Nel solco di Fukuda: le relazioni del Giappone con il Sud-Est asiatico tra gli anni Ottanta e Novanta

Introduzione

L’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico (ASEAN) rientra nell’elenco degli attori regionali con cui il Giappone condivide – assieme a Stati Uniti, Unione Europea, India e Australia – i valori fondamentali su cui si regge la strategia dell’Indo-Pacifico “libero” e “aperto”. Situata nel cuore della grande area che si estende dal subcontinente indiano all’Asia nord-orientale, l’ASEAN rappresenta, infatti, per il Giappone “l’elemento chiave della realizzazione della strategia giapponese per l’Indo-Pacifico[1]”. Il Premier Kishida Fumio, in un discorso tenuto nel maggio scorso in occasione della XXVII Conferenza internazionale sul “futuro dell’Asia”, non solo ha elogiato i principi di “unità” e “centralità” dei quali l’Associazione si è fatta promotrice negli ultimi due decenni, bensì ha affermato come il Giappone possa ancora contare sul suo storico “heart-to-heart partner” per costruire un nuovo concetto di cooperazione nella regione[2].

Le parole di Kishida richiamano alla mente il discorso dell’allora Primo ministro Fukuda Takeo (1976-78) che, il 18 agosto 1977, annunciò a Manila i principi della diplomazia “cuore a cuore” (kokoro to kokoro, in giapponese) verso l’ASEAN. Questa memorabile iniziativa politica, che Sumio Edamura annovera come esempio di “diplomazia con una visione[3]”, il Giappone smetteva di essere un pericolo con ambizioni espansioniste e militariste in Asia Orientale[4] e, da quel momento, iniziò a vestire i panni dell’attore responsabile che intendeva favorire la cooperazione economica e culturale nella regione. La “dottrina Fukuda” ricopre un ruolo cruciale per la diplomazia giapponese della Guerra fredda non solo perché il Giappone riconobbe l’ASEAN come essenziale baluardo dell’anticomunismo e partner politico imprescindibile al pari dei suoi storici alleati, ma anche perché impegnò il governo di Tokyo a costruire una cooperazione mutuamente vantaggiosa che fosse in grado di garantire ai Paesi membri dell’Associazione nuovi aiuti economici e la realizzazione di diversi programmi di carattere scientifico e culturale.

Questo articolo intende inquadrare le tappe principali delle relazioni tra il Giappone e l’ASEAN tra gli inizi degli anni Ottanta e la fine degli anni Novanta. In particolare, la prima parte è dedicata alle iniziative portate avanti da governi guidati da Nakasone Yasuhiro e Takeshita Noburu (1982-89). La seconda parte si soffermerà sull’azione diplomatica posta in essere tra il 1989 e il 1996, prendendo in esame solo i tre governi liberaldemocratici che, all’epoca, apportarono un contributo determinante alle relazioni con l’ASEAN. Il terzo paragrafo, infine, si occupa della risposta giapponese alla crisi finanziaria di metà anni Novanta e dell’introduzione della “sicurezza umana” come pilastro della politica estera giapponese (1996-99).

Un variegato sistema di cooperazione

A partire dalla “dottrina Fukuda”, il Giappone tracciò uno schema di cooperazione bilaterale con il Sud-Est asiatico impostato su tre piani: politico, economico e culturale. La prima forma di sostegno economico che il Giappone riservò ai Paesi della regione – indipendentemente dall’adesione di ciascuno all’ASEAN – consisteva nei programmi bilaterali di assistenza allo sviluppo (Official Development Assistance, ODA). L’ODA, la cui regia fu affidata alle mani dell’Agenzia giapponese per la cooperazione internazionale (Japan International Co-operation Agency, JICA), fece il suo esordio alla metà degli anni Cinquanta, allorché fu concepita come principale forma di risarcimento dei danni di guerra subiti dai Paesi invasi dalle forze dell’Esercito imperiale giapponese tra il 1931 e il 1945. Proseguendo in continuità con una tendenza che risaliva alla fine del decennio precedente, quando il Giappone ottenne lo status di economia sviluppata, negli anni Ottanta il governo decise di apportare alcuni cambiamenti strutturali al processo di gestione e concessione degli aiuti allo sviluppo ai Paesi del Sud-Est asiatico, con l’ambizioso intento di far progredire le relazioni con l’area[5]. In effetti il volume degli aiuti diretti nel Sud-Est asiatico e nel resto dell’Asia crebbe in maniera esponenziale almeno fino agli Novanta, tant’è che quel periodo di significativo sviluppo dell’ODA è spesso ricordato con il nome di “espansione pianificata[6]”.

