Myanmar, “l’ultima frontiera” della diplomazia infrastrutturale del Giappone nel Sud-Est asiatico

Un’amicizia di vecchia data

L’aiuto pubblico allo sviluppo (APS) rappresenta uno strumento fondamentale della politica estera del Giappone. Il Sud-Est asiatico ne è tradizionalmente il beneficiario principale, anche grazie al fatto che i programmi APS di Tokyo si sono evoluti dagli accordi di risarcimento bellico su cui il Giappone ha ricostruito la propria diplomazia regionale dopo la Seconda guerra mondiale. Fu proprio il Myanmar il primo Paese con cui il Giappone riuscì a stringere un accordo per le riparazioni di guerra, nel 1955, diventando così simbolo di speranza e oggetto di idealizzazione per i giapponesi, al punto da innescare un “boom birmano” (biru-kichi) nella cultura popolare nipponica negli anni Cinquanta e Sessanta[1]. Di converso, il Giappone ricopre un ruolo fondamentale nel mito di fondazione del Myanmar, secondo il quale il “padre della Patria” Aung San e i suoi leggendari trenta compagni ricevettero la loro educazione militare – necessaria a liberare il Paese dal giogo coloniale britannico – dalle truppe dell’Esercito imperiale giapponese stazionate sull’isola di Hainan, nell’estate del 1941.

Durante gli anni di isolazionismo socialista imposto dal Generale Ne Win (1962-88), il Giappone mantenne un accesso privilegiato alla giunta militare e alla burocrazia birmana[2]. Adottando la linea del “dialogo silenzioso” (shizuka na taiwa) con il regime militare, Tokyo fece proprio il ruolo di ponte (kakehashi) tra le democrazie occidentali e il Myanmar[3], anche al rischio di generare tensioni con il suo alleato principale, gli Stati Uniti. Esemplare fu il rifiuto del Giappone di uniformarsi al pesante regime sanzionatorio di Stati Uniti e Comunità Economica Europea a seguito della sanguinosa repressione militare del 1988. Dopo un’interruzione simbolica di alcuni mesi, Tokyo riprese le relazioni diplomatiche e commerciali con il Myanmar all’inizio del 1989. Ed ancora, nel 1997, nonostante l’opposizione di Washington, il Giappone giocò un ruolo fondamentale nel facilitare l’accesso del Myanmar nell’Association of South-East Asian Nations (ASEAN)[4].

Il Myanmar ricopre una posizione particolare anche per Abe Shinzo, primo ministro giapponese dal dicembre 2012 all’agosto 2020, che non ha mai fatto segreto del proprio desiderio di rendere il Giappone “il migliore amico del Myanmar”[5]. Non solo Abe è stato il primo capo dell’esecutivo giapponese a visitare il Paese dopo ben trentasei anni, nel maggio 2013, ma il suo Governo ha anche visto un nuovo interesse diplomatico ed economico verso il Paese, la cui democratizzazione nel quinquennio 2011-15 ha contribuito a creare la percezione del Myanmar come “ultima frontiera” (rasuto furontia) per gli investimenti pubblici e privati del Giappone.

L’eredità più significativa del longevo Governo Abe è sicuramente la rivalutazione del ruolo strategico del Giappone nella regione dell’Asia-Pacifico – una priorità centrale della cosiddetta “dottrina Abe”[6]. In quest’ottica, il Myanmar rappresenta uno snodo fondamentale del cosiddetto “pivot silenzioso verso Sud[7]” del Giappone: un network infrastrutturale, economico e diplomatico che abbraccia l’ASEAN continentale per connettere le due più grandi democrazie d’Asia (il Giappone e l’India) sulla base del nuovo concetto strategico di Free and Open Indo-Pacific, il cui obiettivo implicito è quello di controbilanciare, con iniziative mirate quali la New Tokyo Strategy for Mekong-Japan Cooperation[8], la Belt and Road Initiative cinese e, in particolare, la sua porzione di “sguardo verso Sud” (Look South), incentrata sulla posizione geostrategica dello Yunnan nel bacino del Mekong[9].

