Territorio, autodeterminazione e/o rivoluzione: dalla Pechino del 4 maggio 1919 alla Hong Kong del 2019

L’ironia della storia ha voluto che proprio nell’anno in cui si è celebrato il centenario del 4 maggio 1919 – ossia della prima manifestazione di piazza della Cina moderna, una pietra miliare per la costituzione del Partito comunista – a Hong Kong sia scoppiata una protesta di portata epocale, che per molti versi riecheggia quella del secolo scorso, con la sola ma vistosa differenza che il movimento attuale non può che essere profondamente inviso al governo. Identico è il soggetto politico: oggi, così come all’alba della lunga rivoluzione cinese, sono i giovani e i giovanissimi a dominare la scena, anche se nel 1919 erano appena tremila gli studenti radunati in piazza Tian’anmen, mentre le immagini che giungono dalla ex colonia britannica mostrano una folla oceanica, che il 16 giugno è arrivata a sfiorare i due milioni di persone.[1] Identica è pure la rivendicazione stante alla base dei due movimenti: il desiderio di una democrazia diretta, partecipativa ed esercitata dal basso. Laddove cento anni fa tale desiderio si esprimeva nel rifiuto delle decisioni prese dall’alto dalle cricche militari dei Signori della guerra (jūnfá, 军阀), nonché dal Giappone e dalle grandi potenze convenute a Versailles dopo la fine della Prima guerra mondiale, oggi i giovani di Hong Kong reclamano il suffragio universale e quindi il diritto di avere voce in capitolo per quanto attiene la politica interna del proprio territorio, dopo aver ottenuto il ritiro della proposta di legge sull’estradizione avanzata dalla Governatrice Carrie Lam nel febbraio 2019.  Infine, assai simile, se non identica, è la lettura faziosa che il Pcc applica ad entrambi i movimenti, sbrigativamente etichettati come patriottici o come indipendentisti: nel primo caso l’etichetta è un complimento, nel secondo equivale ad un’ingiuria. Ambedue i movimenti sono però oggetto di manipolazioni che vedono i fatti storici e le dinamiche attuali strumentalmente distorti.

Per quanto riguarda il Movimento del 4 maggio 1919, non è mai stato particolarmente difficile sviarne il significato storico riconducendolo alla sola parola d’ordine dello àiguó, 爱国, dell’amor patrio inteso in chiave prettamente nazionalistica; ad esempio, il “Manifesto di tutti gli studenti di Pechino”, scritto dal redattore della nota rivista Xin Chao Luo Jialun e fatto circolare fra i giovani radunatisi in piazza, conteneva numerosi assunti che prestano il fianco a tale interpretazione, come “la Cina appartiene ai cinesi”, “tuteliamo la nostra sovranità”, “restituiteci Qingdao”… Il documento nella sua conclusione addirittura culminava nella duplice affermazione “1) il territorio cinese può essere conquistato, ma non deve essere ceduto; 2) il popolo cinese può accettare il massacro, ma non la resa”.[2]

Questi enunciati patriottici, avulsi dal più ampio contesto del Movimento della Nuova Cultura degli anni Dieci del secolo scorso, e quindi dalla doppia critica alla vecchia cultura confuciana e imperiale da un lato ed al fallimento della neonata Repubblica dall’altro, nelle ere successive hanno alimentato la narrazione nazionalista su cui il potere ha cementato la propria legittimità. Tuttavia, se ci si rifà alle fonti storiche di prima mano, a Gioventù Nuova innanzitutto, così come alle altre riviste dell’epoca, emergerà prepotente lo scarto fra il senso originario di quell’amor di patria e il ben più recente culto della nazione.

Per esempio, il famoso “Appello ai Giovani” di Chen Duxiu, uscito sul numero inaugurale di Gioventù Nuova e da sempre considerato il documento programmatico del Movimento della Nuova Cultura, al punto 4 raccomandava: “Siate cosmopoliti, non isolazionisti”.[3] In sintonia con le teorie organiciste ed evoluzioniste in voga in quel momento, nel testo la nazione veniva paragonata ad un pelo rispetto al più vasto corpo del mondo, quindi per Chen Duxiu essa non andava considerata come un’entità a se stante, tantomeno come un oggetto di culto, quanto piuttosto come un pezzo di un ingranaggio complesso, le cui parti sono interdipendenti.

