Il rebus della crescita cinese

La crisi economica mondiale rallenta la crescita cinese: nel secondo trimestre il Pil è cresciuto “solo” del 7,6% su base annua (ma uno studio della Federal Reserve Bank di Dallas evidenzia come i dati siano sovrastimati, e che in realtà la Cina sta crescendo a un ritmo del 4-5% annuo); la produzione industriale fino a luglio è cresciuta a un tasso annuo del 9,2%, contro il 14% dello stesso periodo dell’anno scorso; l’indice della borsa di Shanghai è al livello più basso da tre anni a questa parte; le aziende, quando non chiudono i battenti, riducono i profitti e la manodopera, e accumulano scorte.

Se da un lato la diminuzione della domanda di prodotti cinesi dall’Europa e dagli Stati Uniti rischia di ridurre la crescita cinese al di sotto della soglia ritenuta necessaria dalla leadership di Pechino per mantenere la stabilità politica, d’altro canto essa può anche rappresentare un’ulteriore occasione per perseguire l’obiettivo del rebalancing dell’economia, indicato di recente anche nel 12° Piano quinquennale.

Mentre Europa e Stati Uniti sono alle prese con la più grande crisi del debito pubblico degli ultimi decenni, le finanze pubbliche di Pechino potrebbero in teoria permettersi il lusso, di ricorrere a uno stimolo fiscale paragonabile a quello da 4 miliardi di yuan messo in atto nel novembre 2008: il rapporto debito/Pil in Cina è di poco superiore al 53% (di cui 27 punti percentuali sono dovuti al debito dei governi locali, 20 a quello del governo centrale, e 6 ai cosiddetti policy loans): un rapporto inferiore a quello della Germania, il cui governo ha di recente visitato Pechino con un’ampia delegazione. In pratica, non si tratta di una questione solo economica: in un anno di difficile transizione politica, allentare i cordoni della borsa sarebbe in contraddizione con le cautele espresse negli ultimi mesi dai quei dirigenti del paese – a cominciare (almeno leggendo i suoi pronunciamenti ufficiali) dal primo ministro Wen Jiabao – che ritengono necessario riformare il sistema economico anziché iniettarvi liquidità.

Ciò non significa che il governo stia a guardare: negli ultimi mesi il tasso di interesse è stato abbassato due volte, ed è anche stato ridotto l’ammontare delle riserve obbligatorie per le banche. Mentre si cerca di contenere la bolla immobiliare, si è ripresa moderatamente la spesa per infrastrutture, benché da più parti si faccia notare come molte di quelle faraoniche costruite negli ultimi anni siano assolutamente inutili e abbiano contribuito ad alimentare la corruzione dei quadri locali, come ad esempio è avvenuto per il ponte sulla baia di Qingdao o per le città-fantasma quali Ordos, nella Mongolia interna. Del resto, la quota di investimenti rispetto al Pil ha raggiunto il 49% nel 2011, un tasso mai raggiunto da altri paesi in via di sviluppo (nel Giappone degli anni ’70, in pieno boom economico, tale rapporto non è mai stato superiore al 40%).

Mantenere la crescita senza surriscaldare l’economia, anzi contribuendo a ridurne le più gravi distorsioni, sarà la sfida che dovrà affrontare la prossima generazione di leader che riceverà l’investitura dal XVIII congresso. In un recente editoriale, il settimanale The Economist ha scritto che negli ultimi mesi la politica economica cinese è andata nella direzione giusta, in quanto un intervento più massiccio non farebbe altro che accelerare il momento dell’inevitabile hard landing di un’economia cresciuta troppo rapidamente e che soffre di grandi squilibri.

La riduzione della crescita era in fondo già stata prevista dal governo cinese, e la reazione negativa dei mercati potrebbe essere dovuta più alla dipendenza dell’economia globale dalla locomotiva cinese che alle valutazioni negative sulla stabilità dell’economia cinese in sé. Questa è la tesi sostenuta da Yukon Huang, analista del Carnegie Endowment for International Peace, il quale ritiene che in un’economia più matura, con esigenze occupazionali meno pressanti di un tempo e con una popolazione sempre più anziana, conti ormai più la qualità della quantità. In quest’ottica, la Cina avrebbe sufficienti risorse per affrontare senza radicali sconvolgimenti il soft landing che l’attende. Inoltre, secondo Huang nel breve periodo il governo non avrebbe altre scelte rispetto a quelle già compiute, mentre misure di più ampio respiro, come il consolidamento del welfare state, l’apertura al settore privato di alcune aree riservate alle aziende di stato, e la liberalizzazione dei permessi di residenza nelle grandi città avrebbero un impatto reale sulla crescita di lungo periodo. Adottare queste misure significa però compiere scelte politiche molto chiare, difficili per un partito diviso al suo interno sul futuro dell’assetto politico-istituzionale.

I problemi dell’economia cinese, dopo la lunga fase del decollo, non sono così dissimili, in linea generale, da quelli che devono affrontare le economie dei paesi in via di sviluppo o in transizione, una volta raggiunta una certa maturità. Anzi, queste criticità rafforzano ulteriormente la tesi secondo cui il paradigma del Beijing Consensus sia in realtà un mito, non esistendo i presupposti per definire uno specifico “China Model” dello stato sviluppista dell’Asia Orientale se non nei termini di una variante, altrove definita dal sottoscritto “dello stato reclamante”. Il vero rischio per la Cina, che rende il prossimo congresso del Partito comunista cinese particolarmente delicato, è che l’intrecciarsi del rallentamento dell’economia (dovuto alla crisi dei mercati globali) con le difficoltà della transizione politica (riconducibili alle irrisolte tensioni interne del partito) crei uno stallo foriero di potenziali rivolte sociali, assai pericolose per la stabilità del paese e la sostenibilità della sua crescita. Senza ulteriori riforme economiche strutturali che incidano sugli assetti politico-istituzionali, ci si chiede quindi se Pechino non rischi di cadere nella nota trappola dei paesi a medio reddito (middle-income trap)

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