Come cambiano gli investimenti esteri in Cina

Sin dai primi anni successivi alle riforme del 1978, la Repubblica popolare cinese (Rpc) ha guardato con grande interesse all’opportunità di aprire le frontiere ai capitali in entrata dall’estero, e specialmente a quelli considerati meno volatili e quindi potenzialmente in grado di garantire maggiori ritorni sul territorio. In questo contesto, negli anni Ottanta si è assistito a una parziale apertura all’ingresso di imprese multinazionali, accompagnata dalla creazione di zone economiche speciali (Zes) con l’obiettivo di fornire incentivi all’ingresso di capitali.

Ciononostante, il decennio successivo all’inizio delle riforme è stato caratterizzato da un basso livello di investimenti. Una delle ragioni è che questo primo decennio è servito per verificare le reali potenzialità dell’apertura cinese verso un’economia di mercato. Nel 1989 gli eventi di piazza Tian’anmen mostrarono come i timori di un insuccesso del nuovo modello cinese fossero tutt’altro che infondati. Fu solamente nel 1992, con il celebre tour di Deng Xiaoping nelle province meridionali, che l’accelerazione impressa alle riforme convinse gli investitori esteri a entrare in massa nel mercato cinese. In pochi anni, i flussi di investimenti diretti esteri (Ide) in entrata nel paese aumentarono così rapidamente che la Rpc divenne in breve tra i maggiori beneficiari di Ide al mondo, attraendo da sola una quota vicina al 12-14% dei flussi globali. L’intensificarsi delle riforme fu un fattore rilevante. Venne infatti esteso il numero dei settori ammessi a ricevere investimenti e, contemporaneamente, furono create nuove Zes. Queste ultime, basate sul modello delle export processing zones (Epz), già testate altrove in Asia orientale, offrivano agli investitori diversi tipi di esenzioni fiscali, incluse esenzioni per l’importazione di beni intermedi e per le esportazioni, e garantivano nel contempo la sperimentazione di modelli aziendali e di mercato più aggressivi, tra cui l’introduzione della flessibilità salariale e l’apertura a tipologie societarie altrimenti non previste.

Ma le riforme da sole non possono spiegare il forte trend di Ide in entrata. Fattori per così dire esogeni al sistema hanno avuto un grosso ruolo. Tra questi, la contemporanea creazione di reti di produzione regionali e globali in cui i vicini paesi asiatici iniziarono a spostare parte dell’attività produttiva a più basso costo per portare avanti un processo di cambiamento strutturale verso attività a più elevato valore aggiunto. Non stupisce allora che sin dall’inizio i principali investitori in Cina fossero gli altri paesi asiatici (così come oggi, cfr. Tabella 1) e specialmente Hong Kong e Taiwan, favoriti tra l’altro dalla vicinanza culturale alla Rpc.

I grossi afflussi di Ide hanno certamente contribuito allo sviluppo economico del paese. Trattandosi di flussi di capitale con un interesse di lungo termine da parte dell’investitore, gli Ide si distinguono dai flussi più erratici (come gli investimenti di portafoglio) per la loro capacità di trasferire risorse strategiche, oltre che capitali, al paese ricevente. Nei paesi in via di sviluppo gli Ide hanno tradizionalmente contribuito a colmare il gap dovuto ai bassi livelli di risparmio interno per raggiungere il livello di investimenti fissi necessario per tassi di crescita sostenuti. Nel caso cinese, questo contributo specifico è rimasto marginale (Figura 2), anche nel periodo del boom, perché sia i risparmi sia gli investimenti fissi finanziati con risorse interne sono rimasti sempre a un livello elevato. D’altra parte, gli effetti più sostanziali degli Ide hanno a che fare con la ricaduta delle attività delle imprese a proprietà estera sul territorio. Si stima infatti che, dall’inizio del periodo delle riforme, le imprese estere abbiano contribuito per più del 50% ai flussi di commercio estero (sia in entrata che in uscita); per il 30% della produzione industriale e per il 20% dei profitti. Tutto questo impiegando solo il 10% della forza lavoro totale, segno evidente di un più elevato livello di produttività rispetto alle imprese autoctone cinesi. Questi più alti livelli di produttività hanno probabilmente contribuito a migliorare indirettamente la performance delle imprese locali, spesso legate a quelle straniere da contratti di joint venture, e si ritiene siano tra le maggiori determinanti del processo di trasformazione strutturale dell’economia cinese (e delle imprese nazionali) verso un modello produttivo più avanzato grazie all’introduzione di nuove tecnologie e tecniche produttive più sofisticate, oltre che alla circolazione di capitale umano e competenze specializzate.

Venendo ai trend più recenti – dato che la crisi economica non sembra aver scalfito l’attrattività del mercato cinese per gli investitori stranieri – sembra possibile identificare alcune interessanti nuove direzioni degli Ide. La prima è quella settoriale. Se gli anni novanta sono stati sostanzialmente caratterizzati da investimenti nel manifatturiero, l’ingresso nell’Organizzazione mondiale del commercio nel 2001 e la progressiva tendenza a liberalizzare l’accesso ai servizi ha fatto sì che questi ultimi attraessero un gran numero di nuovi investitori, come ben visibile dalla Figura 3.

Ma, oltre a questo, vi sono altre interessanti dinamiche in gioco. Indagini su campioni di investitori esteri mettono in rilievo tre tipi di criticità: il crescente costo del lavoro; l’elevato livello di concorrenza nel mercato interno; i frequenti casi di discriminazione, a livello di regolamentazione, delle imprese estere rispetto a quelle locali.

Le nuove politiche del governo verso gli Ide in entrata mirano ad accrescere i benefici per le imprese nazionali. La qualità dei nuovi investimenti è privilegiata rispetto alla quantità, nell’ottica di attrarre risorse nei settori a elevato contenuto tecnologico e con potenziale basso impatto sull’ambiente. L’obiettivo è un sistema in grado di sviluppare competenze, innovazione e sostenibilità, garantendo un nuovo modello di crescita, sostenibile e meno dipendente dall’estero.

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