Gli accordi commerciali trans-regionali sono allo stesso tempo contenitori di clausole economiche ed espressione di logiche geopolitiche. Lo si evince da un’osservazione di intese mercantili come il Partenariato Trans-Pacifico (TPP), firmato il 4 febbraio 2016; l’Accordo Comprensivo e Progressivo per il Partenariato Trans-Pacifico (CPTPP, la più recente versione del TPP), firmato il 23 gennaio 2018; e il Partenariato Economico Comprensivo Regionale (RCEP), la cui firma era attesa durante il vertice ASEAN di novembre ed è stata rinviata al 2019 a causa delle imminenti elezioni in alcuni dei Paesi membri.
All’origine, il TPP consisteva in un accordo commerciale regionale concluso fra 12 stati partecipanti (Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Vietnam, e Stati Uniti) al fine di abbattere barriere tariffarie e non tariffarie. Tra le misure importanti incluse nell’accordo vi erano la liberalizzazione di Internet, l’istituzione di arbitrati internazionali per le controversie tra stati e società multinazionali, e minori ostacoli alla circolazione delle merci agricole, tessili e del settore calzaturiero. Da una parte, il TPP rappresentava un quadro giuridico-istituzionale per risolvere le difficoltà collegate alla macchinosa governance dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) causata dalla multi-polarizzazione dell’ordine globale. Infatti, l’accordo mirava a superare l’impasse del Doha Round, rivelatosi lento e tortuoso sulle liberalizzazioni in settori strategici come la proprietà intellettuale (IP) e la tecnologia dell’informazione (IT). Dall’altra, il TPP cercava di applicare un importante principio della strategia statunitense: quel Wilsonianism-cum-primacy attraverso cui le amministrazioni statunitensi cercano d’imporre l’apertura dello spazio geoeconomico globale mantenendo, però, il dominio geopolitico. La relazione fra geoeconomia e geopolitica era particolarmente stretta all’interno del TPP. Rafforzando in Asia-Pacifico un multilateralismo tipicamente favorevole agli Stati Uniti, il trattato escludeva la Cina in modo non esplicitamente conflittuale.
Di fatto, sanzionando le aziende di stato, il TPP mirava a imporre una disciplina di libero mercato al capitalismo cinese – una fonte cruciale di potere geopolitico per Pechino. Insieme al Trattato bilaterale sugli investimenti (BIT), ancora in corso di negoziazione, il TPP ambiva a stimolare la riforma interna e portare le imprese cinesi sul terreno della libera concorrenza. Così facendo, il trattato permetteva ad alcuni settori strategici dell’industria statunitense (per esempio le industrie della tecnologia, della farmaceutica, della proprietà intellettuale e della soia) di prosperare grazie a una subdola ma reale forma di protezionismo.
Donald Trump ha ritirato gli Stati Uniti dal TPP con un ordine esecutivo il 24 gennaio 2017. Da un lato, questa mossa era necessaria affinché il presidente populista desse seguito all’agenda elettorale anti-globalista. Dall’altro, l’uscita dal TPP è stata il preludio a una negoziazione più dura con la Cina attraverso sanzioni e tariffe commerciali – un cambio tattico rispetto ad Obama, ma non strategico.
Tuttavia, sarebbe incauto considerare il TPP con undici membri (TPP 11 o CPTPP) diverso dal TPP 12 nelle sue caratteristiche qualitative. Nonostante l’uscita degli Stati Uniti, il TPP 11 continua a essere una grande area commerciale e a fornire un quadro normativo coerente con quello del TPP 12. Le economie delle nazioni rimanenti all’interno dell’accordo rappresentano oltre il 13% -15% del PIL globale (un totale di 10-13 trilioni di dollari) e comprendono fino a 495 milioni di persone. L’accordo prevede l’eliminazione del 98% delle barriere commerciali tra gli 11 stati membri.
Pur con l’assenza statunitense, la combinazione di vantaggi geoeconomici e strategici propria del TPP 12 è rimasta tale per gli altri stati membri. L’esclusione della Cina continua a proteggere centri tecnologici come il Giappone, l’Australia e Singapore dalle competitive aziende di Pechino, mentre l’assenza statunitense potrebbe essere un vantaggio per le aziende giapponesi di questo settore. Il Vietnam potrebbe rappresentare il produttore di tessuti e abbigliamento a basso costo più dinamico dell’accordo. Inoltre, il TPP 11 consentirà di esportare i prodotti agricoli australiani in maggiore quantità e con maggiori profitti, sebbene rimanga incerto fino a che punto il TPP 11 benefici l’Australia. Nel prossimo decennio, i mercati delle proprietà industriali, in particolare in Canada e Giappone, potrebbero guadagnare dalla crescita della domanda di servizi che vengono esportati o utilizzati per il commercio.