Ancora, si coglie con maggior precisione il senso precipuo del termine àiguó all’inizio del secolo scorso se lo si ricontestualizza a partire da un altro documento fondamentale dell’epoca, il “Resoconto del Movimento del 4 maggio”, scritto in prima persona dall’attivista anarchico Kuang Husheng, uno dei cinque manifestanti in testa al corteo che nel corso di quell’epocale giornata irruppero nella residenza di Cao Rulin, il corrotto ministro del Signore della guerra Duan Qirui, e vi appiccarono fuoco.[4] Già il fatto che uno degli esponenti più radicali della protesta, un fervente patriota che arrivò a provocare un incendio in casa di uno dei “traditori del paese” (màiguózéi, 卖国贼), fosse un anarchico seguace di Kropotkin – qualcuno quindi ai cui occhi gli Stati e i confini nazionali sono solo forme oppressive di un potere arbitrario – ci dice che il suo “patriottismo” difficilmente coincide con quello comunemente noto. Inoltre, leggendo il “Resoconto” è pressoché impossibile non notare che il nemico veniva identificato nel proprio governo, anziché nelle potenze straniere o nel Giappone, a cui pure erano stati appena ceduti, a mo’ di bottino di guerra, i diritti territoriali tedeschi sulla provincia dello Shandong.

Troveremo ben poca propaganda antigiapponese nelle vivide e dettagliate memorie del giovane Kuang; viceversa, non si lesinano le critiche nei riguardi dei connazionali Duan Qirui, Cao Rulin, Lu Zongyu, Zhang Zongxiang. Costoro infatti avevano preso accordi sotto banco con Tokyo, promettendo un’intera regione cinese in cambio di fondi e sovvenzioni per la propria cricca militare, riducendo così la politica e la res publica alla privatissima “diplomazia segreta” e a quel “mondo di banditi” descritti con impietosa precisione da Li Dazhao.[5]

Di Li Dazhao appunto si riporterà qui un passo che chiarisce il senso della protesta del 4 maggio 1919 e riassume i ragionamenti di Kuang Husheng:

“Ci sono governi banditeschi che si servono della diplomazia segreta per farsi dono l’un l’altro di regioni abitate da esseri umani, allo scopo di estendere così la base della loro potenza banditesca. (…) Se dunque ci opponiamo alle decisioni riguardanti lo Shandong prese dalla Conferenza europea per la spartizione del bottino, non lo facciamo per ottuso patriottismo, ma per resistere all’aggressione e ai comportamenti banditeschi”.[6]

Non si trattava dunque di rivendicare un’identità locale, né di respingere lo straniero in quanto straniero: il nodo reale era la democrazia, piuttosto; benché in quest’era di proliferazione di serie televisive dedicate alla resistenza della Cina all’invasione giapponese il Quattro Maggio sia stato addomesticato ad uso e consumo di tali serie, è lecito sostenere che la posta politica in gioco nel 1919 fosse in realtà tutt’altra.

Parimenti, tornando al tempo presente, il governo cinese, gli organi di informazione ufficiali e una parte della stampa estera sostengono che quella di Hong Kong sia una contestazione anticinese, razzista, arroccata nel mito della propria piccola patria e per giunta manovrata dall’esterno, in particolare dagli Stati Uniti. Da luglio il Quotidiano del Popolo ha cominciato ad agitare lo spauracchio della “rivoluzione colorata” (yánsè gémìng, 颜色革命) pilotata da fuori, mentre il mese successivo il Global Times è giunto ad usare il termine “terrorismo” per classificare le azioni violente avvenute il giorno 11 agosto ai danni delle forze dell’ordine cinesi, quando alcuni manifestanti sono arrivati a lanciare delle bombe molotov ed altri oggetti contundenti.[7] Da allora sino al momento in cui viene stilato il presente articolo, il governo centrale ha inviato a Shenzhen, quindi a pochi chilometri da Hong Kong, truppe e mezzi blindati e non ha fatto nulla per nasconderne la presenza al mondo, anzi.[8]

