Il confucianesimo è un sistema di pensiero sviluppato da generazioni di intellettuali che si sono rifatti a un corpus di valori culturali, morali e spirituali sostenuto da una lunga tradizione letteraria e da un ricco patrimonio di leggende, culti popolari e riflessioni filosofiche; ponendo l’uomo e la società in stretto rapporto con la natura e con il divino, sostiene un ideale di armonia basata su una gerarchia ben definita di valori e di ruoli familiari e sociali, appresi e interiorizzati grazie a una continua e accurata educazione incentrata su principi ereditati dal più remoto passato e attualizzati da ogni generazione grazie a un confronto continuo con le situazioni contingenti. Il confucianesimo è stata l’ideologia politica che ha determinato la struttura dell’impero per oltre due millenni, imprimendo un’impronta indelebile sulla cultura e sulla vita quotidiana dei cinesi e delle popolazioni di numerosi paesi dell’Asia orientale, tanto da diventare parte integrante della loro identità.
Il nucleo centrale del pensiero confuciano è costituito da valori morali, quali l’amore per il prossimo (rén, 仁), l’empatia (shù, 恕), il rispetto (jìng, 敬), in particolare il rispetto filiale (xiào, 孝) e la deferenza verso anziani e superiori (tì, 悌), la lealtà (zhōng, 忠), l’affidabilità (xìn, 信), il coraggio di chi sa di essere nel giusto (yǒng, 勇), il senso di ciò che è corretto (zhèng, 正) e di ciò che è appropriato dal punto di vista etico (yì, 义) che, insieme allo studio (xué, 学) e alla riflessione (sī, 思), conduce alla conoscenza superiore (zhì, 智), l’osservanza dei riti e delle convenzioni sociali (lǐ, 礼). Grazie soprattutto all’interazione positiva di rén, yì e lǐ l’uomo è in grado di coltivare la propria persona ed esprimere il meglio di sé, creando le condizioni ideali per sviluppare uno stile di vita etico, dignitoso e rispettoso del prossimo che possa fungere da modello e da volano virtuoso per l’intera società. La conformità ai principi morali e alle convenzioni sociali richiede la costante ricerca del punto di maggior equilibrio tra esigenze contrastanti (zhōng, 中), percorrendo la sola via che porta alla realizzazione dell’armonia sociale (hé, 和), un’armonia nel rispetto delle diversità (hé ér bù tóng 和而不同) per usare l’espressione coniata da Confucio e fatta propria dai governanti di oggi.[1]
Coloro che sono investiti di responsabilità di governo hanno il dovere di agire in modo eticamente appropriato (rényì, 仁义), sacrificando il proprio interesse personale (lì, 利) in un’ottica di condivisione, con animo sensibile all’altrui sofferenza (yǒu bùrěn rén zhī xīn, 有不忍人之心). I governanti coerenti con questi sentimenti pongono l’uomo e il popolo a fondamento dell’azione politica (yǐ rén / mín wéi běn, 以人/民为本), creando le condizioni per sviluppare e diffondere quel benessere materiale di cui parlava Mencio nel IV secolo a.C.,[2] che consentirebbe a ogni individuo di trovare il tempo e le risorse per dedicarsi alla cura della propria educazione e della propria persona (xiū shēn, 修身).