Data la sua rilevanza – sia storica sia geostrategica – per il Giappone, il Myanmar si configura così come uno dei principali “campi di battaglia” non solo della rivalità sino-giapponese nel Sud-Est asiatico, ma anche della definizione stessa dell’aiuto allo sviluppo giapponese. Le politiche APS, gestite dalla JICA (Japan International Cooperation Agency, istituzionalmente legata al Ministero degli Esteri), non sono infatti rimaste immuni alla “dottrina Abe”, il cui focus strategico ha riaperto la profonda tensione tra le due vocazioni opposte dell’APS giapponese: la human security e lo stato sviluppista.

L’eredità Ogata: tra human security e stato sviluppista all’estero

Il Giappone è stato il più convinto promotore, sia a livello ideologico sia finanziario, della human security, ovvero un paradigma di formulazione di politiche pubbliche emerso negli anni Novanta che antepone il livello umano di individui e comunità a quello nazionale dello Stato[10]. Il concetto ha avuto (e continua ad avere) un successo globale[11]. In Giappone, nella fattispecie, ha raggiunto il culmine della sua influenza nell’ambito delle politiche APS grazie a Ogata Sadako, ex diplomatica alle Nazioni Unite[12] che dal 2003 al 2012 ricoprì il ruolo di presidente della JICA. Le riforme avviate da Ogata, finalizzate ad allineare l’APS giapponese con le norme dell’human security tramite una nuova Carta dell’APS (ODA Charter) adottata nel 2003, furono talmente radicali da divenire comunemente conosciute con il termine Ogata shock.

Al centro dell’Ogata shock vi sono due idee fondamentali: da una parte, la definizione della riduzione della povertà come fine ultimo dell’aiuto allo sviluppo, dall’altra, invece, l’idea di genba shugi (letteralmente “campo-centrismo”), secondo la quale i progetti APS vanno disegnati e realizzati su misura per rispondere alle esigenze “del campo”. Entrambi sono obiettivi programmatici che si pongono in netta opposizione alle precedenti pratiche APS del Giappone, basate sia sulla convinzione che la riduzione della povertà non sia tanto un obiettivo primario dell’aiuto allo sviluppo quanto piuttosto un effetto collaterale di crescita industriale e sviluppo infrastrutturale[13], sia sull’eredità sviluppista dell’approccio one size fits all, per cui i flussi APS vengono elargiti “all’ingrosso”, ovvero dall’alto verso il basso[14].

Questo atteggiamento, derivato dalla storia stessa dello sviluppo economico postbellico del Giappone, ha fatto sì che elementi tipici del cosiddetto “Stato sviluppista”[15] quali l’industrializzazione basata sulle esportazioni, la creazione di partnership tra pubblico e privato (le “PPP”) e la preferenza per progetti infrastrutturali di larga scala si riflettessero anche nelle politiche APS verso il Sud-Est asiatico.[16] La predilezione giapponese per le grandi infrastrutture – ben visibile anche nei recenti esempi del “ponte dell’amicizia tra Giappone e Viet Nam” ad Hanoi o del “ponte Tsubasa” in Cambogia, entrambi inaugurati nel 2015 – ha attirato forti critiche per ciò che molti percepiscono come una mera manifestazione dello stato sviluppista all’estero, per cui l’APS si riduce a uno schema profittevole in cui gli aiuti allo sviluppo vanno a finanziare progetti la cui esecuzione è subordinata alla loro assegnazione a grandi compagnie giapponesi, secondo la logica dell’“aiuto legato” (tied aid)[17].

Nel caso del Myanmar, le tradizionali politiche APS giapponesi sono addirittura state definite come tarenagashi: un termine poco elegante che indica “incontinenza”, “rilascio di materiale tossico”, e che descrive efficacemente un tipo di investimenti sconsiderato e dettato unicamente dall’immediato profitto economico (giapponese)[18]. Infatti, grazie a una generosa e conveniente interpretazione della definizione di “assistenza umanitaria” – estesa fino a coprire non solo vere e proprie emergenze, ma anche il completamento di progetti infrastrutturali APS classificati come “urgenti”[19] – il Giappone ha saputo navigare i turbolenti anni del regime militare birmano restando fedele al principio dell’“economia prima della politica”.