Dunque, come giudicare la protesta in corso, al di là dei resoconti dei media governativi? La marea umana che in questi giorni sta saturando le arterie urbane dell’ex colonia è invero di difficile classificazione. L’anima localista e fortemente identitaria indubbiamente esiste all’interno del movimento e gode di ampi consensi, anche se è ben lungi dal detenere la posizione egemonica che la stampa di Pechino le attribuisce. Non sono affatto tutti anticinesi, insomma, né xenofobi, anche se è altresì vero che già da anni la popolazione di Hong Kong mostra segni di forte insofferenza verso chi arriva dal continente a scippare risorse o ad approfittare di un miglior sistema di welfare, come ad esempio segnalava la BBC in un’inchiesta risalente al 2012.[9]

È incontestabile il fatto che ai continentali sia stato affibbiato il nomignolo di “locuste”, per sottolineare il carattere predatorio e le modalità non del tutto pulite con cui costoro conducono i loro affari nella Regione a statuto speciale; tuttavia la natura stessa dell’insulto svela la sua radice economica e politica, più che etnica, suggerendo quindi come pure la più accesa intolleranza in realtà origini da circostanze storiche recenti, dai mutamenti socioeconomici avvenuti nell’ultimo ventennio, e non da fattori culturali di lungo corso. Gli abitanti di Hong Kong, infatti, appartengono prevalentemente alla stessa etnia cinese Han e solo una limitata (ancorché significativa) minoranza proviene da altri gruppi (Hakka, per esempio, o si pensi anche alla forza lavoro migrante giunta dalle Filippine e dall’Indonesia); ciò comunque non toglie che l’identità locale abbia un peso considerevole, per quanto essa non si scontri necessariamente con l’affiliazione alla più vasta comunità degli Han, come si cercherà di dimostrare più avanti. Ma procediamo per gradi.

Il cartello utilizzato da un partecipante alle proteste di Hong Kong che invita a “essere acqua”, citazione di Bruce Lee adottata per descrivere la fluidità del movimento creatosi contro la proposta di legge per l’estradizione (immagine: Mary Hui via New Statesman).

Come rilevava Anita Chan in un intervento sulla rivista Made in China, il cantonese è largamente in uso nei cortei e nei messaggi che gli attivisti lasciano sul Lennon Wall a Taipo, per non parlare di Telegram, Facebook o Lihkg, dove i manifestanti si scambiano continui commenti e dove viene presa buona parte delle decisioni tattiche.[10] La scelta del vernacolo locale a scapito della lingua comune nazionale è sintomatica e contiene un’ovvia rivendicazione identitaria, la quale peraltro si trova perfettamente riassunta nello slogan, metà in mandarino e metà in cantonese, “non siamo dei teppisti, siamo la gente di Hong Kong” (我們不是暴徒,我地系香港人).[11] La sottolineatura territoriale così marcata insinua non solo che l’eventuale ricorso alla violenza è in una certa misura giustificato dall’esigenza di difendere il proprio luogo di nascita, ma anche che la “teppa”, semmai, sono gli altri, i non-hongkonghini.

Pure la parola d’ordine più nota e riportata all’unanimità dai media, “be water” (in inglese), se da un lato è una dichiarazione programmatica di fluidità che mira a rompere gli argini consueti della protesta, ingiungendo a muoversi senza seguire piani prestabiliti e soprattutto senza restare inchiodati al territorio – smarcandosi così dalle strategie classiche di occupazione e dunque anche dalla precedente esperienza di Occupy Central – dall’altro non ricusa il richiamo identitario. Lo slogan completo difatti recita: “Be water. We are formless. We are shapeless. We can flow. We can crash. We are like water. We are Hongkongers!”.[12]

