La politica estera di Pechino alla prova della complessità

Secondo la tradizione del pensiero strategico cinese il prerequisito essenziale della politica estera nazionale è un’attenta lettura delle “propensioni complessive dell’ambiente circostante” (shi, 势): la capacità di comprendere l’evoluzione dei fattori di potere che plasmano il quadro internazionale e, quindi, di assecondare le tendenze in atto traendone il massimo vantaggio.

Oggi Pechino vede configurarsi lo shi nel mondo globalizzato in modo diverso rispetto all’inizio del ciclo politico che si va concludendo con il rinnovo della leadership del Partito-Stato cinese. Per cogliere le differenze più significative è utile confrontare l’edizione 2002 del Libro bianco sulla Difesa nazionale con quella del 2010, pubblicata nel marzo 2011. I libri bianchi, redatti dall’Ufficio Informazioni del Consiglio degli Affari di Stato (la denominazione del governo nell’ordinamento della Repubblica popolare cinese) vengono approvati dai massimi vertici politici del paese. È con i libri bianchi che le autorità cinesi rendono note al mondo le proprie posizioni su temi di particolare importanza. Confrontando il primo e l’ultimo testo sulla sicurezza nazionale diffusi durante il doppio mandato di Hu Jintao quale Segretario generale del Partito comunista cinese (Pcc) si notano nel corso di un decennio due variazioni sostanziali: da un lato, è emerso un orgoglioso senso di ritrovata centralità della Cina nel sistema internazionale; dall’altro, una chiara consapevolezza della complessità delle sfide che anche i grandi paesi devono fronteggiare.

Si nota innanzitutto un mutato atteggiamento rispetto alla fisionomia e alle dinamiche di trasformazione dell’ordine internazionale: ritenuto nel 2002 “ingiusto e irrazionale, bisognoso di cambiamenti radicali”, nel 2011 esso viene giudicato più equilibrato nei propri assetti, caratterizzato da una sempre maggiore globalizzazione dell’economia e dall’affermarsi dei paesi emergenti. Si tratta di un’evoluzione in linea con l’auspicata transizione verso un sistema multipolare, che consente alla Rpc una maggiore libertà d’azione. Sono infatti venuti meno i vincoli imposti prima dalla Guerra fredda, poi dal “momento unipolare” statunitense, e infine dai negoziati per l’accesso alle principali organizzazioni internazionali (culminati con l’ammissione all’Organizzazione mondiale del commercio nel 2001).

Nell’attuale fase di indebolimento dell’Occidente le autorità cinesi intravedono uno spazio per una revisione della dottrina di politica estera prudente e attendista coniata da Deng Xiaoping e che si riassume nella linea guida:“si prenda tempo mantenendo un basso profilo, pur senza mancare di fare qualcosa” (taoguang yanghui, yousuo zuowei, 韬光 养晦,有所作为). Nella nuova formulazione utilizzata da Hu Jintao in occasione dell’undicesima Conferenza degli ambasciatori svoltasi a Pechino nel 2009 sono stati aggiunti quattro caratteri agli otto che componevano la frase originaria, ponendo una maggiore enfasi sulla seconda parte, pur nel solco di una tradizione che sin dagli anni ’80 ha preso le distanze dall’avventurismo (principalmente retorico) dell’epoca maoista: “si perseveri nel prendere tempo mantenendo un basso profilo, pur senza mancare di agire in modo proattivo per fare qualcosa” – jianchi taoguang yanghui, jiji yousuo zuowei, 坚持韬光养晦,积极有所作为). Poiché l’evoluzione del lessico politico in Cina non è mai casuale, ci si può attendere che – dopo un primo biennio di assestamento e in assenza di gravi crisi – la nuova leadership cerchi di rendere il ruolo internazionale della Rpc più congruente con il suo peso economico.

