[LA RECENSIONE] Potere e società in Cina. Storie di resistenza nella grande trasformazione

Angela Pascucci, Potere e società in Cina. Storie di resistenza nella grande trasformazione, Edizioni dell’asino, Roma 2013

Negli anni ’70 del XX secolo, mentre nel campus universitario di Berkeley si inneggiava alla portata rivoluzionaria e liberatoria del romanzo fantasy Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien, in Italia il capolavoro del professore di Oxford veniva monopolizzato dalla destra missina. Per la formazione dei propri giovani attivisti essa creò anche degli appositi “Campi Hobbit”, dal nome del popolo mite e pacifico che abita la Contea, una tranquilla area bucolica della Terra di Mezzo, il mondo fantastico in cui si svolge la narrazione. La destra di casa nostra esaltava del romanzo – trascurandone la dimensione epica e universale – il forte richiamo alle tradizioni e alla storia degli avi, e apprezzava lo spirito anti-modernista di Tolkien, che all’occhio esperto del lettore non nasconde la sua critica all’eccessiva industrializzazione, al conseguente sconsiderato sfruttamento delle risorse naturali (“i nani hanno scavato troppo a fondo, non sanno che cosa hanno risvegliato nella profondità della terra”), e alla civiltà urbana rispetto alla dimensione arcadica della campagna inglese – quest’ultima, un vero mito fondante per gli abitanti d’Oltremanica.

Fa quindi sorridere notare come il provincialismo e l’eccentrico schematismo italiano di quegli anni siano smascherati dal bel libro di Angela Pascucci che presentiamo questo mese, che stavolta da sinistra – l’autrice è stata caporedattore esteri de “Il Manifesto”, nonché inviata e responsabile dell’edizione italiana di “Le Monde Diplomatique” – osserva basita i costi dell’insostenibile turbo-crescita della Cina degli ultimi anni con accenti che non sarebbero dispiaciuti allo stesso Tolkien. E’ sufficiente rilevare come vengono definiti gli aspetti più immediatamente visibili della gigantesca ondata di urbanizzazione in atto in Cina: i nuovi edifici sono “sgraziati”, gli impianti dei parchi tecnologici sono “parallelepipedi alieni bianchi, grigi e neri” (ricordate gli uomini grigi ne La storia infinita di Michael Ende?), e gli operai sono costretti a vivere in “squallidi falansteri” (p. 69). Non si tratta ovviamente di una critica soltanto estetica, ma di una sottolineatura delle contraddizioni dello sviluppo cinese, a cui cercano di dare risalto le innumerevoli voci cinesi “resistenti” registrate in presa diretta.

Basato infatti su una serie di incontri tra il 2008 e il 2011 a Pechino, Wuhan, Chongqing, e nella Comune di Nanjie Cun, il volume è diviso nelle tre classi sociali di appartenenza dei personaggi che incontriamo in sequenza: contadini, operai e intellettuali. I contadini raccontano degli espropri forzati, della corruzione dei quadri locali, e del profondo cambiamento del loro rapporto con la terra, “diventata ormai una fonte di accumulazione primitiva del capitale” (p. 21). La problematica degli espropri, del cambiamento della destinazione d’uso dei terreni, e del lease dei terreni alle società immobiliari è cruciale per comprendere la Cina odierna, ma Pascucci – osservando l’universalità della corsa al profitto – si guarda bene dall’offrire facili e consolatorie visioni manichee: “(…) la questione della terra (…) arriva in Occidente come un conflitto violento fatto di rivolte, scontri e disperati gesti individuali contro gli abusi del potere e la corruzione. La risposta (dell’interlocutore, ndr) è sorprendente: in realtà non si possono dividere i buoni dai cattivi. Tutte e due le parti cercano di accaparrarsi il più alto margine di profitto possibile dalla terra” (p. 23).

Più che a singole storie di lavoratori nelle fabbriche, l’autrice è interessata a coloro che sostengono, in varia misura, le richieste degli operai di esercizio dei propri diritti (spesso formalmente riconosciuti dalla legge ma di fatto inapplicati), e di una vita migliore: incontriamo così ad esempio Feng Yuan, che lavora al sito internet Cheng bian cun (La città accanto alla campagna), un portale per i lavoratori migranti; Yan Yuanzhang, il ricercatore del China Workers Research che ritiene come solo “una cerniera tra la memoria e la coscienza dei vecchi e la delusione dei giovani” (p. 50) possa rappresentare la chiave d’azione per un futuro migliore (e nuovamente socialista); Jenny Chan, la coordinatrice di Sacom (Scholar and students against corporate misbehaviour), l’ ONG di Hong Kong attiva contro le disumane condizioni di lavoro nelle aziende cinesi. Anche gli intellettuali si interrogano sulla traiettoria dello sviluppo cinese.

Il sociologo Lian Si ha coniato il termine “tribù delle formiche” per definire il popolo degli impiegati e dei laureati in cerca di lavoro, per cui “sogni infranti, frustrazione, risentimento diventano (…) una sorta di pane quotidiano ingoiato con fatica crescente” (p. 81). Il giornalista Liu Hongbo, dello Yangtze Daily di Wuhan, si preoccupa dell’intreccio malsano tra capitale e potere politico, svelandone gli aspetti più controversi. Li, nome fittizio di un’ex avvocatessa dello Stato, è disillusa, convinta che “fare il giudice o l’avvocato significa solo giocare col mandarinato […] e fare affari” (p. 104) con i burocrati. Xiao Tie, Mian Mian e Da Xiong sono tre studenti che animano la comunità Lgbt in un Paese in cui i pregiudizi culturali e il culto degli avi e del lignaggio costituiscono un ostacolo alla piena accettazione sociale dell’omosessualità.

In prospettiva, ci si chiede se il dissenso si possa coagulare attorno a piattaforme collettive di rivendicazioni politiche a più ampio spettro. Afferma (p. 118) la docente femminista Dai Jinhua: “non c’è alcuna possibilità di organizzare e di incanalare questo scontento perché ancora stiamo riflettendo su quelli che potrebbero essere i percorsi alternativi, siamo ancora alla ricerca di strade diverse. Non sono nemmeno sicura che il socialismo e il comunismo possano essere le risposte. Un altro mondo è possibile, sì, ma quale?”

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