La strategia cinese in Medio Oriente: interessi e politiche

Traduzione dall’inglese di Andrea Ghiselli, dottorando di ricerca, Fudan University e non-resident research assistant, T.wai

Il Medio Oriente di oggi è uno spazio di competizione fra potenze esterne alla regione in modo sostanzialmente diverso dal passato. Per quanto Stati Uniti, paesi europei, Giappone, India, Turchia e Cina abbiano interessi consistenti nella regione, nessuno di essi può o vuole sostenere i costi – in termini di risorse politiche, economiche e umane – che comportano grandi interventi negli affari regionali. A ciò si aggiunga che, con lo scoppio della “primavera araba” nel 2011, la capacità degli attori extra-regionali di influenzare il Medio Oriente è calata sensibilmente. Questo perché i conflitti in corso non sono più inter-statali, ma prevalentemente intrastatali. Il moltiplicarsi dei potenziali interlocutori all’interno di ogni paese complica qualsiasi azione diplomatica. Nessuna potenza straniera è più in grado di controllare completamente gli avvenimenti nella regione come accadeva per gli Stati Uniti in passato.

Oggi Pechino è alla ricerca di una strategia per gestire il proprio crescente coinvolgimento in questa regione, come fecero in precedenza l’Impero Ottomano, l’Inghilterra, la Francia, l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti. Tuttavia, la quantità di risorse a sua disposizione è limitata. La Cina, paese ancora in via di sviluppo, può far leva sulla sua potenza economica per influenzare la politica mondiale, ma non ha la capacità di attrazione politica né la forza militare su cui gli Stati Uniti potevano o possono tuttora contare. Le principali sfide per la Cina sono tre: la necessità di bilanciare con perizia i rapporti con gli Stati Uniti, le cui forze aeronavali garantiscono pur sempre la stabilità del flusso di gas naturale e petrolio verso la Cina; il vincolo determinato dalla tradizionale politica di non allineamento; e, infine, l’impossibilità di stabilire una significativa presenza militare nella regione.

Cina e Stati Uniti condividono diversi interessi nella regione, dall’agenda anti-terroristica alla non proliferazione nucleare. Tuttavia, i due paesi sono in sostanziale contrasto su tre questioni principali: il sostegno ai paesi arabi nel conflitto arabo-israeliano; il sostegno all’Iran; l’opposizione a ogni intervento occidentale nella regione. Il mix di competizione, cooperazione e conflitto che caratterizza le relazioni sino-americane in generale è dunque presente anche in questo particolare contesto regionale. Per Pechino rimane conveniente mantenere l’attuale status quo ed eventualmente riempire i vuoti lasciati dal progressivo disimpegno americano dalla regione.

In mancanza delle risorse necessarie a garantire protezione economica o militare a eventuali alleati, la Cina deve conservare la propria equidistanza nelle relazioni con i principali attori regionali: Arabia Saudita, Egitto, Iran e Israele. L’Iran è però l’unico di questi paesi che non sia alleato con gli Stati Uniti: sostenere economicamente e diplomaticamente Teheran è quindi di vitale importanza per impedire agli Usa di esercitare un completo controllo sulla regione e, di conseguenza, marginalizzare ulteriormente la Cina. Per Pechino è importante evitare che gli Stati Occidentali impongano il proprio modello politico in Medio Oriente; per raggiungere tale scopo, deve accrescere la propria influenza in campo economico e militare.

La Cina può far leva sulla sua forza economica per accrescere la cooperazione con i partner regionali. La traduzione della potenza economica in influenza politica è uno dei principi-chiave della politica cinese nel Medio Oriente. In quest’ottica, è essenziale per Pechino incrementare la cooperazione e l’interdipendenza commerciale con gli attori regionali al di là del settore energetico ed eventualmente usare sanzioni economiche contro chi minaccia gli interessi cinesi.

È invece più difficile per Pechino decidere se e come aumentare il proprio coinvolgimento militare a causa delle limitate risorse di cui dispone e delle possibili ripercussioni nelle relazioni con gli Stati Uniti e con i paesi della regione. Un’eventuale espansione simile a quella americana richiederebbe un cambiamento radicale della diplomazia e della politica di difesa cinesi che è assai improbabile. I cinesi sono però consapevoli che diventerà sempre più difficile proteggere i crescenti interessi economici nella regione senza un’adeguata presenza politica e militare. Perciò la presenza di forze cinesi nella regione è destinata ad aumentare, anche se in modo limitato. Potrebbero essere creati punti d’appoggio logistici che non richiedano l’installazione di vere e proprie basi e il dispiegamento di militari cinesi su larga scala. Gibuti e l’Oman potrebbero essere i primi ad ospitare questo genere di punti d’appoggio. Questo relativo aumento della presenza militare cinese, il cui costo sarebbe relativamente basso, potrebbe peraltro favorire la cooperazione fra Cina, Europa e Stati Uniti contro il terrorismo e la pirateria nonché l’impegno comune nell’assistenza umanitaria.

In conclusione, la Cina sembra puntare ad ampliare gradualmente la propria capacità di intervento politico, economico e militare in Medio Oriente. Tuttavia, continuerà a privilegiare gli aspetti politici ed economici rispetto a quelli militari. Un’eccessiva espansione della presenza militare nella regione rischierebbe infatti di essere controproducente rispetto agli interessi politici ed economici di Pechino. La situazione regionale rimane d’altronde estremamente volatile e l’importanza che la Cina attribuirà al soft o allo hard power nel suo approccio alla regione dipenderà in larga misura da quanto vedrà minacciati i suoi interessi dalle dinamiche conflittuali in corso e da quelle che si svilupperanno in futuro.

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