-o-cha, il generale che aveva diretto l’attacco alle Camicie rosse, è ora al comando del Paese. Negli anni successivi, Prayut intesse una rete repressiva simile solo a quella vista negli anni Settanta e attraverso una lunga scia di arresti, la creazione di nuove tipologie di reato, una diffusissima censura in rete e uccisioni di attivisti fuori dal Paese riesce a silenziare le Camicie rosse. Nel 2017, un Parlamento sotto il controllo dei militari redige una nuova Costituzione che assegna più della metà dei parlamentari ai militari e al Palazzo, di fatto garantendo loro il controllo dell’organo legislativo. Ciononostante, un nuovo partito – il Futuro nuovo (phak anakhot mai) – viene fondato nel maggio del 2018, attirando ai seggi una nuova generazione di elettori cosmopoliti insoddisfatti da quella che i militari presentano come una democrazia con caratteristiche thailandesi. Nella tornata elettorale del 2019, fortemente condizionata da un clima di repressione creato dai militari, questo nuovo partito ottiene quasi il 18% dei voti. Eppure, la possibile maggioranza elettorale in coalizione con il Phua Thai, partito vicino alla famiglia Shinawatra, è resa vana dalla Costituzione del 2017 che permette al Generale Prayut di diventare Primo ministro, malgrado il suo partito avesse ottenuto 116 seggi su 500. Non pago di questa vittoria, il regime lancia un attacco al partito Futuro nuovo e alle aspirazioni democratiche a cui aveva dato voce, utilizzando la Corte costituzionale per scioglierlo e proibire la partecipazione politica ai suoi deputati. In risposta a questo, a partire dalla primavera del 2020, migliaia di attivisti scendono in strada, all’inizio attenti a non presentarsi come la nuova faccia delle Camicie rosse, e allargando la piattaforma del movimento fino a includere non solo richieste elettorali ma anche una forte e diretta critica al ruolo politico della monarchia, a forme di diseguaglianze economiche, civili e di genere, e al sistema educativo thailandese e ai suoi toni conservatori.

Già il giorno precedente, Anon Nampha, un importante avvocato specializzato nella difesa dei diritti umani, una figura centrale nella nuova mobilitazione e un partecipante attivo nel movimento delle Camicie rosse di dieci anni prima, aveva dichiarato da un palco improvvisato di fronte alla casa del governo: “Domani, noi, il popolo, mostreremo la nostra forza nel centro della città, a Ratchaprasong alle quattro del pomeriggio, [dove] [e]sprimeremo la nostra rabbia. Chiediamo a un milione di persone di venire e cambieremo il nome Ratchaprasong in Ratsadonprasong. Invitiamo i nostri fratelli e sorelle a unirsi alla nostra più grande dimostrazione di forza. Questa è una promessa, combatteremo insieme per ottenere la più completa democrazia che abbiamo mai avuto”. Le sue parole rimbalzano immediatamente sui social media, insieme all’invito a riprendersi l’incrocio che era stato il teatro delle proteste delle Camicie rosse nel 2010 e della loro fine sotto i colpi dei cecchini militari. Il giorno successivo migliaia di persone occupano di nuovo la zona, ribattezzandola come Anon aveva proposto: Ratsadonprasong.

Non fu la prima volta che un movimento sociale thailandese compiva un simile atto di guerriglia toponomastica in questo incrocio. Bisogna infatti tornare alle proteste delle Camicie rosse dell’aprile del 2010 per ritrovare questo stesso atto fondante. Allora un grande cartello scritto a mano aveva coperto i segnali stradali dell’incrocio, cambiandone il nome da Ratchaprasong, “volontà o desiderio del re” (ratcha “re” e prasong “desiderio, volontà”), a Ratsadonprasong (“la volontà del popolo”). Il significato di questo piccolo atto simbolico non può essere sottovalutato e ci aiuta a capire la ragione centrale dietro le proteste attuali: una rivendicazione della centralità della volontà popolare contro quella monarchica. Le proteste rappresentano, perciò, l’ultimo capitolo di una storia ben più lunga che le unisce a quelle delle Camicie rosse nel 2010 ma anche, più indietro, ai movimenti sociali democratici del 1992, alle manifestazioni studentesche degli anni Settanta e, infine, agli artefici della caduta della monarchia assoluta in Thailandia nel 1932, quando – come oggi fa il movimento – i manifestanti affermavano che la volontà del popolo dovesse avere il sopravvento su quella dei suoi sovrani.

Nelle contestazioni attualmente in corso in Thailandia questa narrativa storica alternativa ha un ruolo centrale e opera da filo conduttore che collega la mobilitazione attuale a quelle precedenti e le proietta in un futuro di “democrazia più completa”, come i manifestanti amano ripetere. Sfortunatamente, però, anche le forze statali stanno rispondendo evocando un’altra versione di quella storia thailandese, una storia fatta di decreti di emergenza, arresti e violente repressioni. Fu proprio il 15 ottobre del 2020, infatti, che il governo thailandese dichiarò lo stato di emergenza che da allora vieta i raduni formati da cinque o più persone e la pubblicazione di notizie o informazioni online che “potrebbero infondere paura” o “influenzare la sicurezza nazionale”. Fu proprio in quella data che il governo concesse alla polizia e ai militari il potere di arrestare le persone senza accuse, di trattenerle in luoghi di detenzione informali senza avere accesso a un avvocato o alle visite dei familiari, garantendo l’immunità legale ai funzionari che svolgono queste funzioni.

