[ThinkINChina] Da vassalli a signori. La grande strategia della CIna secondo Edward Luttwak

ThinkINChina è un’“open academic-café community” attiva a Pechino, luogo di dibattito tra giovani ricercatori e professionisti di varia provenienza impegnati nello studio della Cina contemporanea.

Edward Luttwak, Senior associate del Center for International and Strategic Studies di Washington e già consulente del Dipartimento di Stato e del Consiglio per la sicurezza nazionale Usa, è stato l’ospite di ThinkINChina il 22 settembre scorso, per un seminario in cui ha discusso le ragioni per cui la Cina non ha ancora elaborato una compiuta strategia sul suo ruolo nell’ordine globale.

Secondo Luttwak, la logica della strategia e tutto ciò che ne deriva, inclusa l’idea dell’equilibrio di potenza, per esempio, è intrinsecamente universale e senza tempo, ma ogni clan, tribù, nazione e Stato la interpreta secondo i propri peculiari costrutti politici.

Similmente, il senso elementare di centralità che ogni comunità politica elabora rispetto a se stessa assume diverse forme nella storia, dalla quieta sicurezza del Regno di Danimarca al ben noto costrutto cinese di Tianxia (天下). Letteralmente “sotto il cielo”, versione abbreviata di “tutto ciò che sta sotto il cielo”, o più significativamente “la legge di tutti gli uomini”, Tianxia definisce un sistema nazionale e internazionale costituito da cerchi concentrici che si sviluppano intorno a un imperatore benevolente verso il mondo – oggi il Presidente Xi Jinping, o, forse più correttamente, il gruppo di sette leader che costituiscono il Comitato permanente del Politburo del Partito comunista cinese.

In quest’ottica, il cerchio più interno è formato dal resto del Politburo e dai massimi funzionari del Partito-Stato, mentre il cerchio più esterno arriva a comprendere le Isole Salomon. In mezzo, tutti gli altri cinesi – dai funzionari ai magnati, passando per i cittadini ordinari e i cinesi all’estero –, i quali hanno a loro volta i propri cerchi concentrici, così come gli altri Stati sovrani piccoli e grandi, vicini e lontani.

È un obiettivo tradizionale e di lungo termine della politica estera cinese portare ogni singolo Stato ad avere un adeguato rapporto con l’imperatore – vale a dire una relazione tributaria in cui ogni comunità politica offra a Pechino beni e servizi, quantomeno come simboli di fedeltà, in cambio di sicurezza, prosperità e ancor più per ricambiare il privilegio della vicinanza a un imperatore globale e benevolente. Tutto ciò non è che un’interpretazione eccezionalmente elaborata di ambizioni universali, che sono particolarmente elevate in un attore grande quale è la Cina.

Luttwak sostiene però che sia errato identificare nel sistema tributario di epoca Ming o Qing la matrice di una prospettiva egemonica globale made in China. Non c’è infatti nulla di prettamente cinese nell’intento di indurre gli altri Stati in una relazione tributaria: una tipologia di rapporto più conveniente di una completa annessione – indesiderabile per varie ragioni – e chiaramente preferibile rispetto a un’alleanza tra pari, che, richiedendo reciprocità, risulta costosa e non di rado problematica. Sin da tempi immemorabili, clan, tribù, potentati e nazioni intere hanno operato per imporre rapporti tributari a clan, tribù, potentati e nazioni più deboli, ottenendo vantaggi materiali in cambio di protezione o quantomeno come segni di rispettosa subordinazione. Gli imperatori cinesi non hanno mai voluto più di questo, e, a differenza di molti riceventi, spesso hanno ricambiato con doni di valore ben superiore a quello dei tributi ricevuti (così come avveniva per alcuni imperatori bizantini). Ciò che Luttwak identifica come tratto peculiare della cultura politica cinese, di grande rilevanza oggi, è una dottrina molto specifica circa il metodo con cui imporre a potenze straniere – inizialmente più potenti dell’impero stesso – una relazione tributaria. L’ipotesi più accreditata fra gli specialisti è che tale dottrina sia emersa dal lungo (III secolo a.C.-I secolo d.C.) ma in ultima istanza vincente confronto tra l’Impero cinese e gli Xiongnu, 匈奴, confederazione di tribù nomadi che diede vita a forme protostatuali successivamente emulate dai Mongoli.

