Il 24 febbraio rappresenta per l’Europa quello che l’11 settembre ha rappresentato per gli Stati Uniti, ovvero il risveglio da quel lunghissimo sonno iniziato nel 1989 durante il quale molti avevano sognato che l’armonia degli interessi tra gli stati potesse trasformarsi in realtà irreversibile.
Tale convinzione ha indotto un’ampia fetta dell’opinione pubblica europea a far propri almeno quattro assunti sul tema della guerra. Anzitutto, che essa fosse un fenomeno in via di esaurimento. In secondo luogo, che, anche laddove si fosse verificata, avrebbe assunto una natura intra-statale. Non solo, essendo la guerra civile un fenomeno sostanzialmente “incivile”, essa avrebbe preso forma solo nelle periferie del mondo e, quindi, lontano dal nostro continente. E, di conseguenza, il quarto assunto è che investire il denaro dei contribuenti europei in difesa e sicurezza fosse – in buona sostanza – uno sperpero invocato solo da quanti erano caduti vittima della “trappola” del Novecento.
Ponendosi in questo solco “evoluzionista”, molti osservatori hanno tendenzialmente interpretato l’ingresso dei carri armati russi in Ucraina e il bombardamento dei suoi principali centri urbani come un accidente della storia. Di conseguenza, le spiegazioni emerse nelle settimane che hanno seguito lo scoppio della guerra sono state principalmente due. L’una, facendo più o meno consapevolmente riferimento alla prima delle tre “immagini” utilizzate da Kenneth Waltz per spiegare le cause della guerra – la natura umana –, ha ricondotto l’operazione bellica compiuta dalla Russia alle preferenze e alla cultura politica di Vladimir Putin e delle altre figure-chiave del suo cosiddetto “giardino d’oro”, dal ministro della Difesa Sergej Shoigu a quello degli Affari esteri Sergej Lavrov. L’altra, in linea con la “seconda immagine” di Waltz, l’ha rappresentata come l’esito quasi inevitabile dell’attitudine intrinsecamente aggressiva di un regime autoritario come quello di Mosca, per sua natura intenzionato a minare le fondamenta delle democrazie che lo circondano e a diffondere il modello politico della “democrazia sovrana”.
Eppure, Putin è al potere da 22 anni e secondo Freedom House la Russia ha imboccato una direzione apertamente non democratica almeno dal 2004. E si ricordi anche che l’Ucraina non è mai stata considerata un paese pienamente democratico dai principali centri di ricerca che si occupano dello stato della democrazia nel mondo, ma piuttosto “parzialmente libero” (Freedom House) o una “democrazia elettorale” (V-DEM). Allora, perché solo adesso l’aggressione a Kiev? I livelli di spiegazione citati possono sicuramente contribuire alla comprensione delle modalità operative del governo russo, ma non rispondono in maniera esaustiva alla domanda. Per farlo, devono essere quanto meno integrati nell’ottica della “terza immagine” waltziana: l’analisi dei mutamenti politico-strategici intervenuti negli ultimi anni sembra restituire un quadro più nitido, che ci permette di identificare le condizioni alla base dei tragici eventi di cui siamo testimoni. Quattro fattori, in particolare, hanno contribuito ad aprire una finestra di opportunità dinanzi al Cremlino nell’inverno 2022.
Il primo – vera e propria condizione permissiva dell’intera escalation – è la convinzione diffusa che gli Stati Uniti, pur restando nella dimensione militare l’unica superpotenza in circolazione, non sono più disponibili a trasformare la loro “potenza” in “potere” in tutti i quadranti del globo. Il ritiro delle truppe americane e NATO dall’Afghanistan – frutto di una volontà trasversalmente condivisa dalle amministrazioni Obama, Trump e Biden – avrebbe confortato tale ipotesi soprattutto a Mosca, dove sarebbe stata interpretata come l’evidenza dell’indisponibilità americana a impegnarsi oltre la soglia diplomatica in aree – quali l’Asia centrale e l’Europa orientale – non più considerate come strategicamente vitali.
A questo fattore fa da corollario l’attenzione quasi esclusiva che Joe Biden – così come Donald Trump – sta riservando alla “questione cinese”. Nonostante sia la Repubblica Popolare Cinese che la Federazione Russa siano visti come “competitor strategici” dagli Stati Uniti, i documenti strategici americani presentano solo la prima come un attore capace di mettere in discussione l’ordine mondiale scaturito dalla fine della Guerra fredda. L’amministrazione Biden, d’altronde, nella sua Interim National Strategic Security Guidance ha confermato che il suo approccio strategico globale sarebbe ruotato attorno al “Pivot to Asia” e, nonostante la crisi in Ucraina stesse già avvitandosi, l’11 febbraio ha ribadito il primato che attribuisce alla minaccia cinese pubblicando la sua Indo-Pacific Strategy.
Se è difficile, quindi, credere che qualcuno a Washington voglia “morire per il Donbass”, lo è tanto più – e arriviamo alla terza ragione – nell’anno delle elezioni di mid-term con un presidente che – secondo i principali istituti di sondaggi – è al minimo storico in termini di consensi. Non è verosimile che nei prossimi mesi Biden e il Partito Democratico vogliano cimentarsi in una campagna elettorale che li chiamerebbe incessantemente a spiegare ai contribuenti americani perché i soldi delle loro tasse sono investiti per la difesa di un paese che non rientra nel novero degli alleati degli Stati Uniti, mentre questi ancora soffrono per le piaghe economiche e sociali della pandemia.
