National Security Council in salsa cinese

Una delle maggiori decisioni assunte alla terza sessione plenaria del XVIII Comitato centrale del Partito comunista cinese (Pcc), svoltasi lo scorso novembre a Pechino, è l’istituzione di un “National Security Council”, o Commissione per la sicurezza dello Stato (guojia anquan weiyuanhui, 国家安全委员会), che ha un duplice obiettivo: sul versante internazionale, proteggere gli interessi relativi alla sovranità nazionale, alla sicurezza dello Stato e allo sviluppo; sul fronte interno, tutelare la sicurezza politica e la stabilità sociale. Nonostante non vi sia ancora una chiara definizione del profilo che il nuovo organo assumerà (prassi di lavoro, composizione e distribuzione delle deleghe), si può tuttavia tentare una valutazione preliminare, tenendo conto delle opinioni espresse in queste settimane da svariati studiosi, esperti e commentatori.

Si ritiene, in generale, che la Commissione per la sicurezza dello Stato funzionerà come una sorta di “cabina di regia” sulle materie relative alla sicurezza nazionale, così come la Commissione di Stato per lo sviluppo e le riforme (la National Development and Reform Commission, Ndrc) funziona come cabina di regia per l’economia. Si può quindi immaginare che la Commissione per la sicurezza dello Stato sarà un organo di peso, che coinvolgerà partito, ministeri ed Esercito popolare di liberazione (Epl) – con la partecipazione di Ministero degli esteri, Ministero della sicurezza dello Stato, dipartimenti dell’Epl con competenza sull’intelligence, Commissione di Stato per gli affari delle minoranze etniche e via dicendo. Secondo la risoluzione approvata dal terzo plenum (sito in cinese), compito principale della Commissione sarà la definizione e l’attuazione della strategia per la sicurezza nazionale: in altre parole, la Commissione medesima dovrà non solo elaborare, ma anche attuare tale strategia. Se ne conclude che il Pcc percepisce l’attuale situazione come estremamente critica: tempi difficili richiedono misure difficili, come recita un antico detto cinese.

Tutto ciò non significa che la Cina si trovi oggi ad affrontare una minaccia militare imminente da parte di un paese ostile. In effetti, nel corso degli ultimi quarant’anni la Cina ha compiuto grandi progressi nella tutela della propria sicurezza nazionale. Resistere a un’invasione straniera è stata la priorità per la sicurezza nazionale del paese nei primi trent’anni di storia della Repubblica popolare cinese (Rpc). A quel tempo la Cina aveva un nemico dichiarato: gli Stati Uniti prima, l’Unione Sovietica poi. Il paese fu coinvolto in numerose guerre regionali e conflitti militari lungo i propri confini, e la quota della spesa pubblica destinata alla difesa nazionale raggiunse il 25 per cento. Tuttavia, da quando il presidente americano Richard Nixon attraversò l’Oceano Pacifico per stringere la mano al Primo ministro Zhou Enlai nel 1972, la situazione è gradualmente migliorata. Dopo la guerra con il Vietnam del 1979, l’Epl non ha più combattuto una guerra su larga scala e le spese militari sono scese a circa il 6 per cento della spesa pubblica totale, per quanto abbiano mantenuto in anni recenti un tasso di crescita a due cifre. In Cina nessuno oggi sostiene che il paese si trova a fronteggiare un nemico vero e proprio, se si eccettuano alcuni esponenti del nazionalismo estremo che vedono nel Giappone una sorta di eterno nemico. La decisione di istituire una Commissione per la sicurezza dello Stato non deriva quindi dalla minaccia di un’invasione da parte di un paese nemico, bensì dal moltiplicarsi delle sfide, tanto interne quanto internazionali.

Sul piano internazionale la Cina percepisce oggi una crescente pressione, divenuta più forte in particolare negli ultimi cinque anni. L’ascesa del paese sta alimentando tentativi di contenimento da parte di altri Stati. Secondo la teoria della transizione nei rapporti di potere, uno Stato in ascesa pone una sfida al sistema internazionale esistente, alimentando la naturale reazione dell’egemone in carica, che mette in atto politiche di contenimento. Con la trentennale attuazione della politica di “riforma e apertura” la Cina è diventata più ricca, più sicura di sé e più potente, e la strategia americana di “pivot to Asia” o di “riequilibrio verso l’Asia-Pacifico” è generalmente considerata in Cina come un tentativo di contenimento. Sostenuti da questa strategia degli Stati Uniti, i vicini della Cina hanno assunto l’iniziativa su isole e scogli contesi con Pechino. Grazie alla rapida diffusione delle notizie attraverso i social media, queste azioni sono state riportate in tempo reale alle opinioni pubbliche, alimentando sentimenti nazionalistici e vaste manifestazioni di protesta. Sotto la pressione delle loro stesse popolazioni, i governi non hanno potuto far marcia indietro, ma hanno anzi adottato misure ancor più forti. Misure di questo tipo richiedono ora una riflessione strategica di più ampio respiro, per evitare il peggio. Il Ministero degli esteri o il Ministero della difesa nazionale e altre singole istituzioni non sono in grado – da sole – di compiere questa più ampia riflessione.

Al tempo stesso, sul piano interno l’instabilità sociale è divenuta una sfida sempre più significativa. Negli ultimi dieci anni è cresciuto il numero delle proteste di massa, che hanno esercitato pesanti pressioni sul governo cinese a ogni livello. La maggior parte di queste proteste è causata da fenomeni di corruzione, dalle disuguaglianze, da trattamenti ingiusti o dall’inquinamento, ma una sfida ancor più grande proviene dalle proteste che coinvolgono minoranze etniche e questioni religiose. I disordini verificatisi in Tibet il 14 marzo 2008 e quelli in Xinjiang del 5 luglio 2009 non hanno generato soltanto una spaventosa instabilità sociale, ma anche spargimenti di sangue e una sfiducia montante tra i diversi gruppi etnici. L’attacco terroristico dello scorso 28 ottobre in piazza Tian’anmen, a Pechino, ha innalzato ulteriormente il livello di allarme. Tutte queste proteste non sono più riconducibili alla mera cronaca criminale e richiedono quindi risposte più rapide ed efficienti. C’è accordo sul fatto che non si debba solamente ricorrere alla forza. La Commissione per la sicurezza dello Stato potrebbe divenire il punto di aggregazione di molteplici sforzi compiuti non solo dalle istituzioni responsabili del mantenimento dell’ordine pubblico, ma anche – per esempio – dalle istituzioni accademiche.

Se confrontata con i paesi occidentali, la Cina è generalmente considerata uno stato autoritario. Nei primi trent’anni di storia della Rpc l’attuazione di un sistema a economia pianificata ha garantito l’accentramento di potere e interessi. Tuttavia, dopo più di trent’anni di ritorno alle pratiche del mercato, il pluralismo degli interessi è diventata oggi una realtà sociale che richiede più riforme sia in ambito politico sia in ambito economico. Il sistema politico attuale fatica a dare risposte a una società e a un’economia in trasformazione. La dirigenza cinese si è resa conto dell’importanza di ulteriori riforme: da qui anche l’istituzione di un secondo nuovo organo: il gruppo direttivo ristretto per il “complessivo approfondimento della riforma”. Nel breve termine, le sfide esterne e interne rimarranno numerose: la costituzione della Commissione per la sicurezza dello Stato rappresenta dunque una risposta tempestiva e opportuna, necessaria a garantire il nuovo ciclo di riforme.

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