Solo l’ultimo enunciato indica l’esistenza di un soggetto politico chiaro, fisso, delineato con una precisione che quasi stona con la voluta e strategica vaghezza affermata nelle frasi precedenti. La fluidità è certamente il tratto più spiccato del movimento e si traduce nell’uso delle app e dei social, che coinvolgono il maggior numero possibile di persone nei processi decisionali, mentre dall’altra parte consentono l’istantaneità della comunicazione. Ciò che succede in strada può essere deciso momento per momento, senza passare obbligatoriamente per un’assemblea che concordi in via preliminare percorsi e modalità della protesta. Tale contestazione liquida e “open-source”, poi, non a caso è priva di leader: gli attivisti stessi sottolineano il valore strategico di questa scelta ricordando i tanti arresti dei capi movimento ai tempi della Rivolta degli ombrelli, anche se almeno a chi scrive questa sembra una spiegazione soltanto parziale. Giacché, scorrendo le innumerevoli immagini della protesta disponibili in rete, balzerà agli occhi soprattutto di chi ha una certa esperienza di cortei e manifestazioni la singolare penuria di cartelli, bandiere, striscioni – in breve, dei più classici segni di riconoscimento di uno schieramento politico: è come se la marea di Hong Kong marciasse nuda, esibendo solo la propria presenza fisica, con l’unica eccezione delle prime linee dei giovani militanti radicali, che sono invece riconoscibilissimi, dato che sono attrezzati di tutto punto per la resistenza attiva e per lo scontro con le forze dell’ordine.

Il movimento, come già si accennava, è estremamente composito. I gruppi organizzati ed i partiti, come il Civil Human Rights Front o Demosisto di Joshua Wong, stando alle analisi di Au Loong Yu e di altri studiosi e attivisti, pur svolgendo una funzione logistica importante, non riescono a mettersi alla testa della moltitudine. Le grandi organizzazioni tra l’altro sono le più esposte alle interferenze esterne – e non è da escludere che qualcuna di queste sia davvero finanziata dagli Stati Uniti, dalla NED (National Endowment for Democracy), come sostiene la stampa mainstream del continente,[13] tuttavia la massa dei manifestanti non si lascia dirigere né influenzare da alcun gruppo specifico.[14] “Per ora, nessuno è autorizzato a parlare a nome del movimento (…) Qualunque cosa accada, si può dire che stia emergendo dal suo interno un’area in cui si discreditano e svaniscono tutti i protagonisti visibili e riconoscibili delle precedenti sequenze di lotta: i partiti, i gruppi studenteschi, i populisti e l’estrema destra nazionalista. È un’area popolata da ombre, da echi, da mormorii; al momento, il centro rimane vuoto”, scrive un attivista anarchico di vecchio corso, che ripercorre la storia delle mobilitazioni a Hong Kong, dagli Ombrelli ad oggi.[15]

Secondo Au Loong Yu, la protesta catalizza un variegato arcipelago di soggettività differenti, spesso in netta contraddizione le une rispetto alle altre, fra cui è possibile identificare a un dipresso quattro blocchi: 1) il già citato fronte civile dei partiti politici, dei sindacati e delle Ong che, benché non detenga alcuna egemonia, offre appoggio logistico e funge da scudo protettivo ai giovani più radicali; 2) la gioventù radicale, nella cui prima linea militano diverse migliaia di individui. Costoro reclamano in modo molto chiaro la democrazia e allo scopo si servono di strategie di lotta anche piuttosto sofisticate, pur non avendo una particolare formazione politica. Possono appoggiare la propaganda anticinese e sulle loro t-shirts si accampa la scritta “Io sono di Hong Kong”, ma in genere non sono razzisti; alcuni di loro sperano addirittura che la protesta finisca per contagiare il continente. 3) I localisti e nativisti xenofobi, vicini alle posizioni di un partito come Youngspiration (Qīngnián Xīnzhèng, 青年新政), che nel suo programma chiede la revoca della cittadinanza per tutti i residenti incapaci di parlare il cantonese e l’inglese. Saliti alla ribalta dopo la sconfitta del Movimento degli ombrelli e molto forti sino al 2016, i localisti sono oggi uno schieramento fra gli altri, anche se non ne va sottovalutata l’incidenza. 4) Gli operai e attivisti del lavoro che il 5 agosto hanno indetto lo sciopero generale. Dallo sciopero, per quanto riuscito ed assai partecipato, non sono emerse richieste specifiche, a riprova di quanto ogni singolo blocco censuri le parole d’ordine che potrebbero risultare divisive.[16]

