Università cinesi al bivio

Il sorpasso dell‟economia cinese su quella del vicino Giappone in termini di Pil aggregato ha suscitato una miriade di commenti che vanno dalle riflessioni sulla presunta maggiore efficacia del modello di capitalismo di Stato à-la-chinoise, a allarmate previsioni per le conseguenze di un futuro primato assoluto della Cina, una volta superati anche gli Stati Uniti. Un simile scenario può apparire remoto, ma non si può negare che Pechino continui a contare su una grande disponibilità di fattori cruciali per la crescita economica: vaste estensioni di territorio ancora da sfruttare, un enorme serbatoio di forza lavoro (per ora) e ricche dotazioni di capitale. Piuttosto, quel che preoccupa la dirigenza cinese è la manifesta difficoltà nell’incrementare quella che in economia si conosce come Total Factor Productivity (Tfp). È il capitale umano, in particolare, a presentare un certo deficit in termini di capacità di generare invenzione e innovazione, requisiti importanti non soltanto per il ciclo produttivo, ma anche per irrobustire il soft power di una nazione.

Che la questione sia fondamentale per il futuro della Repubblica Popolare Cinese (Rpc) è confermato da due recenti interventi dei massimi esponenti della leadership cinese: Li Changchun, membro del Comitato Permanente del Politburo del Partito Comunista Cinese (Pcc, il massimo organo politico in Cina), ha sottolineato l‟urgenza di promuovere innovazione e utilizzo delle nuove tecnologie a beneficio della cultura cinese, mentre il premier Wen Jiabao si è dichiarato favorevole a una celere e sostanziale riforma delle università cinesi.

L’attuale situazione è peraltro insostenibile: sebbene l‟accesso all’università – e soprattutto a uno dei C9, i nove atenei più prestigiosi del Paese – sia un traguardo agognato dalla gioventù cinese urbanizzata, i cinque milioni di matricole che varcano i cancelli delle oltre duemila università cinesi ogni anno entrano in ambienti regolati più da scelte politiche che strettamente accademiche. La Rpc può oggi vantare due sole istituzioni universitarie (la Peking University e la Tsinghua University di Pechino) tra le prime 100 al mondo, al pari delle ben più piccole Corea del Sud e Singapore e contro 8 dell‟Australia, 18 del Regno Unito e ben 32 degli Stati Uniti. In un circostanziato articolo su Foreign Affairs, Richard Levine, rettore della Yale University, ha esaminato la possibilità che le università dell’Asia conquistino una posizione di prestigio a livello globale nei prossimi decenni, concludendo che la capacità di attrarre ricercatori dall’estero e di stimolare il pensiero critico degli studenti sono le due principali sfide che la Cina è chiamata ad affrontare.

Il problema è ancor più acuto nel campo dei dottorati di ricerca: secondo un’inchiesta del quotidiano cinese China Daily, infatti, a fronte del quintuplicarsi del numero di dottorandi tra il 1999 ed il 2009 (il totale si attesta oggi intorno alle 250.000 unità), il livello qualitativo della formazione è pesantemente calato. Una delle cause è meramente numerica – troppi candidati per il numero di tutor disponibile –, ma vi sono almeno due altri fattori critici. Il primo è di carattere storico: la gran parte dei docenti che oggi si trovano nelle posizioni più avanzate hanno iniziato la propria carriera accademica all‟indomani della Rivoluzione Culturale, quando il caos ideologico dell‟epoca maoista fece tabula rasa di un‟intera generazione di studiosi, facendo mancare agli attuali una base su cui poter costruire la propria esperienza e sapere accademico. La seconda problematica è legata, invece, a un più prosaico discorso di struttura degli incentivi: nella società cinese attuale le menti migliori vengono per la maggior parte risucchiate dal settore privato, che remunera meglio e garantisce uno status sociale di gran lunga preferibile. Pertanto, sia la qualità del personale delle università, sia le sue motivazioni tendono a livellarsi verso il basso.

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