 

La nuova rotta strategica dell’APS: la “diplomazia delle infrastrutture” e le Zone Economiche Speciali

Se l’Ogata shock aveva arginato e corretto queste tendenze sviluppiste, il lungo Governo di Abe ha segnato una “rinascita del modello giapponese” nelle politiche di APS[20]. Sarebbe tuttavia sbagliato bollare quello di Abe come un approccio esclusivamente reazionario e dettato da obiettivi strettamente economici. Al contrario, il recente entusiasmo per i grandi progetti infrastrutturali e le Zone Economiche Speciali (ZES) va interpretato in un’ottica strategica che combina la tradizione di “APS sviluppista” con le nuove esigenze strategiche del Giappone, al servizio di una “diplomazia infrastrutturale[21]” opposta e speculare ai colossali investimenti della Cina nel Sud-Est asiatico.

Possiamo individuare nel 2015 l’anno della svolta nelle politiche APS giapponesi verso il Sud-Est asiatico, allorché il Governo Abe ha adottato sia la nuova “Carta per la cooperazione allo Sviluppo” (CCS), nel febbraio 2015, sia la “Partnership per infrastrutture di qualità” nel maggio 2015. La prima sancisce l’allineamento delle politiche APS alla “dottrina Abe” e al suo obiettivo di “pacifismo proattivo”. La CCS 2015, infatti, legittima il ruolo del Giappone come distributore di APS in quanto “potenza globale responsabile” e “primo Paese sviluppato in Asia”, stabilendo una corrispondenza precisa tra “la pace e la prosperità” della regione e la sicurezza nazionale del Giappone[22].

È proprio l’esplicito riferimento all’interesse nazionale (kokueki) la cifra distintiva dell’approccio di Abe all’APS: un approccio stato-centrico che ha ben poco a che vedere con l’eredità di Ogata. Infatti, nella CCS 2015 il concetto di national security (kokka anzen hosho) sostituisce quasi completamente quello di human security (ningen anzen hosho), menzionato solo nei paragrafi finali. Inoltre, la CCS 2015 delinea come obiettivo dell’APS giapponese lo “sviluppo economico ad alta qualità e la riduzione della povertà raggiunta tramite questo”: una formulazione che non lascia dubbi sull’inversione di marcia rispetto alle priorità dell’era Ogata, quando la riduzione della povertà era l’obiettivo primario della human security. Per il Giappone di Abe questo obiettivo rimane solo un effetto collaterale (benvenuto) di ciò che veramente conta: lo sviluppo economico “di alta qualità”.

La qualifica del tipo di sviluppo è fondamentale per la nuova rivalità infrastrutturale con la Cina, e si intreccia con l’altro elemento chiave dell’approccio di Abe: la “Partnership per Infrastrutture di Qualità” (PIQ), l’alternativa giapponese alla Banca asiatica per gli Investimenti in Infrastrutture (Asian Infrastructure Investment BankAIIB) di iniziativa cinese[23]. Se nei suoi discorsi sulla PIQ Abe non ha mai menzionato la Cina esplicitamente, i suoi riferimenti all’”averne avuto abbastanza di cose convenienti ma che si rompono subito[24]” non suonano certo come casuali per Paesi del Sud-Est asiatico quali il Myanmar, dove è ormai di uso comune l’espressione tayoke-set tayet-soke (ossia, “Aggeggio cinese: rotto in un giorno”)[25].

Se immaginiamo la strategia diplomatico-infrastrutturale giapponese e cinese nel Sud-Est asiatico continentale come due vettori, l’approccio di Tokyo si estende orizzontalmente da Est a Ovest verso l’India, mentre quello di Pechino verticalmente da Nord a Sud attraverso lo Yunnan. È in questo contesto che si collocano le tre nuove Zone Economiche Speciali (ZES) del Myanmar, create a partire dal 2015. Due di esse, Kyauphyu e Thilawa, sono a tutti gli effetti una joint venture tra il Governo birmano e, rispettivamente, Cina e Giappone. Kyauphyu, nello stato di Rakhine, offre a Pechino uno sbocco sul Golfo del Bengala, mentre Thilawa, con la sua posizione a circa venti chilometri a Sud-Est di Yangon e a centocinquanta da Moulmein (il terminale occidentale dell’East-West Economic Corridor), ha un immenso potenziale per i progetti di connettività “orizzontale” del Giappone nella regione.