Nonostante l’abbandono degli Stati Uniti sia una brutta notizia per economie di servizi come Singapore ed esportatori come il Vietnam e la Malaysia, anche questi Paesi continueranno a trarre benefici dall’entrata in vigore del CPTPP. Singapore potrà espandere le proprie attività come centro finanziario e di servizi regionali, mentre il Vietnam e la Malaysia aumenteranno la produzione e l’esportazione tessile. Secondo il Peterson Institute for International Economics, il TPP 11 aggiungerà un 2% alla crescita di Paesi quali Malaysia, Singapore, Brunei e Vietnam, mentre Nuova Zelanda, Giappone, Canada, Messico, Cile e Australia cresceranno a un ritmo più lento. Il TPP 11, tuttavia, sarà leggermente più snello rispetto al TPP 12. Il governo della Nuova Zelanda ha riferito che nel nuovo accordo sono state sospese ben ventidue disposizioni tra cui il meccanismo “Risoluzione delle controversie tra investitore e stato” (Investor state dispute settlement, ISDS) e il copyright dei brevetti. Per quanto riguarda la risoluzione delle controversie, le multinazionali non potranno citare in giudizio i governi di fronte agli organi giudiziari internazionali per dispute relative all'”interesse pubblico”. Il copyright, invece, non verrà più aumentato da 50 a 70 anni come previsto dalla precedente disposizione. Quest’ultima era stata fortemente voluta dal settore farmaceutico statunitense poiché estendeva la proprietà intellettuale dei brevetti di 20 anni – una misura che favoriva gli Stati Uniti in quanto Paese con il maggior numero di brevetti al mondo.
Sebbene questi siano cambiamenti importanti, non bisogna reagire in modo esagerato al ritiro degli Stati Uniti dall’accordo. Non solo i senatori repubblicani, gli agricoltori americani, e molti altri stanno facendo pressioni affinché gli Stati Uniti si uniscano nuovamente agli altri partner. Il TPP 11 resta fondato su quegli standard promossi dagli Stati Uniti che erano centrali nel TPP 12. In effetti, il TPP 11 “potrebbe diventare un programma per futuri accordi di libero scambio regionali” o per un ritorno a un TPP 12. Certamente, gli Stati Uniti potrebbero perdere uno 0,5% nella crescita del PIL e oltre a 2 miliardi di dollari se le società con sede negli stati membri del TPP 11 decidessero che è più conveniente commerciare l’una con l’altra. Ciononostante, il TPP 11 giova ancora a Washington. Innanzitutto, gli Stati Uniti potrebbero sempre rientrare, sia durante sia dopo il mandato di Trump. Recentemente, il Segretario al Tesoro statunitense Steven Mnuchin (e lo stesso Presidente) hanno accennato alla possibilità che gli Stati Uniti possano ricongiungersi all’accordo. Se ciò dovesse accadere, tuttavia, gli Stati Uniti dovranno accettare le disposizioni attuali, almeno inizialmente. In secondo luogo, il TPP 11 continua a rappresentare un ostacolo all’egemonia geoeconomica e geopolitica della Cina.
Un’altra possibilità largamente discussa sin dall’elezione di Trump è che la Cina possa assumere un ruolo guida nei processi di integrazione regionale qualora gli Stati Uniti dovessero fare un passo indietro rispetto all’ordine liberale internazionale.
Ma dato ciò che abbiamo appena detto, è improbabile che la Cina si unisca al TPP 11 a breve termine – sarebbe necessaria una riforma domestica strutturale che includa pesanti privatizzazioni. Questo dunque sposta l’attenzione verso gli sviluppi del RCEP, che offre un’intelaiatura normativa meno esigente rispetto alle due versioni del TPP.
La possibilità di un simile accordo era nell’aria sin dal diciannovesimo summit ASEAN tenutosi a Bali nel novembre 2011. Il RCEP è stato ufficializzato durante l’anno successivo nel ventesimo summit ASEAN in Cambogia, e le negoziazioni hanno preso il via nel maggio 2013. L’accordo prevede la partecipazione di Australia, Brunei, Giappone, Malaysia, Nuova Zelanda, Singapore e Vietnam (Paesi già membri del TPP) congiuntamente a Cambogia, Cina, India, Indonesia, Laos, Myanmar, Filippine, Corea del Sud e Thailandia. Il RCEP sarà il maggiore blocco di libero scambio esistente. Tra gli stati sopracitati, dieci sono già membri dell’ASEAN (Brunei, Cambogia, Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Filippine, Singapore, Thailandia, Vietnam) mentre i restanti sei stati dell’Asia-Pacifico hanno legami commerciali con l’ASEAN (Australia, Cina, India, Giappone, Corea del Sud e Nuova Zelanda).
