Il 12° Congresso del Partito Comunista del Vietnam: l’immutabile e l’effimero

La gran parte degli osservatori stranieri prima del 12° Congresso del Partito Comunista Vietnamita (CPV), tenutosi tra il 20 e il 28 gennaio 2016, ha descritto l’appuntamento essenzialmente come una lotta di potere ai vertici della piramide della struttura di potere del Vietnam, per la posizione di Segretario Generale del Partito. Secondo la maggioranza dei media occidentali tale competizione vedeva contrapporsi da un lato il Segretario Generale uscente Nguyen Phu Trong – solitamente descritto come un conservatore del Nord, su posizioni filocinesi – con i suoi sostenitori e dall’altro l’allora Primo Ministro Nguyen Tan Dung – ritratto come un riformista del Sud, filo-occidentale. Alla fine del Congresso, Dung non solo ha fallito nel suo tentativo di diventare Segretario Generale, ma nemmeno è riuscito a farsi eleggere nel Politburo. Trong ha invece visto il suo mandato come Segretario Generale esteso per due anni, e potenzialmente per cinque. Tuttavia, sarebbe sbagliato interpretare questo risultato come una vittoria di una presunta vecchia guardia favorevole a Pechino e conservatrice contro i riformisti, più giovani e filo-occidentali. Dung, infatti, non è stato rimosso a causa della sua agenda riformista, bensì perché ritenuto l’artefice di una rete clientelare che, in un sistema capitalista nepotistico come quello vietnamita, aveva promosso gli interessi di investitori stranieri e persone socialmente ben collocate, in particolare della sua stessa famiglia. In un certo senso Dung è stato vittima della popolare campagna anti-corruzione che lui stesso aveva promosso durante i suoi due mandati da Primo Ministro. Restano sconosciuti i dettagli relativi a un vociferato accordo che gli ha permesso di ritirarsi tranquillamente senza il timore di essere perseguito.

In ogni caso, il prolungamento del mandato di Trong significa la fine delle riforme e che il Vietnam non accrescerà la propria apertura all’economia e alla società internazionale? Dal nostro punto di vista probabilmente no. Innanzitutto la leadership collettiva del Vietnam nel Comitato Centrale del Partito e nel Politburo, pur racchiudendo vari clan e fazioni con differenti visioni, è tuttora impegnata a rispettare i principi del doi moi (rinnovamento) e condivide la consapevolezza che la sopravvivenza del dominio del Partito Comunista dipenda dall’adattamento a un contesto domestico e internazionale in rapida evoluzione e, soprattutto, ricco di sfide. Sia il nuovo Comitato Centrale che il nuovo Politburo sono composti da membri più giovani, radicati meno saldamente negli ideali della rivoluzione, la cui legittimità deriva dalle loro competenze economiche e manageriali. Ad esempio Bui Quang Vinh, astro nascente del CPV, ha pubblicamente invitato il partito a realizzare immediatamente riforme sia economiche sia politiche. Tipizzare i conservatori contro i riformisti, o evidenziare una distinzione tra vecchia e nuova guardia, appare un’operazione obsoleta, mentre è probabilmente più appropriato collocare i membri del Comitato Centrale e del Politburo lungo un continuum che va dai “mandarini” – per cui la fonte della legittimità risiede nella purezza ideologica – ai “tecnocrati” – più inclini a una legittimità basata sulle prestazioni.