Formidabili cavalieri capaci di sopportare estenuanti campagne militari, per secoli gli Xiongnu depredarono ed estorsero tributi ai meno abili e marziali cavalieri Han, finché questi ultimi non furono in grado di organizzare una resistenza efficace. Seguirono 147 anni di guerra ininterrotta, finché Huhanye (呼韓邪), il Chanyu (Qagan, Khan) supremo degli Xiongnu, personalmente e formalmente si sottomise all’imperatore Han Xuandi nel 51 a.C., accettando di lasciare il proprio stesso figlio come ostaggio e di consegnare un tributo in qualità di vassallo. Fu questo un colpo esiziale allo status della famiglia dei Chanyu, che fin dal 200 a.C. aveva invece ricevuto tributi dell’imperatore cinese.

È proprio questa progressiva trasformazione di una potenza superiore in interlocutore alla pari e poi in Stato-cliente ad aver lasciato una traccia indelebile nell’arte di governo cinese. Questo obiettivo strategico viene perseguito attraverso quello che Luttwak descrive come uno specifico “kit per la gestione dei barbari”, secondo l’insegnamento del consigliere imperiale Lou Jing (婁敬) risalente al 199 a.C. Il metodo proposto da Lou Jing fu adottato in un’epoca in cui gli Xiongnu esprimevano appieno la loro potenza in campo militare e l’impero Han era non solo tatticamente inferiore, ma anche attraversato da divisioni politiche interne, tanto che un trattato del 198 a.C. aveva stabilito il pagamento di un tributo annuale (in seta e grano) da parte della corte cinese ai Chanyu, nonché matrimoni dinastici formalizzati da una serie di lettere imperiali che esplicitavano la pari dignità della confederazione Xiongnu rispetto all’impero cinese.

Il primo strumento impiegato secondo questo “protocollo” per l’interazione con i barbari viene normalmente tradotto come “corruzione”, ma è probabile che i concetti di “dipendenza”, o meglio di “dipendenza economica indotta”, siano più precisi: gli Xiongnu, originariamente indipendenti, dovevano essere resi economicamente dipendenti dai beni prodotti dagli Han, a partire da vestiti di seta e lana al posto delle rozze pellicce e del feltro. In un primo momento questi beni venivano inviati gratuitamente come tributo non corrisposto: in seguito, una volta che gli Han fossero divenuti più forti, sarebbero stati forniti solo in cambio di altri beni e servizi.

Il secondo strumento di manipolazione dei barbari è normalmente tradotto con “indottrinamento”: gli Xiongnu dovevano essere persuasi ad accettare il sistema di valori confuciano, autoritario, gerarchico e collettivistico, in netto contrasto con il “codice” della steppa, fondato sulla lealtà volontaria a un eroico leader combattente e nomade. Un beneficio immediato derivante all’impero Han dalla conversione dell’impianto normativo di riferimento degli Xiongnu verso il modello cinese era dato dal fatto che, una volta sposata una figlia dell’imperatore cinese, il figlio ed erede del Chanyu sarebbe stato eticamente subordinato all’imperatore. Nel lungo periodo, l’efficacia di questo secondo strumento fu ben maggiore, minando alla radice l’intera cultura politica degli Xiongnu, al punto da renderli culturalmente, psicologicamente ed economicamente dipendenti dalla benedizione imperiale, consapevolmente estesa in modo fraterno quando gli Han erano deboli, e ritirata con disprezzo dopo che gli Xiongnu furono ridotti in condizione di vassallaggio. Quel che è accaduto tra l’impero Han e gli Xiongnu dal trattato paritario del 198 a.C. al trattato di vassallaggio Xiongnu del 51 a.C. rimane ancora oggi il precedente più significativo per comprendere come la Cina interagisca con interlocutori percepiti come più potenti – identikit che corrisponde agli Stati Uniti nell’attuale visione del mondo di Pechino, secondo Luttwak.