Così come esistono leggi e principi che governano l’universo e il mondo naturale, anche la società degli uomini deve essere governata da modelli e regole. I saggi hanno compreso tale necessità, traducendola in un sistema organico di norme e rapporti formali strettamente vincolato alle virtù: “I principi costitutivi dell’ordine naturale (jīnglǐ, 经理) sono la vera essenza del magistero degli antichi sovrani” ha sostenuto Xunzi nel III secolo a.C. Il rapporto con la divinità era assicurato dalla relazione armoniosa tra i principi dell’ordine naturale e i riti e le convenzioni sociali, grazie alla quale “gli inferiori diventano obbedienti e i superiori acquistano sagacia; tutto e tutti trovano, attraverso innumerevoli adattamenti, la giusta collocazione”.[3]
In quest’ottica saggio è colui che segue i principi regolatori dell’universo cercando il punto di perfetto equilibrio tra essi e il proprio agire, ispirandosi alle virtù nella prospettiva del massimo perfezionamento morale (chéng, 诚). Le basi per l’elaborazione di una teoria etica dell’universo erano state poste in epoca classica; saranno i neo-confuciani dell’XI e XII secolo a conferire un significato pregnante al binomio Tiānlǐ 天理 “Principio celeste”, laddove lǐ 理 “principio” non verrà più inteso come un’entità astratta e statica, ma dinamica, che genera un movimento costante, mantenendo in un flusso ordinato i principi vitali che sottendono e garantiscono nell’universo la vita, la continuità e la razionalità dei diecimila esseri e processi (wànwù, 万物). Il Principio che regola l’universo è per sua stessa natura morale e, in quanto tale, viene equiparato alla massima virtù confuciana, rén 仁 “amore per il prossimo”, che non va più intesa come riferita alla sola umanità, ma estesa all’intero universo. La valenza universale di rén 仁 e l’esistenza di un unico ente (“corpo”, yītǐ 一体) che annullerebbe ogni differenza tra la natura del cosmo e la natura dell’uomo si fondono così in un Principio unico, che può assumere forme diverse (lǐ yī ér fēn shū, 理一而分殊). Pur sussistendo una pluralità di principi individuali alla base dei singoli oggetti e fenomeni, vi è un unico Principio universale che regola il loro insieme: ogni principio individuale è dunque una manifestazione del Principio celeste, che nell’uomo si estrinseca nella sua natura innata sotto forma di virtù.
Ritenendo che solo l’educazione può garantire il manifestarsi delle virtù e la correttezza delle relazioni sociali, i neo-confuciani, come i grandi maestri che li avevano preceduti, sottolinearono il valore dello studio, della disciplina, della coltivazione interiore, dell’impegno civile e politico, dell’assunzione di responsabilità in ambito sociale. La concezione confuciana della società era sì di stampo aristocratico, ma l’educazione, e non la nascita, era determinante per raggiungere livelli di eccellenza. Ogni uomo ha il compito di coltivare la propria persona e creare le condizioni affinché anche altri possano ricevere i benefici dell’educazione. La persona educata ai valori confuciani (jūnzǐ, 君子) non ricerca i misteri di un sapere iniziatico, non è infatuato del proprio bagaglio intellettuale, ma esercita la costante pratica della virtù, tanto più agevole quanto più sottratta al pungolo della necessità. Infatti nell’ascendere a livelli sempre più alti di perfezione il saggio non dimentica chi è oppresso da condizioni materiali svantaggiate, tali da impedire l’accesso a un’efficace educazione.
Confucio e il confucianesimo
È curioso notare come storicamente il termine “confucianesimo” non abbia nella lingua cinese un immediato corrispettivo, essendo di derivazione occidentale, così come occidentale fu lo sviluppo del concetto di confucianesimo come religione, avvenuta nel corso dell’Ottocento. Si è infatti soliti tradurre con “confucianesimo” il binomio rújiā 儒家, impiegato in epoca imperiale per indicare la classe (jiā, 家) dei rú 儒, uomini di cultura e profondi conoscitori del patrimonio del passato, delle usanze e dei cerimoniali di corte, della musica, delle regole dell’etichetta, degli ideali e dei principi etici che avevano ispirato i saggi sovrani dell’antichità. Con il trascorrere del tempo il termine rú 儒 venne usato per indicare i confuciani e il confucianesimo, anche se per l’epoca Zhou (1045-256 a.C.) sarebbe più appropriato tradurre rú 儒 con “classicisti” o “letterati”. Rúxué 儒学 “studi confuciani” si riferisce all’apprendimento (xué, 學) dei principi e dei valori etici promossi dai rú 儒 e delle opere canoniche che li hanno teorizzati, mentre rújiào 儒教 è il termine più prossimo al concetto di religione confuciana. Va osservato che in origine jiào 教 non aveva il significato di “religione”, essendo il suo ambito semantico confinato ai concetti di “insegnamento, dottrina”. Fu tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo che cominciò a essere impiegato nell’accezione di “religione”, generando una confusione che ancor oggi permane, avendo rújiào 儒教 la duplice accezione di “pensiero, dottrina, sistema filosofico confuciano” e di “religione confuciana”.