Non sorprende quindi che gli investimenti giapponesi a Thilawa non siano guidati solo da grandi compagnie come Mitsubishi, Marubeni e Sumitomo, ma anche dalla JICA[26] e pertanto si intersechino con la nuova rotta APS di Abe. Sebbene tali investimenti siano stati liquidati come l’ennesimo trofeo sviluppista di “Japan Inc”[27], è fondamentale non dimenticarne l’estremo valore strategico per la diplomazia giapponese nel Sud-Est asiatico. Non a caso, la ZES di Thilawa è stata inclusa tra le poche mete della visita ufficiale di Abe in Myanmar nel 2013, durante la quale il primo ministro l’ha descritta come un progetto che il Giappone “deve far diventare un successo ad ogni costo”[28].

La ZES di Thilawa rappresenta pienamente l’approccio “ibrido” del Governo Abe all’APS, un approccio che combina metodi sviluppisti con obiettivi strategici. Infatti, da una parte, il progetto soddisfa la maggior parte dei requisiti di uno “stato sviluppista all’estero”: per prima cosa, una PPP con aziende storicamente impegnate in grandi progetti infrastrutturali di APS; il focus sul settore manifatturiero per l’esportazione; e, infine, una mancata considerazione per l’impatto della ZES sulle comunità locali, con episodi di espropriazioni di terreni e conseguenti ricollocamenti forzati di interi villaggi[29]. Dall’altra, Thilawa rientra appieno nell’era “post-Ogata”: un’era dove la human security è stata pienamente sostituita dalle priorità della national security secondo un modello di “diplomazia economica statale” dettata da obiettivi strategici[30]. Di conseguenza, i principi centrali del modello Ogata quali la centralità degli individui (e non dello Stato), la priorità della riduzione della povertà (e non della crescita economica), e lo sviluppo di “infrastrutture sociali” dal basso verso l’alto (invece di infrastrutture di tipo “hard” imposte dall’alto) sono ora subordinati a obiettivi strategici.

Le improvvise dimissioni di Abe nell’agosto 2020 lasciano spazio a nuove incognite sulla scelta che i prossimi governi giapponesi faranno tra la human security e la national security nel loro approccio al Myanmar, in risposta, da una parte, a crescenti preoccupazioni strategiche, e dall’altra, alla profonda influenza che l’eredità Ogata continua a esercitare sulla cultura istituzionale della JICA. Nei prossimi anni, l’APS di Tokyo verso il Myanmar servirà da utile termometro per misurare non solo la rivalità sino-giapponese nel Sud-Est asiatico, ma anche la capacità del Governo birmano stesso di coniugare sviluppo economico e istituzioni democratiche, le vere garanti della human security.


Note bibliografiche

[1] Seekins, D.M. (2007), Burma and Japan since 1940: from ‘Co-Prosperity’ to ‘Quiet Dialogue’. Copenhagen: Nordic Institute of Asian Studies Press, pp. 46-8.

[2] Il Giappone gode di una rete transnazionale senza paragoni di burocrati e ufficiali birmani formatisi in università giapponesi, tra cui figura anche l’attuale Consigliera di Stato Aung San Suu Kyi, che nel 1985-86 studiò per nove mesi alla prestigiosa Università di Kyoto. Seekins D.M. (2015), “Japan’s Development Ambitions for Myanmar: The Problem of ‘Economics before Politics’”, Journal of Current Southeast Asian Affairs, Vol. 34(2), pp. 113-38.

[3] Black, L. (2013), “Bridging between Myanmar and International Society: Japan’s Self-Identity and Kakehashi Policy”, The Pacific Review, Vol. 2(4), pp. 337-59.

[4] Steinberg, D.I. (2007), “The United States and Its Allies: The Problem of Burma/Myanmar Policy”, Contemporary Southeast Asia, Vol. 29(2), pp. 219-37.