In breve, l’eterogeneità è tale da impedire la messa a fuoco di interessi specifici e quindi la creazione di un programma politico vero e proprio: le richieste si fermano alla questione cruciale ma generica del suffragio universale, oppure a domande legate alla stretta contingenza, quale l’avvio di un’inchiesta sulle violenze perpetrate dalla polizia contro i manifestanti e la liberazione degli attivisti ora in carcere. In questo quadro, non è chiaro se la democrazia invocata all’unanimità coincida con il modello occidentale classico di democrazia rappresentativa, o con un demos di matrice populista intrappolato nell’eterna dialettica “noi, la gente” contro “voi, i potenti”, o ancora se non alluda invece ad una reinvenzione politica più originale e sostanziale condotta dal basso. Parimenti, il significante “Hong Kong” a cui tutti di continuo si appellano può rimandare tanto al simbolo di una modernità cresciuta di pari passo con il porto, con lo snodo logistico della Cina nella fase in cui questa era la “fabbrica del mondo”, hub asiatico della globalizzazione neoliberista, quanto ad un’identità locale che resiste al livellamento imposto da quella medesima modernità, la quale oggi è incarnata con più efficacia e, si direbbe, anche con maggior ferocia dal continente.

Come sostiene l’attivista anarchico sopraccitato,[17] forse proprio a causa di tali ambiguità e del carattere fluido, indefinito del movimento, in esso serpeggia un “populismo di default”. Il quale però agirebbe soprattutto come un sintomo di una più articolata “psicopatologia politica” così che anche i vari attori in campo, i democratici liberal come i localisti d’estrema destra o gli stessi anarchici, non sarebbero altro che le diverse manifestazioni fantasmatiche dell’“inconscio cittadino”. Il sogno condiviso da tutti coloro che oggi gridano “io sono di Hong Kong” – l’autodeterminazione – è certo un’arma a doppio taglio. Tuttavia non ha in sé un significato regressivo, se non quando si mescola con il discorso localista, tingendosi di razzismo, di xenofobia agita che, paradossalmente, nel suo essere anticinese fino in fondo, fa il gioco del Pcc e dei media ufficiali: questi difatti ogni giorno confezionano articoli vittimisti sulle vessazioni che polizia e stampa subiscono da parte dei manifestanti. L’autodeterminazione nel suo senso più alto invece, oggi come ai tempi del Quattro Maggio, traduce il bisogno di prendere la parola in prima persona, senza lasciarsi condizionare da una potenza esterna (la Cina, in questo caso), o dal proprio governo.

Chi scrive ammette di non conoscere abbastanza a fondo la società di Hong Kong per portare avanti il ragionamento dell’attivista anarchico, ma la sua lettura “sintomatica” potrebbe funzionare anche rispetto alla Cina continentale. Si prestano, infatti, ad essere letti come degli eloquentissimi sintomi di un disagio cronicizzato i presenti disordini ai confini di questo gigante ibrido, il quale da circa un secolo si trova sospeso fra il retaggio millenario di impero multietnico e la sua più recente – ma non meno radicata – coscienza nazionale (e nazionalista).

Se davvero la Cina per secoli ha incarnato quel modello di biodiversità istituzionale e culturale che l’antropologo Fei Xiaotong definì “il molteplice Uno”,[18] o per il quale lo storico del pensiero Wang Hui ha coniato il termine di “società trans-sistemica”,[19] oggi, a seguito del passaggio alla forma dello Stato-nazione, che cosa resta di quel patrimonio? Cosa sopravvive del pluralismo, del rispetto per le tradizioni locali e della dinamica aperta, flessibile e soprattutto pacifica fra centro e periferia? Il quesito, sia chiaro, non implica alcuna nostalgia orientalistica legata al supposto passato aureo del Celeste impero di Tiānxià 天下, quanto piuttosto mira a indagare nell’oggi, denaturalizzandolo, il processo di nation building e di modernizzazione avviato dalla Repubblica popolare sin dalla sua fondazione e oggi in mano alla dirigenza di Xi Jinping.

