De-industrializzazione e ritorno alla terra in Indonesia: racconti e paesaggi sonori raccolti in un podcast

Alla fine di questo mese usciranno i primi due episodi della serie “ShareLoc” (un progetto di podcast sulle trasformazioni socio-ambientali contemporanee) intitolati “Town and Village” e dedicati alla de-industrializzazione e al fenomeno del ritorno alla terra in Indonesia. Questi sono stati realizzati in collaborazione con Paolo Righi di Never Was Radio e si basano su una ricerca finanziata dal progetto europeo Competing Regional Integrations in Southeast Asia (CRISEA). In queste due occasioni ho dialogato con Raka e Galih, due indonesiani che hanno vissuto e lavorato a Batam, un importante centro industriale del Paese, e ho dato spazio al panorama sonoro che avvolge Raka e Galih.

Nel primo episodio andremo a Batam. Affacciata sul trafficato stretto di Malacca, Batam è infatti un’isola molto periferica rispetto al resto dell’arcipelago indonesiano, lontana più di due ore d’aereo dalla capitale Giacarta, e dalla popolosa isola di Giava, ma a soli venti minuti di traghetto da Singapore e da Johor Bahru, nella vicina Malaysia. A Batam, è stata proprio la posizione geografica ad aver innescato una serie di trasformazioni sociali ed economiche. Occupando un punto così strategico lungo la rotta commerciale che dall’Asia Orientale si estende verso i Paesi del Golfo e, infine, l’Europa, Batam e le vicine isole Riau sono state designate dal governo indonesiano, già a partire dal 1973, come zone a sviluppo industriale. L’idea che ha guidato le scelte dei burocrati indonesiani – l’Indonesia all’epoca era una dittatura guidata dal generale Suharto e allineata con l’Occidente – è stata quella di creare un avamposto industriale per l’Indonesia, un centro di eccellenza capace di competere con Singapore e la Malaysia. Dai primi anni Settanta ad oggi, passate molte stagioni politiche e diversi governi, Batam e le isole Riau hanno più volte cambiato veste giuridica e indirizzo d’uso: porto franco per gli idrocarburi e le merci, centro di eccellenza per la ricerca industriale, centro produttivo a basso costo a diretto investimento straniero, vertice del triangolo per lo sviluppo economico tra l’Indonesia, la Malaysia e Singapore e, infine, zona economica speciale.

Il momento in cui Batam si è maggiormente trasformata sono stati gli anni a cavallo dei Novanta e il primo decennio dei Duemila, corrispondenti al periodo della caduta della dittatura in Indonesia, vale a dire un momento di grande fermento sociale e di imponenti investimenti globali nel Paese. In quegli anni, il governo è riuscito a indurre molti industriali, in gran parte singaporeani e giapponesi, in alcuni casi europei, a spostare le proprie fabbriche del settore dell’industria elettronica e i propri cantieri navali a Batam, garantendo un pacchetto completo di benefici: infrastrutture, forza lavoro a basso costo grazie alla migrazione interna da altre zone dell’Indonesia, agevolazioni fiscali e semplificazione amministrativa. Proprio in quegli anni Batam diventa una città industriale da oltre un milione di abitanti e una delle “fabbriche del mondo”, di scala minore ma simile per natura alla regione amministrativa speciale di Hong Kong, al punto che molti prodotti, esportati in tutto il mondo, tra cui fax, stampanti, microprocessori e persino grandi navi erano “Made in Batam”. Batam, in quanto nascente centro urbano in rapida espansione, era anche completata da una serie di servizi accessori: un articolato sistema abitativo, dormitori a lato delle fabbriche, appartamenti in affitto, alloggi di fortuna, villette vendute per mezzo di mutui (rivolte alle migliaia di operai e agli eventuali parenti che ad essi si ricongiungevano) e una redditizia industria del divertimento, che comprendeva discoteche e bordelli rivolti primariamente ai turisti singaporeani.

Nell’ultimo decennio, tuttavia, il sistema industriale, urbano e sociale di Batam si è progressivamente sfaldato. Oggi Batam è un polo industriale dismesso e, sotto certi aspetti, fallimentare. A causare una profonda e irrimediabile crisi è stato un insieme di fattori. Per prima cosa, gli industriali hanno investito troppo poco o troppo in ritardo per ammodernare le loro linee produttive, che spesso oggi hanno ancora una tecnologia risalente ai primi anni Novanta. Secondo aspetto, la concorrenza di altri centri industriali sussidiati dallo Stato, più moderni ed efficienti, come quelli in Viet Nam, si è fatta sempre più aggressiva. Terzo, nonostante gli sforzi, la burocrazia è via via diventata sempre più complessa anche a Batam. Con il declino della grande industria, anche la città è entrata in crisi nera e, a poco a poco, da Batam sono scomparse anche le discoteche perché, tra l’altro, con i voli a basso costo i singaporeani possono ormai scegliere mete più lontane.