Infatti, come notato da diversi esperti, il RCEP non è frutto di un disegno competitivo in reazione al TPP a undici membri. I due accordi non sarebbero in concorrenza l’uno con l’altro perché il RCEP è in realtà un’estensione dell’integrazione regionale promossa dall’ ASEAN. Inoltre, quest’integrazione regionale è anche nell’interesse di piccole economie che rischiano una marginalizzazione economica e non va quindi letta come uno specchio delle relazioni fra potenze egemoni come Stati Uniti e Cina.
Quest’affermazione è corretta da un punto di vista formale. Come spiega Jeffrey Wilson della Murdoch University, il RCEP è emerso dalla fusione di altri due progetti per il libero scambio regionale, l’Area di Libero Scambio dell’East Asia Free Trade Area (EAFTA), voluto dalla Cina per il gruppo ASEAN+3, e il Comprehensive Economic Partnership in East Asia (CEPEA), voluto dal Giappone per l’ASEAN+6. Questi due piani sono confluiti in una proposta unica sponsorizzata dall’ASEAN. Fra le tante differenze qualitative rispetto alle due versioni del TPP, è importante rilevare che nell’e-commerce permane incertezza sulla profondità delle liberalizzazioni. Infatti, su richiesta di Giappone, Australia, Corea del Sud e Nuova Zelanda, negli ultimi mesi un gruppo di lavoro ha studiato (in segretezza) la possibilità di estendere l’accordo a diversi aspetti dell’e-commerce. In questo senso, la posizione dell’India ha rappresentato un nodo da sciogliere. Dopo l’incontro ministeriale di fine agosto, alcune questioni sembrano essersi avviate verso una soluzione. L’India potrà negoziare bilateralmente certe tariffe che preoccupano industrie come tessile ed acciaio. Invece, per il momento, Nuova Delhi non modificherà gli accordi sulla Proprietà Intellettuale già in vigore nel quadro del WTO.
Il ruolo dell’India è importante. Da una parte Nuova Delhi è restia a liberalizzare il settore farmaceutico e l’agricoltura; dall’altra vorrebbe regole più coraggiose nei servizi e la mobilità dei lavoratori. A questo punto, però, difficilmente ci sarà un accordo su mobilità del lavoro, proprietà intellettuale e criteri di tutela ambientale, anche se per quanto riguarda il primo se ne sta discutendo. Tuttavia, uno scrutinio più rigoroso del RCEP da un punto di vista sostanziale rileva una differenza importante fra TPP e RCEP. Mentre il primo interviene anche sulla qualità delle liberalizzazioni, il secondo cerca di costruire un sistema regionale multilaterale che possa eliminare il problema del noodle bowl – espressione che simboleggia la forte crescita di accordi bilaterali in Asia-Pacifico negli anni 2000 e che paradossalmente rappresenta un ostacolo al commercio regionale. Quindi, a differenza del TPP, il RCEP dovrebbe intervenire soltanto sull’80% delle tariffe, una parte delle quali non verrebbe azzerata ma ridotta. Sicuramente queste caratteristiche del RCEP giustificano le tesi di coloro che vedono nell’accordo un naturale processo di integrazione economica senza una regìa politica.
Però, non si può trascurare il fatto che il RCEP esclude gli Stati Uniti e include la Cina. E’ intuibile come l’orientamento normativo meno esigente del RCEP faccia gola a Pechino perché aumenta le opportunità per le aziende cinesi di rafforzare il loro ruolo egemonico (già in ascesa fra gli stati vicini).
Piattaforme come quella del RCEP permettono alla Cina di sfuggire alla cosiddetta trappola della sovraccapacità industriale, fornendo una valvola di sfogo a un Paese che da prima della crisi economica del 2008 vede il rapporto fra esportazioni e GDP lentamente diminuire.
Insomma, se il RCEP soddisfa una domanda di governance regionale, non vuol dire che gli interessi nazionali non inquinino lo spazio delle negoziazioni. Da una parte l’Asia-Pacifico va verso un’oggettiva integrazione con accordi che servono a promuovere il libero scambio e, come spiegato sopra, unificare una regione frammentata. Dall’altra, ogni stato cerca di imporre regole che favoriscano le condizioni strutturali della propria economia e dei settori industriali più strategici o vulnerabili. Questo quadro è particolarmente importante per capire la competizione sino-americana nella regione. Sarà il RCEP ad abbassare gli standard del TPP, o sarà il TPP ad avere un effetto locomotiva sul RCEP? Questa divergenza, purtroppo, lascia una domanda senza risposta. Se in futuro il TPP migliorerà alcuni dei requisiti del RCEP, dipenderà dal successo e dalla percezione internazionale del capitalismo cinese, ma anche dall’influenza di Washington nella regione. L’unico vantaggio di unirsi al RCEP rispetto al TPP 11 sarebbe la presenza della Cina. Allo stesso tempo, però, accedere al TPP significa adottare riforme difficili o costose. Considerata la crisi economica, la spinta nazionalista degli Stati Uniti e l’incertezza delle riforme cinesi, l’esito della sfida fra questi due modelli non è ancora deciso.
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