Alla luce di queste considerazioni è evidente che Confucio (551-479 a.C.) non può essere considerato il capostipite dei rú 儒, che esistevano ben prima di lui, semmai egli ne fu uno degli esponenti più brillanti. Tantomeno fu il fondatore del confucianesimo, ma di certo ne è il padre spirituale. Il suo pensiero è stato trasmesso da una pluralità di fonti, ma nessuna opera è attribuibile a lui: i discepoli e i seguaci si sono incaricati di riportare i suoi precetti e insegnamenti, interpretando, sviluppando e tramandando quanto attribuito al maestro. Fu con i neo-confuciani di epoca Song (960-1279) e Ming (1368-1644) che il confucianesimo, divenuto parte integrante della società, risentendo dell’influenza del Daoismo e del Buddhismo, dedicò maggiore attenzione a questioni di natura cosmologica e metafisica e al rapporto che lega l’uomo al destino e al divino.
Per oltre due millenni l’impero cinese ha trovato la sua ossatura in un capillare sistema burocratico, il cui funzionamento era strettamente legato all’educazione confuciana, volta alla formazione di letterati-funzionari colti e irreprensibili che ovunque nel vastissimo paese si preparavano alle selezioni pubbliche seguendo programmi di studio basati su un corpus di opere a sfondo moraleggiante, canonizzate nei primi secoli dell’impero. Obiettivo dell’insegnamento non era tanto fornire competenze tecniche, quanto instillare nell’allievo valori e principi etici, suggerendo una prassi di governance basata sul rispetto delle gerarchie, iniziando da quelle che legavano i componenti di uno stesso clan familiare, che nella Cina tradizionale arrivava a comprendere centinaia di membri. Il fine ultimo era formare uomini di grande virtù e valore, figli e sudditi capaci di impegno sociale, di una condotta ispirata a valori condivisi, all’obbedienza e alla sollecitudine, padri e governanti autorevoli e al tempo stesso premurosi nei confronti di figli e sudditi, in una visione umanistica che perseguiva l’interesse e il benessere comuni.
Confucianesimo come religione
La questione relativa alla natura religiosa del confucianesimo viene dibattuta da secoli, generando infinite controversie tra gli intellettuali delle più diverse estrazioni: teologi, storici delle religioni, antropologi, sociologi, filosofi e sinologi. [6] Attualmente il confucianesimo non figura tra le cinque religioni ufficialmente riconosciute dallo Stato (Buddhismo, Daoismo, Islam, Cattolicesimo e Protestantesimo) e a ben pochi cinesi verrebbe in mente di definirsi credenti confuciani, diversamente da quanto accade a Hong Kong e in Indonesia, dove il confucianesimo è ufficialmente considerato una religione, e in Occidente, dove viene spesso presentato e classificato come una delle grandi religioni del mondo.
