L’avanzata delle truppe russe in Ucraina ha subito una battuta d’arresto e anche se non è ancora possibile determinare le sorti della guerra, è evidente che le aspettative di una vittoria lampo sono rimaste disattese. La cosiddetta “operazione militare speciale” voluta da Putin ha un costo altissimo in termini umani, economici e militari, anche per Mosca. Proprio questi ingenti costi, ai quali si aggiunge il peso delle sanzioni economiche, portano a riflettere su quali saranno in futuro le capacità del Cremlino di proiettare i propri interessi su scala globale. A partire dal 2014, infatti, la sfera di influenza russa si è estesa in modo significativo, in particolare in Medio Oriente e in Africa: Siria, Libia, Repubblica Centro Africana, Sudan, Somalia, Ciad, Mozambico e da ultimo il Mali sono solo alcuni dei contesti nei quali Mosca ha investito le sue risorse. La Federazione Russa sarà quindi ancora in grado di mantenere la propria presenza in questi paesi a seguito dell’invasione dell’Ucraina?
L’annessione della Crimea nel 2014 ha avuto come effetto quello di accendere i riflettori sulla strategia russa della cosiddetta “guerra ibrida” associata al nome dell’attuale Capo di Stato Maggiore russo Valery Gerasimov. In un articolo pubblicato nel 2013 questi sottolineava come le guerre interstatali non si dichiarino più e trascendano dalla netta divisone fra guerra e pace, costituendo una sorta di continuum fra due poli nei quali si fondono elementi di soft e hard power che si esplicano in diversi ambiti, dall’informazione all’economia, dalla sfera militare a quella politica. In realtà quello di Gerasimov era più probabilmente un tentativo di attualizzare la dottrina formulata da Yevgeny Primakov che ha guidato la politica estera e di difesa russa negli ultimi due decenni. Quest’ultimo riteneva che un mondo unipolare a guida statunitense fosse inaccettabile per la Russia e che al contrario il Cremlino dovesse operare per un multipolarismo più inclusivo, di concerto con attori quali Cina e India. Da questa visione del mondo discende quindi un’ottica di contenimento del potere degli Stati Uniti, non in una dinamica di scontro diretto, bensì tramite un’erosione graduale dell’ordine internazionale che permetta alla Russia e ad altri potenze regionali di affermarsi come interlocutori indispensabili nel decidere le sorti della comunità internazionale. Coerentemente con questa visione, negli scorsi vent’anni il Cremlino ha tentato di espandere la propria sfera di influenza, ponendosi come un attore centrale nei conflitti in Siria e Libia e consolidando la propria presenza sia nello spazio post-sovietico sia in Africa sub-sahariana. L’implementazione della dottrina Primakov poi ripresa da Gerasimov aveva però seguito sino a oggi una logica di rischio calcolato, volta a massimizzare i benefici e ridurre al minimo il rischio di un’escalation o di un impegno prolungato.
L’intervento in Siria nel 2015 si colloca pienamente in questa tradizione: Mosca riesce infatti a puntellare il fragile governo di Assad e a evitare il rischio il cambio di regime auspicato dagli Stati Uniti, imponendosi contestualmente come un attore di prima importanza in Medio Oriente. Anche in questo caso si tratta di un rischio calcolato, poiché pur avendo mobilitato 6.000 uomini al massimo sforzo, lo spiegamento di truppe sul campo è rimasto piuttosto limitato. Forte della propria superiorità aerea e del disinteresse dell’amministrazione Obama, il Cremlino si è appoggiato per le operazioni di combattimento principalmente a milizie locali e operatori privi di uniformi, presentati come privati (o contractor), riducendo così il rischio di perdite umane e minimizzando la possibilità di un danno d’immagine. L’utilizzo di contractor, o pseudo-contractor come nel caso del famigerato gruppo Wagner (ad esempio in Siria e in Libia) è infatti un elemento caratteristico delle operazioni ibride teorizzate nella dottrina Primakov-Gerasimov. I soggetti russi che si presentano come aziende private di sicurezza assumono compiti piuttosto eterogenei (da funzioni di propaganda a operazioni militari passando per la raccolta di intelligence), riuscendo a proiettare gli interessi strategici ed economici di Mosca senza essere direttamente riconducibili alla Federazione Russa che può quindi avvalersi della cosiddetta plausible deniability. Tali soggetti, a oggi operano in più di 16 stati africani, secondo un modus operandi standard, offrendo veri e propri servizi di stabilizzazione a paesi che presentano una governance del territorio parziale o indebolita, e agendo come moltiplicatori della forza in favore del governo locale. In cambio, Mosca riceve lucrativi contratti di sfruttamento delle risorse naturali locali, in maniera diretta o indiretta, e può accrescere la propria influenza, al punto da essere poi in grado di presentarsi come attore ineludibile nelle trattative sulle sorti del paese (come nel caso della Libia) ostacolando la proiezione degli interessi dei suoi rivali storici quali gli Stati Uniti e gli altri partner atlantici.