Oggi Batam è un alternarsi desolante di fabbriche, cantieri navali e centri commerciali completamente abbandonati, un tempo frequentatissimi da frotte di operai e ora completamente silenziosi, e alcune fabbrichette ancora funzionanti qua e là, di qualche gruppo industriale internazionale che ha mantenuto a Batam una nicchia produttiva e tiene un po’ di operai a tempo indeterminato e assume, spesso in outsourcing, qualche centinaio di lavoratori a termine. E poi c’è una leggera ripresa del settore turistico e immobiliare, negli ultimi anni rivolto ai pensionati singaporeani, a cui Batam può offrire servizi di alto livello, lussuosi residence, campi da golf, assistenza medica, a una frazione del costo applicato a Singapore.

Nel secondo episodio del podcast ci sposteremo in campagna, in un villaggio a sud di Malang, a Giava orientale, sempre in Indonesia. È un villaggio ad alto grado di “villaggiosità”, molto tradizionale nei suoi elementi: ai piedi di un alto vulcano, risaie, canali irrigui, lussureggianti campi di tabacco, aranceti, piccole case raggruppate intorno a un cortile comune, qua e là le cupolette delle moschee, gente, contadini soprattutto, che si sposta a piedi e in motorino fin dalle prime luci dell’alba, alcuni trattori ma poche macchine agricole complesse, nessuna piantagione molto estesa. Il villaggio è anche un luogo in cui il lavoro finisce in genere al tramonto e le persone vanno a dormire relativamente presto; di sera e di notte non vola una mosca. Eppure, il villaggio è anche un ambiente articolato, iperconnesso e globale, per nulla arcaico e arretrato. Al villaggio, infatti, abitano i migranti di ritorno, donne e uomini che qualche decennio prima avevano lasciato il villaggio per partire a lavorare come operai, come colf, camerieri e muratori, in Malaysia, a Taiwan, in Giappone, in Corea del Sud, e a Batam, per l’appunto. Anche i giovanissimi, alcuni appena ventenni, sono in genere molto mobili: uno di loro, che ho ad esempio incontrato durante il mio soggiorno, era appena tornato dal Borneo indonesiano, dove guidava la draga in una grande opera di disboscamento. Un altro stava seguendo un corso di lingua coreana e aveva in programma di tentare di migrare in Corea. Un altro ancora, aveva lavorato per un paio d’anni in Giappone, e terminato il contratto era rientrato al villaggio, dove ha aperto un bar di ramen. Il villaggio non è solo connesso al resto del mondo attraverso le rotte migratorie a lunga distanza. È anche comunicante con le città limitrofe di Malang, un centro urbano medio, e con quella di Surabaya, una grande città portuale e industriale di oltre tre milioni di abitanti con un popolosissimo hinterland.

Giovani e meno giovani erano, in altre parole, molto cosmopoliti, avevano esperienza di altre zone del mondo direttamente o attraverso i racconti di altri, e conoscevano perfettamente le opportunità di lavoro nella cosiddetta New Economy: i social media per pubblicizzare e vendere i propri prodotti, le app di mobilità per le quali diventare rider freelance. Erano infine coscienti dei rischi del lavoro a cottimo, del tracollo dell’industria in Indonesia e della crisi ambientale planetaria.

Nei due episodi del podcast, sono centrali le due storie emblematiche di Raka e di Galih.