A definire il confucianesimo una religione fu James Legge (1815-1897), missionario congregazionalista scozzese della London Missionary Society, il più autorevole traduttore di classici cinesi della sua epoca. [7] Nel 1877 egli presentò alla Conferenza Plenaria dei Missionari Protestanti in Cina tenutasi a Shanghai una relazione nella quale, per la prima volta, il confucianesimo veniva descritto come un sistema religioso degno di essere messo a confronto con il Cristianesimo. [8] Tre anni più tardi pubblicò un volume in cui confucianesimo e Daoismo venivano presentati come le due religioni autoctone cinesi comparabili al Cristianesimo;[9] tale posizione si affermò rapidamente in Occidente, portando nel 1915 alla pubblicazione del volume di Max Weber (1864-1920) Konfuzianismus und Taoismus, ristampato in un’edizione ampliata e riveduta nel 1920 e tradotto in inglese nel 1951, divenendo un’opera di riferimento per generazioni di sinologi e storici delle religioni e condizionando a lungo il pensiero occidentale.[10]
E in Cina? In epoca imperiale non esisteva alcuna classificazione ufficiale che considerasse il confucianesimo una religione o un movimento di natura religiosa. Negli ultimi anni della dinastia Qing (1644-1911), sulla spinta del dibattito da tempo avviato da missionari e studiosi occidentali circa la natura religiosa delle pratiche cultuali riconducibili a Confucio, prese corpo l’idea di far assurgere il confucianesimo a religione di Stato. A porre la questione in modo esplicito fu il grande riformista Kang Youwei (1858-1927), che seppe dare una dimensione politica al termine guójiào 国教, da lui inteso nel significato pieno di “religione di Stato”. Fu in riferimento a questo concetto che coniò il termine Kǒngjiào 孔教 che potremmo tradurre “religione confuciana” (Kǒng 孔 è il cognome di Confucio) o “confucianità”, parafrasando il termine “cristianità” di cui Kǒngjiào è chiaramente il calco linguistico. Nacque così il cosiddetto Movimento religioso confuciano (Kǒngjiào yùndòng, 孔教运动), che fu attivo nel secondo decennio del Novecento.
Nel 1913 venne presentata al governo una petizione che chiedeva di inserire nel testo della nuova costituzione il confucianesimo come religione di Stato, ma la proposta non fu accolta; un secondo tentativo fallì qualche anno dopo. Alla fine degli anni Venti il governo repubblicano ordinò alle Associazioni di ispirazione confuciana di modificare il proprio nome in Kǒngxuéhuì (孔学会), sostituendo quindi Kǒngjiào (孔教) con Kǒngxué (孔学): si veniva così a perdere la connotazione religiosa che il termine jiào (教) denotava, limitando il campo delle attività delle congregazioni al solo studio, insegnamento e apprendimento dei valori e dei principi etici confuciani, sintetizzati per l’appunto nel termine xué 学 “studio, apprendimento”. Kǒngxuéhuì va quindi tradotto “Associazione per lo studio del confucianesimo”.
Nel 1930 Chen Huanzhang (1881-1933), discepolo di Kang Youwei, si trasferì a Hong Kong, dove fondò la Kǒngjiào xuéyuàn (孔教学院) “Accademia di studi religiosi confuciani”, un’organizzazione non governativa ancor oggi molto attiva, che ha come obiettivi la promozione del confucianesimo come religione di Stato, l’insegnamento nelle scuole di ogni ordine e grado dei valori e dei principi etici confuciani, e la costruzione, ovunque nel mondo, di templi dedicati a Confucio. L’associazione è presente, in misura contenuta ma crescente, anche nella Cina continentale.
Con l’avvento della Repubblica popolare nel 1949 la questione venne archiviata: il confucianesimo, etichettato come ideologia deviante, venne considerato un retaggio del passato, espressione di un sistema feudale, nocivo per la società. Una graduale apertura nei confronti della libertà religiosa si ebbe solo dopo la fine della Rivoluzione culturale (1966-1976) e fu allora che la questione del confucianesimo tornò d’attualità, al punto che oggi è fortemente incoraggiato dalle autorità, ma non in funzione religiosa, anche se non manca chi opera per promuovere il confucianesimo come religione.[11]
La mancanza di riti d’iniziazione e di conversione, di un ordine sacerdotale, di una Chiesa e, soprattutto, di una comunità di fedeli che si ritenga veramente tale non consente di annoverare il confucianesimo tra le grandi religioni. Si diventa confuciani attraverso l’educazione, l’osservanza di pratiche rituali e l’adesione a modelli di comportamento che esprimono una particolare concezione etica, non grazie a un puro atto di fede. Chi si considera confuciano può al tempo stesso essere ateo o abbracciare una religione, non sussiste alcuna contraddizione. Per quei tratti di religiosità che comunque caratterizzano il confucianesimo, in parte derivati da commistioni con il Daoismo e il Buddhismo, e in mancanza di criteri che consentano di separare in modo netto i credo religiosi da concezioni filosofiche, il confucianesimo potrebbe essere annoverato tra le cosiddette “religioni civili”.
