[LA RECENSIONE] Cina e modernità. Cultura e istituzioni dalle Guerre dell’oppio a oggi

Non tutti, davanti a un labirinto, hanno il coraggio di entrarvi. Se però nel labirinto si è accompagnati da guide provette, il timore viene meno, sicuri di poterne uscire agevolmente, con un bagaglio arricchito di conoscenze e strumenti per comprendere il mondo. Fuor di metafora, l’esperienza di Alessandra Lavagnino e di Bettina Mottura –sinologhe dell’Università degli Studi di Milano – conduce il lettore di Cina e modernità attraverso i complessi meandri dell’incontro-scontro della Cina con l’Occidente e con – appunto – la modernità, dal 1839 (prima Guerra dell’oppio) ai giorni nostri (“dall’umiliazione al sogno”, per citare il primo capitolo), regalando un affresco che riesce a combinare magistralmente lo sguardo di lungo periodo con l’analisi dei dettagli dei singoli momenti storici rilevanti. Nella prefazione, apprendiamo che il libro che OrizzonteCina propone questo mese è la logica continuazione del viaggio iniziato nel 2013 con Cultura cinese. Segno, scrittura e civiltà, già recensito su queste colonne. Il “filo conduttore” è quello di wen, 文, perché è dalla lingua scritta che le autrici partono, introducendo come chiavi di lettura, all’inizio di ogni capitolo, alcuni termini ricorrenti nel discorso pubblico cinese, dal tianxia, 天下 (“tutto quanto sta sotto il cielo”) di origine imperiale al Zhongguo meng, 中国梦, il “sogno cinese” di Xi Jinping. La parola scritta serve quindi come mappa concettuale per districarsi nel labirinto di sei macrotemi: “il rapporto della Cina e della sua cultura con altre tradizioni, lo Stato, il Partito comunista cinese, i media, l’identità e le risorse umane” (p. 223). Per aiutare la comprensione, inoltre, ogni capitolo si conclude con un breve testo tradotto dal cinese, di portata essenziale per comprendere i temi trattati: si va dai discorsi dei leader (Mao Zedong: Servire il popolo; Deng Xiaoping: Portare rispetto alla conoscenza, portare rispetto ai talenti; Xi Jinping: Discorso alla cerimonia di commemorazione del settantesimo anniversario della vittoria della guerra di resistenza del popolo cinese contro l’aggressione giapponese e della guerra mondiale contro il fascismo), alle voci critiche (Zhang Qianfan: L’applicazione della costituzione e un governo di lungo periodo; Li Yizhe: A proposito della democrazia e della legalità nel socialismo – al presidente Mao e alla Quarta assemblea nazionale del popolo; Liu Haining: L’esplosione dei social media cinesi ha mandato in frantumi il silenzio ufficiale), ai testi di accademici che hanno avuto una vasta eco a livello internazionale (Yu Keping: La democrazia è una cosa buona; Zhang Weiwei: Il sorpasso della Cina). La prima metà dell’Ottocento registra l’incapacità della dinastia mancese – che aveva, per così dire, assimilato mongoli e musulmani – di gestire il rapporto con gli Occidentali. La descrive bene – con sguardo persino cinematografico – Alessandra Lavagnino nel primo capitolo: “Si innescò così uno scontro che lasciò interdetti gli ieratici e ineffabili eruditi che con passo felpato si aggiravano nelle gelide corti dei palazzi dalle mura vermiglie; interdetti e del tutto incapaci di confrontarsi con quei barbari che non conoscevano l’antica etichetta, rigida e rarefatta, a suo tempo pienamente accettata e fatta propria dai clan mancesi” (p. 23). Da questo punto in poi inizia un percorso a ostacoli nel quale la Cina cercherà (con alterni risultati) di mutuare dall’Occidente gli strumenti della modernità senza rinunciare alle proprie “caratteristiche cinesi” – una lezione che Deng Xiaoping mostrerà di avere appreso appieno, in linea con “una cultura che per tradizione guarda al proprio passato per meglio articolare il proprio futuro” (p. 33). Uno dei meriti principali del libro è infatti la capacità di mostrare come, attraverso “lo slittamento semantico rispetto al significato originario della parola”, vi sia stata nella storia cinese molta più continuità – evidente ad esempio nell’attenzione dei governanti alle risorse umane e al “talento” (rencai, 人才) – di quanto appaia a un primo sguardo: “espressioni consolidate nel discorso politico” vengono utilizzate in un diverso contesto “per esprimere un’idea nuova”, fornendo al contempo un ancoraggio “rassicurante per il pubblico” e la flessibilità necessaria per adeguarsi ai cambiamenti storici (Bettina Mottura a p. 72). Fu vero nei primi anni della Repubblica popolare, ma era stato così anche nel periodo, così ricco di fermento intellettuale, che va dagli anni Novanta dell’Ottocento alla fine dell’Impero. In fondo, il trentennio che va dal 1919 (anno del Movimento del Quattro maggio) al 1949 può essere visto in filigrana come espressione – anche tragica – di questa tensione tra l’attaccamento a una visione sinocentrica del mondo e il confronto con le nuove idee che permeavano l’Occidente (a sua volta alla ricerca del suo ingresso nel mondo contemporaneo, diviso tra liberalismo, fascismo e comunismo). Leggendo il libro di Lavagnino e Mottura, si comprende quindi come la Rivoluzione culturale – iniziata cinquant’anni fa – rappresenti davvero il più forte elemento di discontinuità (illuminante è la tabella comparativa a p. 215) e al tempo stesso – paradossalmente –, nell’uso massiccio degli slogan e dei dazibao, 大字报, il trionfo della parola scritta, “che viene distrutta su ampia scala quando è considerata pericolosa per il potere, oppure elevata al rango di canone quando codifica il bagaglio culturale che permette la riproduzione delle istituzioni” (p. 165). Oggi si torna quindi a rivalutare il Confucianesimo e altri elementi della cultura tradizionale, con il rischio – sempre presente quando il potere cresce – di finire per sopravvalutare, ricorrendo a generalizzazioni già tipiche dell’Occidentalismo, la propria “specificità” e “unicità”, con rischio di derive ideologiche. Lo vediamo ad esempio in un passaggio del testo di Zhang Weiwei, in cui si afferma che la nazione cinese “è diversa dagli altri paesi perché il sistema di valori etici tradizionali della Cina ha come fondamento la famiglia e non l’individuo” (p. 220). Si chieda a un italiano, o a un giapponese, di commentare questa frase. In fondo, è la flessibilità nella selezione degli strumenti e nell’uso del wen che ha permesso alla Cina di progredire, e al Partito comunista di rimanere al comando oltre la temperie ideologica della Rivoluzione culturale. Apparentemente con lo sguardo rivolto altrove, lo dice bene Yu Keping: “Alcuni politici non prendono atto delle leggi concrete della politica democratica, non si curano delle condizioni storiche della società, mettono in pratica in maniera irrealistica la democrazia, senza riflettere sulla fase di sviluppo storico della società, e come risultato non possono che produrre effetti opposti a quanto desiderato” (p. 158). Ne sappiamo qualcosa, da Washington a Londra, da Parigi a Roma, ora che da certi labirinti che abbiamo costruito nel nostro stesso vicinato facciamo fatica a uscire.

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