[CINESITALIANI] Anche Milano avrà i suoi paifang? Storia di un equivoco, di molti malintesi e di un’occasione mancata

I paifang (牌坊) sono archi commemorativi eretti nella Cina imperiale per celebrare la particolare dignità di un luogo: l’abitazione di un letterato che ha passato gli esami per diventare funzionario dell’Impero, la tomba di una vedova virtuosa, un tempio o una via particolarmente prestigiosa, ecc. Fuori dalla Cina sono noti soprattutto per il fatto che in molte città del mondo delimitano simbolicamente le vie d’accesso ai quartieri in cui si è radicata l’esperienza storica della diaspora cinese.

La più grande e più celebre realtà di questo tipo in Occidente è sorta a San Francisco negli anni Cinquanta dell’Ottocento, dove il quartiere in cui vennero confinati i cinesi, immigrati ai tempi della grande corsa all’oro, prese il nome di “Chinatown”. Nell’ultimo quarto del XIX secolo, un acceso movimento anticinese compattò la forza lavoro “bianca” entro i confini di una color line che escludeva blacks (afroamericani) e yellow mongolians (cinesi, ma successivamente anche giapponesi e coreani) dai nascenti sindacati operai, legittimando e implementando la segregazione territoriale di queste minoranze indesiderate. Le prime Chinatown negli Usa assunsero presto i connotati di enclave etniche, create dai “bianchi” riproducendo un modello ben noto a molti degli immigrati europei del tempo: quello dei ghetti e degli shtetl ebraici. Per i cinesi, questa estrema concentrazione territoriale aveva inizialmente un significato diverso: l’esperienza della diaspora cinese storica nel sudest asiatico poggiava su comunità segregate che riproducevano fuori dalla Cina quelle medesime enclave protette e dotate di parziali diritti di extraterritorialità che l’Impero cinese da secoli garantiva alle minoranze di mercanti arabi, indiani, europei presenti in Cina. Solo la violenta esclusione dei cinesi dalla possibilità di scegliere quale mestiere fare, quale scuola frequentare, in quali ospedali farsi curare finì per rendere evidente che le Chinatown erano l’unico spazio di vita loro concesso da una maggioranza egemone e gelosa delle proprie prerogative.

Con il nuovo secolo però le cose cominciarono a cambiare, e ancora una volta San Francisco fece scuola. Il grande terremoto del 1906 provocò un immenso incendio, che rase al suolo gran parte della città, compreso il suo centralissimo ed esteso quartiere cinese. Le associazioni cinesi del tempo riuscirono a persuadere l’amministrazione locale che il quartiere andava ricostruito dov’era, ma che si sarebbe potuto investire sul suo potenziale commerciale e turistico accentuandone gli elementi d’esotismo e di colore locale. Da diversi anni, infatti, anche grazie a geniali fotografi e pittori di cartoline, Chinatown era divenuta un’attrazione per chiunque visitasse la città. Architetti americani si sbizzarrirono a reinventare il quartiere come una sorta di parco a tema dell’esotico cinese, disegnando lampioni ornati da dragoni (architetto W. D’Arcy Ryan), tetti a pagoda (architetti Ross & Burgren), segnaletica bilingue ecc. Nel corso degli anni Trenta e Quaranta i rapporti tra gli Usa e la giovane Repubblica di Cina si fecero più stretti e cordiali, soprattutto durante la seconda guerra mondiale, quando le due nazioni si unirono contro il comune nemico giapponese. Ma le leggi d’esclusione razziste che dal 1882 proibivano l’immigrazione di cinesi vennero abolite solo nel secondo dopoguerra, grazie al movimento dei diritti civili degli anni Sessanta. Nel 1970 la Chinatown di San Francisco ottenne finalmente il suo paifang, simbolo di riconciliazione e testimonianza di un retaggio storico finalmente riconosciuto e condiviso.