Considerazioni conclusive
In anni recenti la Cina è tornata sui suoi passi, promuovendo il recupero delle virtù confuciane e opponendole a quei “valori occidentali” ritenuti estranei alla propria cultura e sensibilità e dannosi per l’ordine costituito. Risulta difficile immaginare un percorso che, soprattutto a breve termine, possa condurre il paese verso forme di governo democratico, foss’anche di “democrazia confuciana”, intesa sia come visione, sia come pratica alternativa alla democrazia liberale.
La riappropriazione del retaggio culturale tradizionale è promossa in funzione del progresso armonioso della società e di un suo più efficace controllo. Indicando come fonte di legalità e di legittimazione i grandi ideali del passato si è voluto avviare un processo di moralizzazione della vita politica, economica e sociale per contrastare la dilagante corruzione degli ultimi decenni. I valori confuciani, rientrati a pieno titolo nei programmi delle scuole private e pubbliche di ogni ordine e grado, sono oggetto di campagne di sensibilizzazione di massa e di misure legislative. [12] Chiamati a rappresentare la vera forza propulsiva della civiltà cinese, essi promettono un nuovo umanesimo e un futuro migliore, consentendo a un presente incerto e problematico di ritrovare una connessione con la millenaria storia del paese. Allo stesso tempo garantiscono al Partito un controllo capillare della società, facendo leva sul tradizionale senso di rispetto dell’autorità costituita e su sistemi di verifica del comportamento individuale, come ad esempio quello rappresentato dal credito sociale.
Indipendentemente dalle motivazioni che hanno favorito il ritorno al confucianesimo e alla possibilità di un suo uso strumentale, determinato da logiche di potere o di governo, gli ideali e i valori confuciani saranno nuovamente appresi e interiorizzati da centinaia di milioni di cinesi e verranno, con gradualità, messi in pratica. Come in passato, potranno servire da collante per tenere coeso un paese immenso e una popolazione eterogenea e concorrere alla creazione di un sistema ideologico nuovo che sostenga il passaggio da un’economia di stampo socialista a un’economia di tipo più liberale, coniugando una visione laica della società con le esigenze di natura spirituale e religiosa dell’individuo. È un processo che richiede tempi lunghi, ma se non verrà interrotto, alla fine i risultati verranno e incideranno significativamente sulla vita dell’intera popolazione.
[1] Confucio, Dialoghi, 13.23. Per un approfondimento si rinvia a: Maurizio Scarpari, Il confucianesimo. I fondamenti e i testi (Torino: Einaudi, 2010).
[2] Mencio, 1A.7, 2A.6.
[3] Xunzi, 19.2.
[4] Nella lingua cinese esiste, ovviamente, una parola traducibile con “religione” nel senso proprio del termine, che non presenta ambiguità di sorta. Essa è zōngjiào 宗教, binomio introdotto in Cina dal Giappone intorno alla fine del XIX secolo.
[5] Secondo Lionel Jensen non esisteva in Cina alcun movimento di pensiero che si potesse definire “confuciano” nel senso letterale del termine: esso fu generato dall’azione congiunta dei gesuiti giunti in Cina nel XVI secolo e di alcuni studiosi cinesi attivi all’inizio del XX secolo. Quest’ipotesi è stata oggetto di dibattito. Si vedano: Lionel M. Jensen, Manufacturing Confucianism, Chinese Traditions and Universal Civilization (Durham, NC: Duke University Press, 1977); Nicholas Standaert, “The Jesuits did NOT manufacture «Confucianism»”, East Asian Science, Technology, and Medicine, 16 (1999): 115-132; Liang Cai, “When the Founder is Not a Creator: Confucius and Confucianism Reconsidered”, in Varieties of Religious Invention: Founders and Their Functions in History, a cura di Patrick Gray (Oxford: Oxford University Press, 2015): 62-82.