Sino al 24 febbraio, quindi, le operazioni militari russe si caratterizzavano per il loro basso profilo, garantito in primo luogo dall’impiego di attori formalmente privati sebbene indirettamente collegati alle varie agenzie di sicurezza russe che ha permesso a Mosca di pagare un costo politico inferiore sia a livello internazionale (grazie alla plausible deniability) che a livello nazionale (in virtù del minor impatto delle perdite umane presso l’opinione pubblica russa). Un altro elemento peculiare delle operazioni ibride russe è stato quello di sfruttare momenti di “fragilità” dello stato target quali elezioni (come nei casi della Repubblica Centrafricana o del Madagascar), colpi di stato (Mali), insurrezioni (Mozambico) o guerre civili (Libia). Queste “finestre di vulnerabilità” hanno permesso agli operatori russi di proporre i propri servizi nel momento del bisogno, estendendo indirettamente l’influenza di Mosca e ottenendo in cambio diritti per lo sfruttamento di risorse naturali. A differenza delle controparti occidentali, gli pseudo-contractor russi hanno privilegiato i ruoli di combattimento diretto ai compiti di addestramento delle forze locali. Si tratta generalmente di un numero ridotto di uomini, il cui operato sovente ricalca quello delle forze speciali. L’impiego della forza è quindi mirato e soverchiante, volto a sconfiggere militarmente un nemico spesso disorganizzato e mal equipaggiato. Le operazioni ibride russe si sono contraddistinte anche per il ricorso a campagne di disinformazione e propaganda, con l’obiettivo di supportare il governo cliente e di amplificare la risonanza delle operazioni militari. Ad esempio, in concomitanza con l’arrivo del gruppo Wagner in Repubblica Centrafricana e in Mali, sui social media è dilagata una campagna anti-francese e pro-russa con l’obiettivo di screditare l’operato della Francia nello stesso contesto.
Le operazioni ibride russe hanno quindi tradizionalmente evitato lo scontro diretto con forze regolari, caratterizzandosi invece per l’utilizzo di un numero ridotto di uomini, altamente addestrati, cui si contrapponevano gruppi insorti e attori non-statali. L’invasione dell’Ucraina da parte di forze regolari – che ha ben poco di asimmetrico e nulla di ibrido – comporta quindi per Mosca non solo una rinuncia alla plausible deniability, ma anche un significativo aumento dei costi economici e politici che la Federazione Russa dovrà sostenere.
Secondo una stima fornita dal Center for Strategic and International Studies (CSIS), uno tra più importanti e rinomati think tank statunitensi, a un mese esatto dello scoppio della guerra la Russia avrebbe perso 7-15.000 uomini mentre il numero di feriti si aggira intorno al doppio. Su un totale di circa 190.000 truppe mobilitate all’inizio dell’operazione (incluse le milizie che erano già attive nel Donbass), le perdite ammonterebbero quindi a quasi un quarto del totale. Sulla carta, Mosca può contare su circa 900.000 militari in servizio attivo. Tuttavia, sempre secondo le stime del CSIS, il personale effettivamente impiegabile non sarebbe più del 20% di questo totale. La Russia non sembra quindi in grado di rimpiazzare rapidamente le perdite umane subite tanto che starebbe già richiamando veterani, coscritti, riservisti e perfino milizie provenienti dal Medio Oriente per rimpinguare le fila del proprio esercito. Uno dei primi effetti della guerra in Ucraina sulla capacità di proiezione militare russa pare essere quello di generare una carenza di personale esperto. Inoltre, le deficienze dimostrate nella condotta delle operazioni (prese in esame negli aspetti sistemici e logistici in altri due articoli di questo numero di Human Security) rischiano di arrecare un significativo danno di immagine sia all’industria bellica sia alla reputazione delle forze armate russe a livello globale. Sul versante economico, infine, ai costi “vivi” della guerra, stimati nell’ordine delle decine di milioni di dollari al giorno, si aggiungono poi quelli delle sanzioni. Queste ultime, oltre a incrinare la tenuta dell’economia russa, compromettono anche l’accessibilità ai mercati internazionali da parte delle imprese russe che esportano materie prime, riducendone quindi gli incentivi a operare all’estero. Se per esempio la Russia non riuscisse a vendere sui mercati internazionali l’oro e i diamanti che estrae in Repubblica Centrafricana, verrebbe conseguentemente meno una delle ragioni principali che hanno motivato il suo ingresso nel paese nel 2017. In sostanza il punto di forza del modello ibrido russo risiedeva proprio nella capacità di avanzare i propri interessi politici ed economici senza suscitare risposte avverse tali da compromettere la redditività di queste operazioni: si tratta di un elemento gravemente compromesso dall’avvio della guerra in Ucraina.