A prescindere da quanto possa essere immaginata, o immaginaria, la comunità che si identifica nel significante “Hong Kong”, quali chances ha avuto di perpetuarsi e crescere, quando la Cina era la “fabbrica del mondo” e l’ex colonia britannica era la punta di diamante del suo sistema logistico? E quali chances invece ha ora, in una fase di astuto ripiegamento all’interno dell’economia cinese, di corsa per l’autosufficienza delle risorse e di autosfruttamento? Dallo scoppio della crisi finanziaria globale, i vertici del Pcc, ancor prima che Xi Jinping salisse al potere, iniziarono a disseminare la parola d’ordine dell’espansione del mercato interno (kuòdà nèixū, 扩大内需), in modo da sganciare il più possibile la propria crescita dalle esportazioni. Il porto di Hong Kong certo non morì per questo, ma un numero crescente di uomini d’affari, anche e soprattutto cinesi continentali, ha preferito buttarsi sulla rendita immobiliare, tanto che oggi il Porto Profumato è la città più cara e insostenibile al mondo, a giudicare dal suo costo al metro quadro.

E così, forse che pure Hong Kong si avvia a divenire una delle tante smart cities, in tutto e per tutto indistinguibile dalle altre megalopoli cinesi, a loro volta vittima del presente modello di sviluppo? Alla radice di questa lunga e tenace ondata di contestazione potrebbe appunto annidarsi l’angoscia che scaturisce insieme a questa domanda. La risposta non è nota né prevedibile, al momento. Dipenderà dall’esito del braccio di ferro fra il Pcc, il governo locale di Carrie Lam e la società civile. Già Pechino a metà agosto ha annunciato che “Shenzhen sarà la nuova Hong Kong”, assurgendo a “città modello della nuova era di Xi Jinping” e rappresentando l’ultimo “progetto pilota del socialismo con caratteristiche cinesi”, in quanto “hub tecno-finanziario preferenziale”:[20] mentre buona parte della stampa mondiale paventa lo scatenarsi di una seconda Tian’anmen, è altresì probabile che l’arma del ricatto economico si riveli più potente e letale dei tanks schierati al confine della città.

I giochi sono aperti: si attende la reazione del governo locale ed anche dei manifestanti, i quali, pur con le luci e le ombre qui descritte, comunque stanno cercando di reinventarsi un rapporto più cosciente e più stretto con il proprio territorio.

[1] SCMP Reporters, “«Nearly two million» people take to streets, forcing public apology from Hong Kong leader Carrie Lam as suspension of extradition bill fails to appeal protesters”, South China Morning Post, 17 giugno 2019, disponibile all’Url https://www.scmp.com/news/hong-kong/politics/article/3014737/nearly-2-million-people-take-streets-forcing-public-apology.

[2] Si rimanda qui a Chow Tse-tsung, The May 4th Movement. Intellectual revolution in modern China (Cambridge: Harvard University Press, 1960), 106-107. Sul concetto di amor patrio (àiguó), vedasi anche un mio precedente contributo, Gaia Perini, “«Aiguo» ai tempi del Quattro maggio. L’amore come passione attiva e la reinvenzione della politica”, Sinosfere, 4-05-2019, disponibile all’Url https://sinosfere.com/2019/05/04/gaia-perini-aiguo-ai-tempi-del-quattro-maggio-lamore-come-passione-attiva-e-la- reinvenzione-della-politica/.

[3] “Shìjiè de ér fēi suǒguó de”, 世界的而非锁国的. Si veda: Chen Duxiu, Jĭnggào Qīngnián [Appello ai Giovani], in Huímóu “Xīn Qīngnián”Yŭyán wénxué juǎn, a cura di Zhang Baoming e Wang Zhongjiang (Zhengzhou: Henan Wenyi Chubanshe, 1997), 170. Per una traduzione in italiano, vedasi: Marianne Bastid, Marie-Claire Bergére e Jean Chesneaux, La Cina vol. II (Torino: Einaudi, 1974), 254.

[4] Kuang Husheng, Wŭsì Yùndòng Jìshí [Resoconto del Movimento del 4 maggio], in Xin Wenxue Shiliao, n.3 (1979): 20-31.

[5] Li Dazhao, “Diplomazia Segreta e Mondo dei Banditi”, in Primavera e Altri Scritti, trad. it. Claudia Pozzana (Parma: Pratiche Editrice, 1994), 157-160.