Questa tendenza si è fatta più percepibile a partire dal 2009, quando, in concomitanza con il sorprendente recupero dell’economia cinese dopo la crisi finanziaria globale, varie azioni compiute da Pechino hanno generato una diffusa apprensione in Asia orientale: i forti vincoli imposti alla visita del presidente Usa Barack Obama (novembre 2009), l’atteggiamento poco costruttivo dei diplomatici cinesi alla Conferenza sul clima di Copenhagen (dicembre 2009), l’insolitamente dura presa di posizione contro la vendita di armamenti statunitensi a Taiwan (gennaio 2010), l’atteggiamento ambiguo sull’affondamento della corvetta sudcoreana Cheonan (marzo 2010), la reazione del Ministro degli Esteri cinese Yang Jiechi quando, durante l’ASEAN Regional Forum di Hanoi (luglio 2010), è stato menzionato il contenzioso sul Mar della Cina Meridionale, l’escalation – per la prima volta con ricadute dirette anche in ambito commerciale – di un incidente con il Giappone al largo dell’arcipelago conteso delle Diaoyu/Senkaku (settembre 2010, con una riedizione, in queste settimane, esattamente due anni dopo), le forti pressioni contro la partecipazione alla consegna del premio Nobel per la pace in absentia al dissidente cinese Liu Xiaobo (ottobre 2010), e la mancata condanna dell’attacco dell’artiglieria nordcoreana all’isola sudcoreana di Yeonpyeong (novembre 2010).

Al repentino appannarsi del prestigio internazionale di Pechino – che molto aveva investito nel tentativo di accreditarsi come attore costruttivo nella propria regione – gli intellettuali più organici al Pcc hanno reagito cercando di conciliare gli interessi cinesi con gli equilibri di un ordine internazionale in via di rapido mutamento. È stato ancora una volta Zheng Bijian, già vicepresidente della Scuola centrale del Pcc e propugnatore del concetto di “ascesa pacifica”, a coniare la nuova sintesi, auspicando che la Rpc si impegni a promuovere “convergenze di interessi” che conducano allo stabilirsi di “comunità di interessi con vari interlocutori e a diversi livelli”. A ulteriore testimonianza dell’autoconsapevolezza maturata dai vertici del Partito-Stato cinese nell’ultimo decennio, questo approccio si differenzia chiaramente dall’atteggiamento apologetico proprio dell’idea di “ascesa pacifica” elaborata nel 2002. Non si tratta più di rassicurare il pubblico internazionale ma di prendere atto pragmaticamente che nelle attuali condizioni di forte interdipendenza esiste già un interesse convergente a realizzare le “comunità” di cui sopra: è interesse comune a Rpc, Stati Uniti ed Europa salvaguardare la stabilità dei propri partner. La proposta di Zheng, fatta propria dai vertici politico-diplomatici del paese, trova il proprio completamento nel recente “Libro bianco sullo sviluppo pacifico”, pubblicato nel settembre 2011. Vi sono illustrati gli interessi essenziali e non negoziabili (core interests) da cui Pechino ritiene dipenda la propria stabilità: sovranità statale, sicurezza nazionale, integrità territoriale e riunificazione nazionale, conservazione del sistema politico stabilito dalla costituzione cinese e della stabilità sociale complessiva, e, infine, tutela di uno sviluppo socioeconomico sostenibile.

L’ultimo punto nell’elenco richiama la complessità delle sfide che anche la Cina si troverà ad affrontare, al pari degli altri grandi paesi del mondo. Tanto le nuove minacce transnazionali – dal terrorismo ai fenomeni di privatizzazione della violenza, dalle nuove vulnerabilità della sicurezza umana alle problematiche ambientali –, quanto i tradizionali problemi di accesso a materie prime, investimenti e tecnologie richiederanno risposte creative da parte della nuova dirigenza di Pechino. L’intento fondamentale di impedire che altre nazioni possano limitare la libertà d’azione della Cina in campo internazionale dovrà essere reinterpretato sempre più sovente nei termini di un gioco a somma positiva, più che a somma zero, sostituendo alla dialettica vincitori-sconfitti il più complesso calcolo dei vantaggi relativi.

Published in:

  • Events & Training Programs

Copyright © 2024. Torino World Affairs Institute All rights reserved

  • Privacy Policy
  • Cookie Policy