[6] Sul tema di questa sezione si rinvia ad Anna Sun, Confucianism as a World Religion: Contested Histories and Contemporary Realities (Princeton and Oxford: Princeton University Press, 2013), e più sinteticamente a Maurizio Scarpari, “Confucianesimo e religione”, Inchiesta, 43, No. 181 (2013): 76-85.
[7] James Legge trascorse 34 anni tra Malacca (1839-1843) e Hong Kong (1843-1873), dedicandosi allo studio della cultura cinese e alla traduzione delle principali opere della sua tradizione. Nel 1876 venne chiamato all’Università di Oxford a ricoprire la cattedra di nuova istituzione di Lingua e letteratura cinese, che tenne fino all’anno della sua morte.
[8] James Legge, Confucianism in Relation to Christianity: A Paper Read before the Missionary Conference in Shanghai on May 11th, 1877 (Shanghai: Kelly and Walsh, 1877). La relazione venne presentata in absentia, trovandosi Legge a Oxford, al Corpus Christi College. Il nome “Confucius” (latinizzazione di Kongfuzi, Maestro Kong) era stato creato dai gesuiti nel 1687, mentre “Confucianist” apparve solo nel 1846 e “Confucianism” nel 1862.
[9] James Legge, The religions of China: Confucianism and Taoism described and compared with Christianity (London: Hodder and Stoughton, 1880).
[10] Max Weber, The Religion of China: Confucianism and Taoism, trad. ingl. Hans H. Gerth e Don Martindale (New York: Free Press, 1951).
[11] Per un’introduzione del fenomeno si rinvia a Maurizio Scarpari, Ritorno a Confucio. La Cina di oggi fra tradizione e mercato (Bologna: il Mulino, 2015). Tra gli esponenti del cosiddetto Neo-confucianesimo della Cina continentale (dàlù xīn rúxué, 大陆新儒学), che si rifà, rielaborandolo per adattarlo alle esigenze della Cina del XXI secolo, al pensiero di Kang Youwei (e per questo noto anche come Neo-Kangyouweismo, Xīnkāngyǒuwéizhǔyì, 新康有为主义), un ruolo preminente è svolto da intellettuali del calibro di Jiang Qing, Kang Xiaoguang, Chen Ming, Gan Chunsong, Tang Wenming, Zeng Yi e altri ancora. Le loro posizioni sono in parte note anche in Occidente, grazie all’opera di promozione svolta da oltre un decennio prevalentemente da Daniel A. Bell (si veda ad esempio, ma non solo, il suo China’s new Confucianism: politics and everyday life in a changing society, Princeton, NJ: Princeton University Press, 2008) e alla pubblicazione in lingua inglese di alcuni saggi rilevanti da parte di alcuni dei protagonisti del movimento. Primo fra tutti, Jiang Qing, autore di A Confucian constitutional order: how China’s ancient past can shape its political future (Princeton, NJ: Princeton University Press, 2012). Non mancano però anche coloro che, negando la natura religiosa del confucianesimo, sostengono l’assoluta preminenza dell’aspetto culturale incentrato sullo studio dei Classici della tradizione (wénjiào, 文教), come ad esempio Yao Zhongqiu. Si veda, ad esempio, il suo Rújiào fēi zōngjiào lùn [Il confucianesimo non è una religione], Journal of Tongji University (Social Science Section), (2013) 4: 72-82.
[12] Maurizio Scarpari, “La Confucianizzazione della Legge: Nuove Norme di Comportamento Filiale in Cina”, in Il liuto e i libri. Studi in onore di Mario Sabattini, a cura di Magda Abbiati e Federico Greselin (Venezia: Edizioni Ca’ Foscari, 2014), 807-830.
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