[5] Söderberg, M. (2015), “Myanmar: The Last Frontier for Japanese Official Development Assistance (ODA) to Southeast Asia”, in Sugita Y. (ed.), Japan Viewed from Interdisciplinary Perspectives: History and Prospects, Lanham: Lexington Books, p. 150.

[6] Hughes, C.W. (2015), Japan’s Foreign and Security Policy Under the ‘Abe Doctrine’: New Dynamism or New Dead End, Basingstoke e New York: Palgrave Macmillan.

[7] Wallace, C.J. (2013), “Japan’s Strategic Pivot South: Diversifying the Global Hedge”, International Relations of the Asia-Pacific, Vol. 13, pp. 479-517.

[8] Inaugurata nel 2012 e rinnovata nel 2015, la New Tokyo Strategy prevede due approcci infrastrutturali paralleli nella regione del Mekong: uno “hard”, legato a progetti ingegneristici di connettività come la Asia Cargo Highway lungo l’East-West Economic Corridor, e uno “soft”, che include invece misure per la facilitazione del commercio (per esempio, l’armonizzazione doganale nella regione).

[9] Summers, T. (2012), “(Re)positioning Yunnan: Region and Nation in Contemporary Provincial Narratives”, Journal of Contemporary China, Vol. 21(75), pp. 445-59.

[10] Il primo documento dell’ONU a delineare il concetto, lo Human Development Report del 1994, fu fortemente voluto da Matsuura Koichiro, un alto ufficiale dell’UNESCO. Nel 1998, l’allora primo ministro Obuchi Keizo annunciò la creazione dello UN Trust Fund for Human Security (UNTFHS), per il quale il Giappone servì come unico donatore fino al 2008. Kurusu, K. e Kersten, R. (2011), “Japan as an Active Agent for Global Norms: The Political Dynamics Behind the Acceptance and Promotion of ‘Human Security’”, Asia-Pacific Review, Vol. 18(2), pp. 115-37.

[11] Il Canada e la Norvegia hanno sviluppato delle scuole di pensiero sulla human security alternative a quella giapponese: le prime supportano una definizione stretta del problema focalizzandosi sul concetto di “libertà dalla paura” (Freedom from fear), strettamente connesso alla sicurezza militare. Tokyo invece promuove un’interpretazione ampia di human security per rispondere alla “libertà dalla necessità” (Freedom from want), legata all’ambito economico. Hynek, N. (2012), “Japan’s Return to the Chequebook? From Military Peace Support to Human Security Appropriation”, International Peacekeeping, Vol. 19(1), pp. 62-76.

[12] Prima di ricoprire la presidenza della JICA, Ogata aveva guidato l’UNHCR e (a fianco di Amartya Sen) la Commission on Human Security dell’ONU dal 2001 al 2003, producendo l’influente report “Human Security Now”.

[13] Una posizione perfettamente riassunta da Izumi Ohno, I. e Kenichi Ohno, K., “La promozione industriale può anche essere andata fuori moda a Washington, ma la sua esecuzione è assolutamente necessaria per uno sviluppo sostenibile”, cfr. Ohno, I. e Ohno, K. (2002), “Global Development Strategy and Japan’s ODA Policy”, National Graduate Institute for Policy Studies, p. 6, disponibile online al link http://www.grips.ac.jp/forum-e/pdf_e01/ODA7.pdf.

[14] Kamidozono, S.G., Gómez O.A., e Mine Y. (2016), “Embracing Human Security: New Directions of Japan’s ODA for the 21st Century”, in Kato, H., Page, J. e Shimomura, Y. (eds), Japan’s Development Assistance: Foreign Aid and the Post-2015 Agenda, Basingstoke: Palgrave Macmillan, pp. 205-21.

[15] Teorizzato per la prima volta in ambito giapponese da Johnson, C. (1982), MITI and the Japanese Miracle: The Growth of Industrial Policy, 1925-1975, Stanford: Stanford University Press.

[16] Si veda ad esempio Arase, D. (1994), “Public-Private Sector Interest Coordination in Japan’s ODA”, Pacific Affairs, Vol. 67(2), pp. 171-99.