È quindi probabile che i costi politici, economici e militari che la Russia si troverà ad affrontare in seguito all’attacco lanciato il 24 febbraio si ripercuotano sulla futura sostenibilità del suo modello di azione globale così come teorizzato nella dottrina Primakov-Gerasimov e incarnato dalle attività del gruppo Wagner. La carenza di personale qualificato rischia di avere delle importanti ricadute sulle aziende di sicurezza “private” che sono solite reclutare il proprio personale fra i veterani delle forze armate russe. La qualità dei servizi offerti da queste aziende può risentire della carenza di personale esperto, compromettendone l’efficacia sul campo. Questo potrebbe rivelarsi fatale in contesti complessi come quello del Sahel dove un numero ridotto di uomini si trova impegnato a garantire la sicurezza di un’area vasta, caratterizzata anche da condizioni ambientali difficili. E se finora buona parte dei paesi africani ha preferito importare armamenti russi rispetto a quelli cinesi, poiché ritenuti più affidabili e rodati, anche questo stato di fatto potrebbe cambiare a seguito dell’invasione dell’Ucraina. L’incapacità di risolvere rapidamente la guerra rischia infatti di ripercuotersi anche sulle vendite di armamenti. Nel teatro libico, ad esempio, Haftar sino ad ora ha fatto largamente uso degli armamenti fornitigli dalla Russia, ma la visione degli insuccessi del Cremlino in Ucraina potrebbe dissuaderlo dal procedere ulteriormente negli accordi con Mosca.
In generale la capacità e la credibilità dell’industria militare russa sono state fortemente indebolite dagli eventi in Ucraina, e questo potrebbe avere un forte impatto sull’attrattività dei “pacchetti sicurezza” offerti dal Cremlino in maniera diretta o indiretta, restringendo la platea dei potenziali clienti. Restano però contesti in cui una contrazione significativa della presenza russa potrebbe avere esiti disastrosi. In particolare, in Siria e in Repubblica Centroafricana il supporto di Mosca è divenuto essenziale per la tenuta stessa delle istituzioni. Il regime di Assad infatti dipende militarmente da Mosca e buona parte dei giacimenti petroliferi sotto il suo controllo è attualmente sfruttato da compagnie russe. Il governo di Bangui si trova in una situazione analoga poiché anch’esso dipende militarmente ed economicamente da Mosca, al punto da aver nominato come consigliere per la sicurezza nazionale un ex agente dell’agenzia di intelligence militare russa (GRU), Valery Zakharov. Il ritiro di Mosca da simili contesti pare dunque improbabile dal momento che, dopo gli investimenti inziali, la Russia si trova ora ad affrontare dei costi di mantenimento minimi a fronte di un ritorno di investimento importante in termini economici e strategici. In conclusione, la guerra in Ucraina potrebbe costringere la Russia a ridimensionare le proprie ambizioni internazionali, contribuendo a circoscrivere la sua zona d’influenza rispetto a quanto verificatosi negli ultimi anni, ma difficilmente ciò sarà sinonimo di una completa ritirata al solo interno dei propri confini.
Per saperne di più
Rumer, E. (2019) The Primakov (not Gerasimov) doctrine in action (Vol. 5, No. 06). Carnegie Endowment for International Peace.
Charap, S., Geist, E., Frederick, B., Drennan, J.J., Chandler, N. & Kavanagh, J. (2021). Russia’s military interventions: Patterns, drivers, and signposts. RAND.
Jones, S.G., Doxsee, C., Katz, B., McQueen, E., & Moye, J. (2021) Russia’s corporate soldiers: The global expansion of Russia’s private military companies. CSIS Report.
Ruzza, S. (2022) L’orso affamato: i deficit della logistica militare russa. Human Security 17. T.wai – Torino World Affairs Institute.
Senior Security Analyst (2022) Le ragioni del fallimento della guerra lampo di Putin. Human Security 17. T.wai – Torino World Affairs Institute.
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