[LA RECENSIONE] L’identità nazionale nel XXI secolo in Cina, Giappone, Corea, Tibet e Taiwan

Marina Miranda (a cura di) L’identità nazionale nel XXI secolo in Cina, Giappone, Corea, Tibet e Taiwan Roma, Editrice Orientalia, 2012

 

Diversamente da quanto pronosticavano negli anni ’90 alcuni scienziati politici e giornalisti (tra questi ultimi, penso soprattutto a Thomas Friedman ne Il mondo è piatto), la globalizzazione non ha causato la scomparsa della nazione o dello Stato, bensì il loro dinamico mutamento. Le persone difficilmente rinunciano al proprio senso di appartenenza a una (più o meno vasta) collettività, che ne condiziona atteggiamenti, passioni e disciplina, anche se in contesti caratterizzati dalla modernità e dall’apertura ai flussi del capitale globale l’identità nazionale può conformarsi a nuovi archetipi. Ciò è tanto più vero nei paesi un tempo colonizzati dall’Occidente (o da altri Stati, come il Giappone), in cui l’importazione del concetto europeo di nazione, scardinando le identità preesistenti, ha provocato la nascita di un contesto politico-culturale talvolta eclettico e molto sensibile alla rielaborazione delle influenze esterne e al ripensamento del proprio ruolo nel mondo.

Nell’ambito degli studi linguistici e di area, il Dipartimento Istituto di Studi Orientali – ISO dell’Università di Roma “La Sapienza” rappresenta un prestigioso luogo di riflessione accademica sui paesi dell’Asia Orientale. Il testo segnalato questo mese, curato dalla sinologa Marina Miranda, raccoglie appunto contributi sull’identità nazionale in questa area geografica, sviluppati soprattutto da giovani ricercatori all’interno del corso di dottorato in “Civiltà, Culture e Società dell’Asia e dell’Africa”, che ne fanno un testo agevole, poliedrico, ricco di interessanti spunti per la continuazione della ricerca e del dibattito interdisciplinare anche in altre sedi.

Dopo una rassegna della letteratura sull’identità nazionale in lingue occidentali (di Luciano d’Andrea) che inquadra il tema, tre saggi sono dedicati alla Cina (identità nazionale e recupero della cultura tradizionale, di Alessandra Lavagnino; identità nazionale e nuovo nazionalismo, di Marina Miranda; evoluzione della politica delle minoranze, di Daniele Cologna), due al Giappone (il revisionismo nostalgico nella recente cinematografia giapponese, di Marco Del Bene; identità nazionale e letteratura giapponese della decadenza, di Luca Milasi), uno al Tibet (rapporto tra lingua, cultura e religione; di Donatella Rossi), uno alla Corea (identità nazionale post-coloniale; di Antonetta Bruno), e infine uno a Taiwan (la figura di Annette Lü, già vicepresidente accanto a Chen Shui-Bian; di Anna Maria Paoluzzi).

Considerato il focus della nostra rivista e lo spazio dedicato a questa recensione, ci soffermeremo in questa sede soltanto sui saggi riferiti all’esperienza cinese (non prima però di avere segnalato i godibili e illuminanti interventi sul cinema e sulla letteratura giapponese e l’interessante dibattito sul rapporto nippo-coreano), che dimostrano quanto il Partito comunista cinese (Pcc) sia abile nello sfruttare il recupero del passato in funzione identitaria e come fonte di nuova legittimazione. Rivelando un interessante esperimento di ibridazione di sacro e profano, di tradizione e progresso (che, per inciso, avrebbe fatto gioire artisti della pop art del calibro di Andy Warhol), Alessandra Lavagnino ricorda (p.35) un recente sondaggio tra giovani pechinesi, cui è stato chiesto di elencare i primi dieci simboli culturali della Cina contemporanea. Ebbene, essi sono: la scrittura cinese, Confucio, la calligrafia, la Grande muraglia, la bandiera rossa a cinque stelle, la medicina tradizionale, Mao Zedong, la Città proibita, Deng Xiaoping e l’Esercito di terracotta. Mentre in epoca maoista la cultura del passato doveva essere eliminata in quanto sinonimo di arretratezza, nella nuova “febbre per gli studi nazionali” (guoxue re) largo spazio è dato agli elementi originali (yuansu) della “cinesità”, alla “retorica del minjian, ovvero quel ‘popolare’ che si declina proprio nella riscoperta e nella valorizzazione delle mille abitudini e usanze locali” (p. 41). Rifuggendo le facili conclusioni, Lavagnino indica una traccia per ulteriori ricerche, che possano aiutare a distinguere “il recupero sincero di qualcosa di autentico, dal solerte e abile sfruttamento per scopi meramente commerciali” (p. 43): un compito non facile, appunto, considerato che anche la Cina vive ormai nella “società dello spettacolo”, se mi è concesso di prendere a prestito il titolo di una famosa opera di Guy Debord, pubblicata in Francia nel lontano 1967. Il recupero dell’esperienza storica cinese, sia (proattivamente) nella sua grandeur sia (reattivamente) nella sua ottocentesca debolezza di fronte all’Occidente, assume nella Cina post-totalitaria una forte valenza politica, come ben illustrato da Marina Miranda nel suo capitolo. Se negli anni ’80 il nazionalismo è di ispirazione liberale, “critico verso i vincoli dell’ideologia socialista” (p. 47), Tian’anmen costituisce lo spartiacque verso un nuovo patriottismo, nella definizione di Charles Tilly come “forma di nazionalismo pilotato dallo Stato” (p. 49): non a caso, al posto degli esami di scienza politica marxista vengono introdotti nei curriculum universitari corsi di educazione patriottica (ibidem). Questa fase, di cui si ricordano opere come Zhongguo Keyi Shuo Bu! (La Cina può dire no!) del 1996, ha raggiunto gli obiettivi di “distogliere l’attenzione dai problemi sociali” (p. 53) e di fare coincidere la patria-nazione con il Partito-Stato, offrendo al partito appunto “un ulteriore strumento di legittimità” (p. 56). Indubbiamente, ciò rimanda al cruciale dilemma della Cina del XXI secolo: fino a che punto gli interessi dello Stato possono essere fatti coincidere con gli interessi del partito? Che cosa succede quando il nazionalismo, scatenato a fini interni, sfugge di mano e minaccia gli interessi cinesi nel mondo? L’abilità del Pcc nel riplasmare l’identità nazionale è infine evidente anche nell’intervento di Daniele Cologna sulla “nuova retorica della diversità” (p. 67) che cerca di includere le minoranze etniche “nel discorso nazionale dominante” (ibidem), utilizzando tutti i canali (politici, economici, culturali e mediatici), così cercando di sottolineare, nella co-optazione, la diversità nell’appartenenza a una comune (grande) nazione cinese.

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