La quarta ragione, invece, chiama in causa gli affari interni europei, dove la Russia ha intravisto la possibilità di sfruttare a proprio vantaggio l’assenza di una leadership forte dopo l’uscita di scena di Angela Merkel. Tra gli odierni azionisti di maggioranza a Bruxelles, Emmanuel Macron ha dovuto ponderare ogni scelta – interna e internazionale – anche in funzione dell’obiettivo della propria rielezione, spesso barcamenandosi in difficili equilibrismi. Mario Draghi, dal canto suo, è impantanato tra la gestione delle conseguenze economiche e sociali dell’emergenza sanitaria e il tentativo di ricucire le ferite della corsa quirinalizia, mentre Olaf Scholz deve ancora accreditarsi come leader internazionale e chiarire il suo progetto di proiezione internazionale della Germania per i prossimi anni.
Se questi quattro cardini avevano spalancato la finestra di opportunità di cui il Cremlino era alla ricerca almeno da un decennio, nel destino delle relazioni tra Russia e Ucraina vi era necessariamente la guerra? Naturalmente no, in quanto nulla di ciò che accade sulla terra è già predeterminato e le opportunità che si presentano nell’ambiente internazionale non sempre vengono colte da tutti nelle stesse modalità. È a questo punto dell’analisi che torna utile la “prima immagine” waltziana, a patto che non vi si faccia ricorso per spiegare fenomeni politici attraverso maldestre perizie psichiatriche. Piuttosto, essa ci può fornire indizi significativi sulle cause efficienti della guerra, quali la propensione al rischio dei leader politici o loro capacità di calcolare razionalmente le conseguenze delle loro azioni.
Nella sua ventennale esperienza alla guida della Russia, Putin ha dimostrato di essere moderatamente propenso agli azzardi. E la sua preferenza per la politica del rischio calcolato ha preso forma soprattutto quando il suo omologo di turno alla Casa Bianca ha mostrato segni di cedevolezza. Era già successo nel 2008 con la guerra russo-georgiana per l’Ossezia del Sud, così come nel 2014 con l’annessione della Crimea e poi ancora nel 2015 con l’ingresso delle truppe russe nel teatro di guerra siriano. In queste occasioni, le mosse del Cremlino sono sembrate ogni volta “razionali” secondo il freddo calcolo costi-benefici, avendo tenuto tendenzialmente bassi i primi e massimizzato i secondi.
Anche stavolta, probabilmente, Putin sperava di ottenere quanto voleva – una dichiarazione ufficiale del governo ucraino di rinuncia alla richiesta di adesione alla NATO e, in un secondo momento, la defenestrazione di Volodymyr Zelensky e la sua sostituzione con un presidente filo-russo – con l’arma del ricatto prima e con una sorta di blitzkrieg su Kiev poi. L’ipotesi che l’invasione su vasta scala non fosse il “piano A” per Mosca è corroborata da due elementi. Da un lato, la fine dell’inverno costituisce il momento peggiore per lanciare un’operazione militare in Ucraina a causa dei problemi che derivano dalle condizioni del terreno. Dall’altro, la leva energetica di Mosca – parte integrante della cosiddetta “dottrina” sul new generation warfare del Capo di Stato Maggiore delle forze armate russe Valerij Gerasimov – risulta particolarmente utile in inverno. È in inverno che la Russia ha maggiori probabilità di influenzare il mercato dei prezzi, rompere il fronte dei potenziali nemici, piegare la resistenza dei paesi più dipendenti dal gas russo e rendere più “malleabili” gli stati energivori. Con l’avanzare della primavera, invece, l’impatto della leva energetica risulta più circoscritto.
Questa volta Putin potrebbe quindi essersi dimostrato un calcolatore meno abile che in passato, disposto a combattere un conflitto su vasta scala dall’esito indecifrabile pur di non mostrare segni di debolezza. È stato un errore credere che il governo ucraino avrebbe ceduto al ricatto posto tra novembre 2021 e il febbraio 2022. È stato un errore contare sulla fragilità delle forze armate ucraine e inviare nel paese soldati di leva e brigate che non si erano mai addestrate congiuntamente e ottenere comunque i risultati attesi. È stato un errore sperare che una buona parte dell’Ucraina orientale – quella che alle elezioni votava principalmente a favore di partiti filo-russi – non avrebbe opposto eccessiva resistenza all’invasione, così come è stato un errore pensare che il “fronte” NATO si sarebbe sciolto di fronte alla scarsa volontà di molti paesi membri di affrontare le conseguenze – anzitutto economiche – di un braccio di ferro con la Federazione Russa.
Per saperne di più
Colombo, A. (2021) Guerra civile e ordine politica. Laterza.
Morini, M. (2020) La Russia di Putin. Il Mulino.
Nascetti, G.G. (2020) La dottrina Gerasimov e il New generation warfare. Geopolitica.info.
Natalizia, G. (2019) Black knight as a strategic choice? Causes and modes of Russia’s support to the authoritarianism in Southern Caucasus. Italian Political Science Review, 49(2).
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