È bene ricordare queste vicende lontane, perché aiutano a chiarire un equivoco che caratterizza il più recente piccolo “scontro di civiltà” italo-cinese, ovvero la disputa sorta a Milano attorno alla proposta di erigere un paifang a ciascun capo di via Sarpi, il “quartiere cinese” che molti in Italia ormai chiamano abitualmente “Chinatown” (lo fa anche Google Maps). La proposta, avanzata dalle principali associazioni cinesi della città e da una delle associazioni di esercenti di quartiere (Ales), è quella di un’installazione a carattere temporaneo, progettata da architetti italiani, che mira a collocare il quartiere cinese di Milano tra le attrattive turistiche di Expo 2015. Un’iniziativa di marketing territoriale che strizza l’occhio alla Cina, partner strategico dell’Expo e probabile protagonista dei flussi turistici connessi a tale evento. Ma la principale associazione dei residenti del quartiere (Vivisarpi) e un’altra associazione di esercenti locali (Sarpidoc) hanno subito denunciato la proposta come “l’ennesimo tentativo di ridurre il proprio quartiere a un ghetto etnico”: una Chinatown, appunto. Il quartiere, rivendicano, è in maggioranza abitato da italiani, qualificarlo come “quartiere cinese” non è corretto, a maggior ragione considerato l’impatto negativo che i numerosi esercizi commerciali cinesi della zona, prevalentemente dediti al piccolo ingrosso di merci made in China, esercitano sul decoro e sul buon vivere del quartiere: scomparsa del commercio di prossimità, dello shopping di qualità, della quiete pubblica, degrado, ecc. Così hanno avviato una raccolta firme contro i paifang e a favore di un progetto alternativo, che valorizzi l’antico “borgo degli ortolani”, decorando via Sarpi con siepi fiorite e alberi da frutto. Il 23 marzo un piccolo capannello di agguerriti residenti ha organizzato un presidio di fronte a palazzo Marino, in piazza della Scala, per presentare al sindaco la propria petizione. Per colmo d’ironia, a poche decine di metri dagli striscioni e dai cartelli sfilava loro accanto un’incessante progressione di turisti cinesi, ansiosi di poter finalmente fotografare il celebre Teatro alla Scala.

Sul fatto che il quartiere Canonica-Sarpi non sia un ghetto etnico, nessun dubbio. Secondo i dati forniti dall’Anagrafe comunale, a Milano i cittadini cinesi residenti al 31 dicembre 2013 (ultimo dato disponibile) erano 25.062, la terza popolazione straniera della città dopo i ben più numerosi filippini (40.759) ed egiziani (37.073). Rappresentano comunque quasi un decimo degli stranieri residenti, e poco meno del 2% dell’intera popolazione milanese. Contrariamente al luogo comune che li vorrebbe concentrati “nella loro Chinatown”, stando alla base dati per quartiere elaborata dall’Ufficio statistica del Comune di Milano, solo 1.989 cittadini cinesi (circa l’8% del totale) risulterebbero residenti nel quartiere Canonica-Sarpi. Nella Chinatown milanese l’82% dei residenti è italiano, l’11,3% straniero di altra nazionalità. I cinesi incidono per il 6,7%, il doppio rispetto a quindici anni fa: uno ogni dodici residenti italiani. Il resto dei cinesi di Milano vive sparso in altri quartieri della città. Come avviene per molti altri immigrati, la residenzialità è più alta in quelle zone, come Niguarda, Bovisa o via Padova, dove alloggi e negozi hanno affitti più bassi. Vi risiede il 71% dei cinesi della città e negli ultimi dieci anni la loro presenza è cresciuta a ritmo due o tre volte più rapido che in Canonica-Sarpi.

Nell’autunno 2014, l’Unione artigiani della Provincia di Milano e di Monza-Brianza, sulla base di dati forniti dalla Camera di commercio di Milano, ha reso noto che le imprese con titolare cinese presenti sul territorio provinciale milanese sono 4.668. Secondo una rilevazione realizzata sul campo dall’Agenzia di ricerca sociale Codici nel 2014, 467 di queste imprese (circa il 10% del totale provinciale) oggi hanno sede nel “quartiere cinese”, ovvero nel parallelepipedo iscritto all’interno delle vie Montello, Ceresio, Procaccini, Canonica e Maggi. Per tipologia tali imprese si conformano ampiamente al dato nazionale, che vede oltre il 70% dei titolari d’impresa individuale cinese attivi in imprese dei servizi, in prevalenza ristoranti e negozi (dati Cgia di Mestre/Unioncamere, 2014).

Come mostra la Tabella 2, nel quartiere non esiste più alcuna impresa manifatturiera o artigiana cinese. Il 68,7% di tutti i negozi con vetrina su strada è a conduzione cinese. Questi ultimi per il 60,4% sono negozi dediti al piccolo ingrosso, che usano il proprio spazio limitato come show room per merci che possono essere anche stoccate altrove. Il 15,8% è costituito da negozi al dettaglio, mentre il rimanente 23,8% sono ristoranti, bar, parrucchi