[6] Ibid., 157.

[7] Si veda Chen Qingqing e Wang Wenwen, “Hong Kong riots have «signs of terrorism»”, Global Times, 13 agosto 2019, disponibile all’Url http://www.globaltimes.cn/content/1161241.shtml.

[8] Un video estremamente eloquente in proposito ha circolato moltissimo sul web, in Cina e nel resto del mondo: “Dàpī jĭngwŭ chēduì Shēnzhèn jíjié bèi bàoguāng” [Scoperto un alto numero di mezzi dell’esercito concentrati a Shenzhen], visibile su vari siti, ad esempio all’Url http://china.huanqiu.com/article/2019-08/15288409.html?agt=15422.

[9] “Hong Kong advert calls Chinese mainlanders «locusts»”, BBC News, 1 Febbraio 2012, disponibile all’Url https://www.bbc.com/news/world-asia-china-16828134.

[10] Anita Chan, “Hong Kong in turmoil”, Made in China Journal, 18 agosto 2019, disponibile all’Url https://madeinchinajournal.com/2019/08/18/hong-kong-in-turmoil/ .

[11] Non si riporta il pinyin appunto perché lo slogan risponde alla pronuncia cantonese.

[12] Antony Dapiran, “Be Water! Seven tactics that are winning Hong Kong’s democracy revolution”, New Statesman, 1 agosto 2019, disponibile all’Url https://www.newstatesman.com/world/2019/08/be-water-seven-tactics-are-winning-hong-kongs-democracy-revolution?fbclid=IwAR0VQwMUXe0ahJK7cQqJR7k1SxIuawwpTjocu-MYukZC_OlcIsNMJJTYBWM%C3%B9.

[13] Wei Xinyan e Zhong Weiping, “Who is behind the Hong Kong protest?”, China Daily, 17 agosto 2019, http://www.chinadaily.com.cn/a/201908/17/WS5d578b28a310cf3e355664f1_2.html.

[14] In un’intervista rilasciata a Kevin Lin, Au Loong Yu afferma: “è vero che la maggior parte dei partiti pan-democratici ha ricevuto finanziamenti dalla Ned. Ma è anche innegabile che sia le proteste che gli scontri del 9 e 12 giugno non sono stati convocati da questi partiti”. Kevin Lin, “Le Proteste di Hong Kong dalla Voce dei Protagonisti”, Jacobin Italia, trad. it. Piero Maestri e Federico Picerni, 1 luglio 2019, disponibile all’Url https://jacobinitalia.it/le-proteste-di-hong-kong-dalla-voce-dai-protagonisti/.

[15] Anonimo, “Anarchists in the resistance to the Extradition Bill”, Chuang, trad. it. dell’autrice, 25 giugno 2019, disponibile all’Url http://chuangcn.org/2019/06/anti-ex-anarchos/ .

[16] Oltre alla succitata intervista (vedasi nota 14), si rimanda qui a: Au Loong Yu, “«A New Generation Rises»: eyewitness to Hong Kong revolt”, Redflag, 21 agosto 2019, consultabile all’Url https://redflag.org.au/node/6882.

[17] Vedasi nota 15.

[18] Fei Xiaotong, Zhōngghuá Mínzú Duōyuán Yītĭ Géjú [L’Assetto dell’Unità nella Molteplicità della Nazione Cinese], (Pechino: Zhongyang Minzu Daxue Chubanshe, 2003).

[19] Wang Hui, “Il regionalismo della Cina e le società trans-sistemiche”, Equilibri, trad. it. Gaia Perini, No. 3 (2013): 462-476. “Con società trans-sistemica – scrive l’autore – intendo una comunità umana che comprende una pluralità di culture, etnie, religioni e lingue, o – se vogliamo – una rete sociale che abbraccia tutti questi elementi. Essa può consistere in un nucleo familiare, in un villaggio, in una regione o in uno Stato” (463).

[20] Simone Pieranni, “La risposta cinese alle proteste: Shenzhen sarà la nuova Hong Kong”, il Manifesto, 20 agosto 2019, disponibile all’Url https://ilmanifesto.it/hong-kong-proteste-cina-shenzhen-hub-hi-tech-finanza/ .

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