Queste due narrative della Thailandia contemporanea, ovvero quella di Ratchaprasong e quella di Ratsadonprasong, quella che ribadisce la volontà dei sovrani e quella che dà priorità alla volontà dei sudditi, sono alla base dei confronti nelle strade di Bangkok e, seppur si radichino nel contesto specifico della Thailandia, stanno entrando in connessione più profonda con altri conflitti simili, su scala regionale e transasiatica. Di nuovo, nelle strade di Bangkok si rivelano queste nuove connessioni e collaborazioni, sia dal lato dei movimenti sociali sia delle forze statali che li oppongono.

Il giorno successivo alla grande manifestazione a Ratsadonprasong, con il nuovo decreto d’emergenza entrato in vigore, i manifestanti si sono dati di nuovo appuntamento. Verso le tre del pomeriggio, gli agenti di polizia iniziano a mettere delle barriere all’incrocio, reclamandolo di nuovo come Ratchaprasong. La BTS Skytrain – la ferrovia sopraelevata della capitale – chiude le quattro stazioni della zona e la Bangkok Mass Transit Authority annuncia che tutti i percorsi di autobus vicini all’area della protesta sono sospesi, mentre a tutti i trasporti pubblici è impedita la fermata in un raggio di cinque chilometri dall’incrocio. I manifestanti rispondono spostando il loro punto d’incontro all’incrocio di Pathumwan, poco più di un chilometro a ovest. Alle cinque del pomeriggio il crocevia brulica di manifestanti.

L’atmosfera è tesa. La polizia in tenuta antisommossa pattuglia l’area e grandi camion di cannoni ad acqua si affollano dietro i manifestanti, minacciosi. Alle 18.50, mentre la pioggia comincia a cadere, gli agenti di polizia avanzano e, per disperdere la folla, sparano con i cannoni riempiti di sostanze chimiche irritanti blu. All’inizio i manifestanti sono respinti, incapaci di resistere alla pressione dell’acqua. Poi alcuni di loro cominciano a usare gli ombrelli come scudi, esattamente come i manifestanti avevano fatto un anno prima a Hong Kong. Dall’alto di un cavalcavia pedonale, dove altri manifestanti si accalcano, cominciano a cadere ombrelli, ceduti dai chi è in alto per rafforzare le prime linea di difesa. Quasi immediatamente sui social media e sui gruppi di Telegram dei manifestanti iniziano a circolare meme e immagini che abbinano Bangkok a Hong Kong, presentando i due movimenti come due facce della stessa medaglia, animate dalla stessa generazione di attivisti, simili nelle loro forme di lotta urbana e nella critica che presentano a un modello di autoritarismo asiatico.

Alle undici di sera, dopo cinque ore di furiosi attacchi con acqua e manganelli, lo scontro è finito. Gli organizzatori della protesta rilasciano un comunicato in cui condannano l’uso della forza da parte della polizia e annunciano una manifestazione per il giorno successivo, questa volta senza specificare il luogo. Joshua Wong twitta a sostegno della protesta in corso in Thailandia e nuovi gruppi Telegram sorgono per collegare gli attivisti thailandesi e di Hong Kong e condividere tattiche, che diventeranno centrali per il prosieguo delle proteste in Thailandia e che si espanderanno da lì a poco fino a includere attivisti di Taiwan e del Myanmar.

In questi atti, per quanto specifici e puntuali, si nascondono le chiavi di lettura e comprensione delle proteste in corso in Thailandia, un movimento che trova la sua ragion d’essere in una lunga tradizione di difesa della volontà popolare contro quella dei sovrani, che vive una nuova fase di repressione da parte di chi invece fa della volontà dei sovrani la sua prerogativa ma che, al contempo, stabilisce nuove reti, nel tentativo di creare un fronte unito panasiatico. Tale fronte non deve trovare nella democrazia occidentale, e nelle sue contraddizioni, un modello politico ma deve impegnarsi a svilupparne uno locale.


[1] Marx, K. (1852), Il 18 Brumaio di Luigi Napoleone, Roma: Editori Riuniti.

[2] Felicity, A. et al. (2014), “Introduction: The Wheel of Crisis in Thailand”, Hot Spots, Fieldsights, 23 settembre, disponibile online al link https://culanth.org/fieldsights/introduction-the-wheel-of-crisis-in-thailand.

[3] Sopranzetti, C. (2021), La fragilità del potere. Mobilità e mobilitazione a Bangkok, Roma: Meltemi Editore.


 

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