L’ultima rivoluzione del Partito

Sin dai tempi della crisi del 1989, il Partito comunista cinese (Pcc) sembra essere stato capace di garantire una crescita impetuosa all’economia del paese. Come sottolineato da diversi analisti (tra cui Andrew Nathan e David Shambaugh), il Pcc è riuscito fino ad oggi a contenere le crisi e a mantenere la stabilità nonostante le diverse fonti di tensione all’interno del Partito-Stato cinese.

Negli ultimi mesi, tuttavia, la Cina si è ritrovata a fare i conti con un drastico cambiamento dell’ambiente internazionale. Vari paesi nordafricani e mediorientali, caratterizzati da modelli politico-economici talvolta non troppo dissimili da quello di Pechino, sono stati scossi da cambiamenti turbolenti provocati da proteste popolari e pressioni esterne; alla frontiera meridionale della Cina il Vietnam, un paese socialista, e la Birmania, vecchio alleato dell’autoritarismo cinese, hanno avviato importanti riforme politiche; a nord, l’autoritarismo putiniano si è scontrato con un’opposizione popolare senza precedenti; a oriente, la morte prematura di Kim Jong-Il e l’ascesa del figlio al potere gettano una luce incerta sul futuro del regime nordcoreano. Un crescente desiderio di riforme rischia di lasciare sempre più isolato il dispotismo del Partito comunista cinese.

Contemporaneamente, all’interno del paese, il governo si trova ad affrontare una crisi ideologica e di governance senza precedenti. Sul piano ideologico è da tempo in corso una progressiva erosione dei tre pilastri del Partito – la gestione di una politica economica effettivamente socialista, il materialismo dialettico marxista e il sistema della Storia del Partito – a favore di un sempre più chiaro dominio delle teorie economiche occidentali (note un tempo come “le scienze sociali della classe capitalista”). Sin dai primi anni ’90 del secolo scorso, gli storici della Cina contemporanea (un settore distinto dalla storia del Partito) hanno cercato di riscrivere la storia del Pcc nello spirito di un “nuovo positivismo”, come dimostrano le controverse analisi sul ruolo del Partito nella guerra contro i giapponesi. Due dei tre pilastri ideologici del Partito sono ormai sul viale del tramonto e manca poco prima che il terzo – ossia il materialismo dialettico marxista – segua la stessa sorte.

Il sorgere della generazione “Weibo” (frequentatissimo sito di microblogging cinese) e le sempre più numerose possibilità di interconnessione tra i cinesi di oggi rendono di fatto impossibile il controllo dell’informazione in Cina. L’immagine gloriosa del Partito – un tempo considerato sempre “grande, glorioso e corretto” (weida, guangrong, zhengque 伟大,光荣, 正确) – è ormai una chimera: l’accessibilità ad un pubblico sempre più vasto di informazioni più o meno autorizzate ha spalancato il sipario della propaganda cinese. Il re è nudo. La maggior parte dei cinesi sembra ormai ritenere che l’attuale sistema politico sia destinato ad avere vita breve (sito in cinese) e che un cambiamento sia necessario in tempi rapidi.

Le lezioni impartite dalla crisi politica degli anni ’80 del secolo scorso, tuttavia, hanno insegnato ai politici cinesi che è sempre meglio muoversi verso la sinistra dello spettro politico che verso la destra. Essere di sinistra in Cina è più tollerato e più sicuro: si rischia forse qualche critica da parte dei “riformisti”, ma di certo non si va incontro all’arresto come quando si è accusati di “eccessi di destra”. Appoggiare politiche di sinistra significa, infatti, affermare la legalità della rivoluzione del Partito comunista e la sua legittimità a governare il paese. È in questa cornice che va visto il caso Bo Xilai: il modello di Chongqing – con le sue “canzoni rosse” e la lotta contro la criminalità – scaturisce dall’intreccio tra le crisi politiche in corso, all’interno e all’esterno del paese, e la tolleranza di lungo corso nei confronti delle posizioni di “sinistra” all’interno del Pcc.

Lo scandalo di Bo Xilai, dunque, è stata un’ottima occasione per quella parte della leadership avversa a Bo per poter da una parte dare un colpo finale (sito in cinese) alla “sinistra” e al suo approccio populista nei riguardi dei problemi attuali del paese e dall’altra per accelerare la democratizzazione del Partito e il rafforzamento della “rule of law”. Si potrebbe dunque interpretare la purga in atto nei confronti di Bo come un riflesso cinese della più ampia tempesta – o Primavera – che ha scosso in questi mesi l’autoritarismo in Asia e in Africa? Forse. Ciò che è certo è che la Cina sta attraversando uno dei momenti di transizione politica e sociale più delicati degli ultimi decenni. La storia di Bo Xilai rispecchia ben più che una semplice lotta di potere: rappresenta l’eco all’interno delle più alte sfere del Partito del profondo cambiamento in corso nel cuore della società cinese. È una questione vitale per il Partito: se non saprà adattarsi a questa nuova realtà e interpretarla, vedrà gravemente compromessa la sua legittimità e, progressivamente, la stabilità dell’intero paese.

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