[17] Hook, S.W. e Zhang G. (1998), “Japan’s Aid Policy since the Cold War: Rhetoric and Reality”, Asian Survey, Vol. 38(11), pp. 1051-66.

[18] Steinberg, D.I. (1990), “Japanese Economic Assistance to Burma: Aid in the ‘Tarenagashi’ Manner?”, Crossroads: An Interdisciplinary Journal or Southeast Asian Studies Vol. 5(2), pp. 51-107.

[19] Per esempio, dopo la liberazione di Aung San Suu Kyi dagli arresti domiciliari nel 2002, Tokyo annunciò – non senza destare controversie visto che a beneficiarne sarebbe stata la giunta militare – la concessione di un pacchetto di aiuti da 5,2 milioni di dollari per la riparazione della centrale elettrica di Baluchaung (già costruita negli anni Sessanta grazie a un accordo di riparazioni di guerra col Giappone), giustificandone l’urgenza sulla base del fatto che l’impianto copre il fabbisogno elettrico di quasi il 20% del Myanmar. Edström, B. (2009), “Japan and the Myanmar Conundrum”, Institute for Security and Development Policy, pp. 39-40.

[20] Sasada, H. (2019), “Resurgence of the ‘Japan Model’? Japan’s Aid Policy Reform and Infrastructure Development Assistance”, Asian Survey, Vol. 59(6), pp. 1044-69.

[21] Miller, T. (2017). China’s Asian Dream: Empire Building along the new Silk Road, Londra: Zed Books.

[22] La CCS 2015 è consultabile sul sito del Ministero degli Esteri del Giappone, disponibile online al link http://www.mofa.go.jp/mofaj/gaiko/oda/files/000072774.pdf.

[23] Yoshimatsu, H. (2017), “Japan’s Export of Infrastructure Systems: Pursuing Twin Goals through Developmental Means”, The Pacific Review, Vol. 30(4), pp. 1-19.

[24] Ufficio del Primo Ministro del Giappone. ‘Dai 21 kai Kokusaikoryu Kaigi “Ajia no Mirai” Bansankai – Abe Naikaku Sori Daijin Supichi’ [Discorso del Primo Ministro Abe alla Cena della 21° Conferenza Internazionale ‘The Future of Asia’], 21 maggio 2015, disponibile online al link. http://www.kantei.go.jp/jp/97_abe/statement/2015/0521speech.html

[25] Maung Aung Myoe (2015), “Myanmar’s China Policy since 2011: Determinants and Directions”, Journal of Current Southeast Asian Affairs, Vol. 34(2), pp. 21-54.

[26] La ZES di Thilawa è per il 51% di proprietà birmana, divisa tra l’ente governativo Thilawa SEZ Management Committee (10%) e il consorzio di imprese private Myanmar Thilawa SEZ Holdings Public Limited (41%). Il Governo del Giappone detiene una quota diretta parti al 10% tramite JICA, mentre il restante 39% appartiene a MMS Thilawa Development Co Ltd (di cui Mitsubishi, Marubeni e Sumitomo detengono il 32.16% ciascuna). Sito Ufficiale, Thilawa SEZ Management Committee, disponibile online al link http://www.myanmarthilawa.gov.mm/about-us.

[27] Slodkowski, A. (2012), “Special Report: How Japan Inc. Stole a March in Myanmar”, Reuters, 2 ottobre, disponibile online al link http://uk.reuters.com/article/uk-japan-myanmar-idUKBRE89118P20121002.

[28] Ufficio del Primo Ministro del Giappone, 30 maggio 2013, disponibile online al link https://www.youtube.com/watch?v=E_x624MJXlw (minuto 1:23).

[29] Gabusi, G. e Boario M. (2020), “Industrial Policy and Special Economic Zones: Engaging Transformation in a Globalized World”, in Simpson A. e Farrelly N. (eds), Myanmar: Politics, Economy and Society. Londra: Routledge, pp. 120-35.

[30] Bräutigam, D. e Tang X. (2012), “Economic Statecraft in China’s Overseas Special Economic Zones: Soft Power, Business or Resource Security?”, International Affairs, Vol. 88(4), pp. 799-816.

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