Partiamo da Raka. Da un lato, Raka è stato un operaio modello. Arrivato a Batam alla fine degli anni Novanta un po’ per gioco, Raka non era molto convinto che ce l’avrebbe fatta a lavorare come un disciplinato operaio e, non a caso, aveva già in mente di fare il taxista. In realtà, dapprima con brevi contratti di alcuni anni ogni volta rinnovati e poi con solidi contratti permanenti, Raka è entrato a poco a poco nel giro del lavoro in fabbrica, riuscendo successivamente anche a fare una buona carriera, da operaio semplice a responsabile di reparto produttivo, sempre in aziende a capitale singaporeano che producevano circuiti elettronici per apparecchi di largo consumo. Ha messo su famiglia insieme ad una operaia conosciuta in fabbrica e, grazie al suo buono stipendio, ha ottenuto un mutuo per l’acquisto di una casa. Dall’altro lato, Raka si è fatto un nome a Batam come attivista sindacale. È stato il responsabile della creazione di una delle prime rappresentanze interne alla fabbrica a Batam e, in quanto responsabile sindacale, ha guidato decine di azioni, spesso anche molto violente, come quella del 2011 in cui gli attivisti hanno dato alle fiamme un’auto della polizia. Erano gli anni in cui nei maggiori centri industriali del Paese, come Bekasi e Tangerang, vicino a Giacarta, e appunto Batam, la lotta sindacale si è infiammata. I sindacati, che in Indonesia fino alla caduta della dittatura nel 1998 erano di fatto assenti, nel primo decennio del secolo, in parallelo con il processo di democratizzazione del Paese, hanno vissuto una stagione di grande fermento. In base alle nuove leggi, i sindacati avevano finalmente un posto al tavolo in cui gli industriali e i politici designavano le politiche industriali e le loro negoziazioni portavano quasi sempre all’aumento del salario minimo o all’estensione dei diritti dei propri associati. A ogni successo ancora più operai si iscrivevano ai sindacati e a Batam percentuali altissime di lavoratori, in alcune aziende fino all’80%, erano sindacalizzate. Con il passare degli anni e di pari passo con il declino industriale e la promulgazione di leggi che limitano la possibilità di negoziare il salario minimo, per i pochi operai contrattualizzati rimasti in Indonesia non ha più molto senso stare dentro a un sindacato. Raka ha così vissuto la nascita, il boom e lo sfaldamento del sistema industriale e sindacale a Batam. All’inizio, la storia di Raka ha seguito, grosso modo, il sogno proletario e si è arricchita man mano di nuovi significati forniti dall’ideologia del sindacato. Quello di Raka è stato un percorso di continuo miglioramento in una città dallo sviluppo apparentemente inarrestabile: prima il contratto di due anni e la vita in dormitorio, poi la promozione a operaio permanente, seguito dal matrimonio, il mutuo per la casa di proprietà, la nascita dei figli. Tuttavia, Raka a un certo punto si impantana perché il modello di Batam ha smesso di funzionare. Nel podcast emerge chiaramente come Raka, ormai cinquantenne e con vent’anni di lavoro in fabbrica alle spalle, tenterà di ricostruirsi una vita lontano dalla città e in un mondo del lavoro trasformato, con molte meno garanzie, ma ironicamente di nuovo strettamente legato ai trend del capitalismo globale.

Invece, Galih appartiene ad un’altra generazione rispetto a quella di Raka. Egli ha ventisei anni, ha fatto le superiori a Batam perché i suoi zii erano operai sull’isola, per un po’ ha lavorato in città ma non si è mai molto adattato ai ritmi e alle regole della vita industriale e urbana. Quando era a Batam, non vedeva l’ora di tornare in campagna e tutto quello che lo circondava in fabbrica gli pareva ingiusto, brutale e con troppe regole. Sotto molti aspetti, anche se Galih non frequentava molto assiduamente il sindacato, è ancora più ribelle di Raka. Con una formazione tecnica da meccanico, Raka è appassionato di moto vintage restaurate ed è un tifoso sfegatato dell’Arema, la squadra di calcio di Malang. Si interessa poi di agricoltura biologica, è affascinato dalla coltivazione del caffè per mezzo di piccole cooperative agricole e prende molto a cuore il problema del cambiamento climatico e dell’accumularsi di rifiuti nei villaggi e nelle terre coltivate. In altre parole, Galih è nato in campagna, ha vissuto un periodo della sua vita in città a Batam, ma vuole ostinatamente tornare alla terra. Una scelta, quest’ultima, un po’ controcorrente nell’Indonesia contemporanea. Per ragioni anagrafiche, Galih è nativo di un sistema lavorativo precarizzato, in cui la città e la campagna assumono significati nuovi e sono parti integranti di un unico ambiente. La sua è una voce fuori dal coro, di qualcuno che intenzionalmente rinuncia alla modernità della città. Ma è anche la voce di un abitante di una zona rurale che vuole trasformare la campagna, rendendola più moderna, rispettata e profittevole per chi ci lavora.


I primi due episodi della serie “ShareLoc” saranno disponibili, a partire dalla fine di novembre, sul sito di NeverWarRadio.It


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