I Brics e la crisi dell’euro

A ben guardare, la nascita e l’affermazione politica su scala internazionale dell’acronimo Brics rappresentano un segno del dominio della finanza globale. La storia è conosciuta. Nel 2001, un banchiere di Goldman Sachs conia il termine Brics per segnalare ai propri clienti quattro grandi paesi emergenti che presentano le migliori opportunità di investimento del XXI secolo, in quanto registrano una crescita continua e promettente: Brasile, Russia, India e Cina. A partire dal 2006, i ministri degli affari esteri di questi paesi si riuniscono periodicamente, e dal 2009 i quattro stati tengono un vertice annuale a livello di capi di stato e di governo. Nel 2010 si aggiunge al gruppo il Sudafrica, ulteriore prova per molti della “fine della supremazia dell’Occidente”. Un gruppo “inventato” da una banca d’affari acquista così rilevanza politica e comincia ad esercitare pressioni per attuare riforme della governance mondiale che diano più voce ai grandi paesi emergenti.

Mentre l’Europa si dibatte nella più profonda crisi finanziaria dagli anni Trenta del secolo scorso, diventa naturale, perciò, guardare a questi paesi come ad un’ancora di salvataggio. Ma una volta di più la crisi mette in luce la fragilità dei Brics come blocco politico, e la predominanza della Cina come unico membro del gruppo in grado di condizionare la politica globale. Non a caso, dopo che il Consiglio europeo del 26 ottobre scorso ha deciso di portare a più di 1.000 miliardi di euro la dotazione del Fondo europeo di stabilità finanziaria (Fesf, il c.d. “fondo salva-stati”), il direttore del fondo Klaus Regling è volato a Pechino per illustrare il piano alle autorità cinesi, che secondo il Sunday Times avrebbero presentato a metà ottobre un “piano segreto” per acquistare debito sovrano degli stati euro in cambio di accesso alle infrastrutture e alla garanzia di rigose politiche economiche e fiscali nazionali. Mentre Regling rivelava che il 40% dei bond Fesf è in mano a investitori asiatici (senza comunicare le cifre riguardanti la Cina), Pechino chiedeva di conoscere più dettagli, prima di assumersi la responsabilità di intervenire con denaro pubblico a salvare l’Europa. Il governo cinese attende anche di conoscere quali contributi gli altri paesi extra-europei possano apportare, e non si espone con impegni precisi.

Al riguardo Arkady Dvorkovich, consigliere economico del presidente russo Dimitri Medvedev, ha detto alla Reuters di avere una posizione coordinata con gli altri paesi Bric e che la Russia è “pronta a partecipare ai meccanismi di stabilizzazione, soprattutto attraverso il Fondo monetario internazionale (Fmi)”. Se però osserviamo i singoli comportamenti, appare evidente come il coordinamento non sia così scontato: lo stesso Dvorkovich omette la “S” di Sudafrica; la forza finanziaria internazionale dell’India in questa crisi è trascurabile; infine, il primo ministro russo Vladimir Putin, durante il suo recente viaggio in Cina, ha dichiarato che spetta all’Europa risolvere la crisi e che il continente non ha bisogno dell’aiuto dei Brics, accusando contemporaneamente gli Stati Uniti di essere dei parassiti con il loro monopolio del dollaro. Rimangono quindi le posizioni di Cina e Brasile, che concordano sulla possibilità di intervenire ma divergono sulle modalità dell’investimento. Mentre un consigliere del governo cinese, citato dal Financial Times, avrebbe affermato che sarebbe più efficace intervenire direttamente nel Fesf, Guido Mantega, il ministro delle finanze brasiliano, ha affermato che l’assistenza finanziaria dovrebbe essere mediata dal Fmi. In tal modo, il controllo sul prestito sarebbe esercitato dal board del Fondo, e non da un singolo stato. Di segno diametralmente opposto, ovviamente, appare la posizione cinese. La posizione brasiliana è comprensibile, e riflette la relativa debolezza del paese rispetto alla Cina: le riserve in valuta estera di quest’ultima ammontano a più di 3.200 miliardi dollari, mentre quelle brasiliane a “solo” 344 miliardi; la Cina ha un patrimonio netto di 1.800 miliardi di dollari, mentre il Brasile registra passività estere (pubbliche e private) per 700 miliardi; il Pil 2009 (a prezzi 2005) è di 3.425 miliardi di dollari per la Cina, e di 1.017 miliardi di dollari per il Brasile. Le due economie si trovano oggi in una situazione economica strutturale opposta: nel 2010, il 61% del Pil brasiliano era da ascrivere ai consumi, e il 19% agli investimenti, mentre per la Cina i dati erano del 34% e del 50% rispettivamente; mentre la popolazione brasiliana è giovane, quella cinese sta invecchiando; il Brasile esporta materie prime, la Cina voracemente le consuma. Le complementarietà tra le due economie sono tali che Arminio Fraga, un ex-governatore della banca centrale portoghese citato da The Economist, ha dichiarato che “forse [i due paesi] dovrebbero fondersi”. Infine, mentre la Cina può permettersi di ipotizzare un acquisto dei bond del Fesf nella moneta nazionale, il renminbi, anche in vista del suo ruolo prossimo venturo come moneta di riserva internazionale, per il Brasile tale opzione non è percorribile, in quanto il real, pur rafforzandosi, non potrà diventare una moneta di riferimento.

Come si evince dal comunicato finale dell’incontro di Washington del 23 settembre dei ministri delle Finanze dei Brics, al di là della condivisione generica dell’apprensione per lo stato dell’economia mondiale e della consapevolezza di dovere ciascuno svolgere il proprio ruolo per assicurare la stabilità e la crescita, l’unico concreto obiettivo comune dei Brics è di vedere compiutamente attuata la riforma del Fmi che attribuisce loro un maggiore peso nella struttura decisionale dell’organismo finanziario. Al di là di questo, e con buona pace di Goldman Sachs, essere dei mercati promettenti non necessariamente significa acquisire lo status di potenze finanziarie emergenti. Con altrettanta buona pace dei cantori dell’ascesa del “resto del mondo”, avere “più voce” non equivale ad avere una strategia comune per la governance globale. In questo senso, non sono davvero i Brics a potere salvare l’euro.

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