Sotto molti aspetti, il Congresso ha fornito un’istantanea delle continuità, contraddizioni e limitazioni del Vietnam contemporaneo. A partire dal 6° Congresso del Partito del 1986, che ha attribuito un mantello ideologico al doi moi, tutti i congressi successivi tenutisi una volta ogni cinque anni hanno cercato di dargli un nuovo impulso, mantenendo però al contempo l’obiettivo di costruire un socialismo con caratteristiche vietnamite. La contraddizione tra il “rinnovamento” e la promozione di un sistema socialista conservatore radicato nella rivoluzione vietnamita è diventata per i leader comunisti sempre più difficile da controllare dato che il Vietnam, come la Cina, è diventato un’economia capitalista governata da uno Stato a partito unico. Inoltre, dinamiche domestiche nella società vietnamita fanno sì che narrative basati sulla rivoluzione non abbiano più molto fascino in una società in cui la grande maggioranza della popolazione è nata dopo la riunificazione del 1975. Non solo, ma fare appello a sentimenti nazionalistici può avere un effetto contrario, come quando le dimostrazioni anti-cinesi del 2014, provocate dalla perforazione da parte di una piattaforma petrolifera cinese all’interno della Zona economica esclusiva del Vietnam, si sono trasformate in critiche allo stesso regime comunista. Inoltre, come in altri Paesi del Sud-est asiatico, il dibattito su tematiche ambientali è diventato uno spazio di libertà politica dove la capacità di generare risposte adeguate da parte del regime è messa in discussione. Nel maggio 2016, ad esempio, la massiccia morìa di pesci causata dagli scarichi illegali e non controllati di una fabbrica di proprietà taiwanese ha portato a manifestazioni in tutto il paese, a differenza di quanto accaduto nel 2008 quando un disastro simile si è verificato nel Sud del Vietnam. Nel 2008 il disastro fu largamente ignorato, ma questa volta il governo si è rapidamente assicurato 500 milioni di dollari come compensazione dall’azienda coinvolta. In conclusione, la stessa Assemblea Nazionale non può più essere considerata un’istituzione che si limita ad apporre il sigillo a decisioni già prese come in Cina, ma piuttosto come un organo in cui il governo è chiamato a rendere conto delle proprie azioni, sebbene in un modo che non minaccia di rovesciarlo.

Questi sviluppi interni sono amplificati dal mutante contesto geopolitico e geo-economico del Vietnam. Da un lato, il comportamento assertivo della Cina nel Mar Cinese Meridionale non ha solo risvegliato la latente sinofobia della popolazione vietnamita, ma ha anche spinto la leadership vietnamita a rafforzare le relazioni con gli Stati Uniti e il Giappone. La visita del Presidente Obama a Hanoi nel maggio di quest’anno, durante la quale ha revocato l’embargo statunitense sulle armi, è stata preceduta mesi prima dalla prima visita di un Segretario Generale del CPV alla Casa Bianca, nel corso della quale Trong ha ampiamente confermato lo spostamento verso gli Stati Uniti del governo vietnamita. Il Giappone ha già fornito diverse navi al Vietnam per pattugliare la propria zona economica marittima ed è stato ventilato che fornirà al Paese aerei P-3 Orion di seconda mano per il pattugliamento marittimo.

Dall’altro lato, il futuro dell’economia vietnamita è sempre più legato all’apertura verso l’economia globale. In seguito all’accesso nell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), il Vietnam ha mirato a divenire parte dell’accordo di libero scambio Trans-Pacific Partnership (TPP) sponsorizzato dagli Stati Uniti, e ha firmato con l’Unione Europea sia un accordo quadro di partenariato e cooperazione (APC) sia un accordo di libero scambio (ALS).

Tutti gli studi indicano che il Vietnam, essendo il meno sviluppato tra i dodici membri del TPP, otterrà dalla membership i maggiori benefici economici e, contrariamente a quanto previsto, è stato pronto a garantire le concessioni necessarie. Oltre ad accettare la creazione di aree di libero scambio, il governo vietnamita ha anche acconsentito a porre fine al trattamento preferenziale accordato alle imprese pubbliche (SOEs). Il precedente Primo Ministro Nguyen Tan Dung aveva sempre visto proprio nel TPP una leva per sbloccare l’impantanata riforma delle SOEs, e dopo il Congresso queste ultime hanno accelerato la ricerca di capitali esteri per far fronte alle sfide del TPP, con buone probabilità di successo poiché multinazionali giapponesi e occidentali stanno cercando alternative alla Cina.

Il tema centrale del Congresso può essere sintetizzato nel detto vietnamita di “bat bien, ung van bien”: ricorrere all’immutabile per affrontare il transitorio. Tuttavia, qual è la natura dell’immutabile? Consiste nel ruolo centrale del CPV o del regime politico? O, ancora, nel difendere l’interesse nazionale in un ambiente internazionale che pone nuove sfide. Inoltre, la transizione verso un’economia capitalista è solo una fase transitoria verso l’istituzione del socialismo oppure, come gli sviluppi degli ultimi trent’anni suggerirebbero, un – non dichiarato – punto d’arrivo?

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