Il metodo si articola secondo una precisa sequenza logica. Prima fase: iniziare concedendo tutto ciò che è necessario alla potenza superiore, compreso il tributo, al fine di evitare atti ostili e ottenere la tolleranza che viene offerta. In ragione della straordinaria ricchezza della Cina, questa politica di per sé intrappola la classe dirigente della potenza ancora superiore in una rete di dipendenza materiale che alla fine riduce la vitalità e la forza della sua indipendenza. Seconda fase: offrire una relazione bilaterale paritetica nel contesto di un bipolarismo privilegiato che esclude tutte le potenze minori, o “G-2” nel linguaggio corrente. Ciò finisce per neutralizzare l’ancora potente controparte, e la isola dai potenziali alleati, impedendole di bilanciare la Cina attraverso una coalizione. Terza fase: quando la potenza superiore è stata indebolita a sufficienza, ritirare simboli e promesse di uguaglianza e imporre una vera subordinazione.

Negli ultimi anni, il governo cinese ha deciso – secondo Luttwak molto prematuramente – di riaprire gli occhi del mondo alle sue ambizioni territoriali in classico stile imperiale, chiedendo la cessione di terre, scogli, rocce e acque marine a India, Giappone, Malesia, Filippine e Vietnam. Se prima del periodo 2008-2010 la leadership di Pechino era giunta a un passo dal perfezionare la fase dell’uguaglianza formale con gli Stati Uniti, l’agenda irredentista improvvidamente propugnata da Pechino ha disturbato la narrativa del Tianxia come sistema internazionale alternativo e più armonioso. Sull’attualità e sulla pervasività di questo processo manipolatorio, ora gravemente compromesso se non del tutto interrotto, Luttwak cita a titolo esemplificativo il noto volume On China in cui, dopo 526 pagine di retrospettive storiche e reminiscenze personali, Henry Kissinger propone la propria visione di una “Comunità del Pacifico”, sorta di armonioso “G-2” tra Stati Uniti e Cina auspicato dall’autore in virtù di una lettura delle intenzioni cinesi come fondamentalmente benevole. Per Luttwak il G-2 di Kissinger è identico al concetto sostenuto con continuità da funzionari cinesi di massimo rango come Zheng Bijian (郑必坚) dall’inizio degli anni 2000: è la famosa “ascesa pacifica”.

Secondo Luttwak, l’obiettivo della dirigenza cinese è tuttora quello di costruire una relazione privilegiata e paritetica tra Pechino e Washington. Per conseguirlo, occorre isolare gli Usa dai potenziali alleati, inducendoli ad accettare una condizione di uguaglianza e le connesse limitazioni, così da impedire il bilanciamento della Cina ad opera di una più o meno conclamata coalizione di Stati. In effetti, Kissinger suggerisce una leadership congiunta cinese-americana nel Pacifico, che permetterebbe ad altri grandi paesi come il Giappone, l’Indonesia, il Vietnam, l’India, l’Australia di partecipare alla costruzione di un sistema percepito come comune e condiviso, piuttosto che polarizzato tra un blocco cinese e un blocco americano. Luttwak mette in luce il rischio intrinseco di questo progetto: privati del sostegno americano di fronte all’incalzare delle istanze cinesi, costretti al ruolo di spettatori di un’intesa sino-americana, gli alleati attuali e potenziali degli Stati Uniti dovrebbero adeguarsi, dissolvendo l’unico potenziale contrappeso di lungo termine alla Cina: la coalizione di tutte le potenze minori minacciate dal suo espansionismo.

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