Tuttavia, l’assistenza allo sviluppo delle economie del Sud-Est asiatico rappresentava solo una parte – per quanto ragguardevole – di una strategia economica di vasto respiro. Durante la sua lunga – per i canoni giapponesi – esperienza di governo, Nakasone Yasuhiro (1982-87) si recò otto volte in visita nel Sud-Est asiatico, sempre accompagnato da una delegazione di imprenditori. Degno di nota fu, in particolare, il lungo viaggio avvenuto tra l’aprile e il maggio 1983 in diversi Paesi dell’ASEAN: in questa occasione, Nakasone ribadì che il Giappone era impegnato a ricostruire la fiducia nelle relazioni bilaterali e, rispetto al suo predecessore, mise in campo tre soluzioni concrete per far fronte ad altrettanti questioni che allora complicavano la cooperazione bilaterale. Anzitutto, Nakasone diede garanzie sulla revisione, entro il 1984, dello schema tariffario preferenziale riguardante le importazioni di una specifica varietà di beni provenienti dal Sud-Est asiatico, considerato troppo discriminatorio. In quel periodo, la bilancia commerciale giapponese verso i Paesi ASEAN era in deficit e ciò giustificava, agli occhi dei giapponesi, la decisione di imporre delle barriere in entrata a una tipologia di prodotti. Il Premier, inoltre, annunciò la volontà di ripristinare il programma giapponese di investimenti per la costruzione di nuovi impianti industriali nella regione; infine, fu rilanciata la cooperazione scientifica e culturale che avrebbe dovuto rimettere in moto i programmi di scambio tra i giovani giapponesi e quelli dell’Asia sud-orientale. In questa cornice, egli promosse il “Programma di amicizia del XXI secolo”, un progetto che avrebbe consentito alle giovani studentesse e ai giovani studenti dei Paesi ASEAN di sperimentare, attraverso programmi di scambio in Giappone, lo stile di vita e il modello di istruzione giapponese. La medesima opportunità formativa fu garantita anche ai giovani giapponesi, che entrarono così in contatto con altre esperienze culturali in Asia.

Takeshita Noburu (1987-89) non modificò né stravolse la strategia di graduale collaborazione attuata dal suo predecessore. Piuttosto, il nuovo leader del Partito liberal-democratico (PLD) proseguì lungo il percorso scandito dalla retorica di una comune appartenenza a una grande comunità asiatica, che condivideva i medesimi valori, e da cordiali rapporti di vicinato. Nei discorsi tenuti tra il 1987 e il 1989, Takeshita fece largo ricorso a parole come “pace”, “prosperità” e sicurezza[7]” e fu proprio sulla base di queste premesse che il Primo ministro sviluppò una “diplomazia di pace[8]”, volta a risolvere le principali controversie nel Sud-Est asiatico, e in particolare la questione cambogiana. Tokyo, di fatto, si incaricava di assicurare e di difendere la stabilità del Sud-Est asiatico. Nondimeno, tale aspirazione avrebbe potuto verificarsi solo alla realizzazione di uno scenario: era, infatti, indispensabile intensificare il livello di cooperazione politica tra il Giappone e l’ASEAN migliorando la fase di coordinamento: ciò avrebbe messo l’Associazione nelle condizioni di rispondere in misura efficace alle sfide che si sarebbero dispiegate negli anni avvenire. Questo non fu l’unico aspetto che emerse dal discorso di Takeshita, tenutosi nel dicembre 1987 in occasione del terzo summit dell’ASEAN di Manila. Il Premier lanciò il Fondo di sviluppo Giappone-ASEAN, un nuovo strumento finanziario che conteneva una somma pari a oltre due milioni di dollari e che prevedeva di dare l’ennesimo stimolo alle economie dell’ASEAN. A Manila Takeshita evidenziò i risultati derivanti dalla promozione della cooperazione tecnico-scientifico e culturale, reiterando le promesse di nuovi finanziamenti e programmi di istruzione che sarebbero stati approvati dalla Dieta negli anni successivi.

Dopo la fine della Guerra fredda

I principi della “diplomazia di pace” trovarono una rapida applicazione con l’avvento del governo guidato da Kaifu Toshiki (1989-91). L’impegno giapponese a proporsi come principale mediatore della più intricata crisi politica cambogiana, da una parte, aggiunse un ulteriore tassello all’avanzamento dei rapporti con il Sud-Est asiatico; dall’altra, consentì al Giappone di ottenere un credito di immagine agli occhi dei Paesi dell’Indocina, e in particolare del Viet Nam. Il Premier Kaifu accettò la proposta thailandese di ospitare i negoziati tra il Primo ministro Hun Sen e i tre rappresentanti delle rispettive fazioni di opposizione. Per la verità, non si trattava della prima volta in cui il Giappone si ritrovò a interpretare il ruolo di arbitro, avendolo ricoperto più di vent’anni prima nel contesto della Konfrontasi indo-malaysiana, ma a differenza di quella volta la crisi cambogiana evidenziò le grandi capacità diplomatiche e le solide conoscenze del contesto politico del Sud-Est asiatico dei funzionari del Ministero degli Esteri incaricati di occuparsi dei negoziati. Peraltro, la volontà giapponese di contribuire alla pacificazione della Cambogia nasceva anche da un’esigenza di ravvicinamento diplomatico all’Unione Sovietica di Mikhail S. Gorbacev. Non a caso, l’ostacolo principale che impediva ai due Paesi di normalizzare i propri rapporti diplomatici, nella probabile prospettiva di dare il via libera agli investimenti in tecnologia giapponese in Unione Sovietica, era proprio lo stallo nei negoziati sulla guerra civile in Cambogia.

Nei mesi precedenti alla firma degli accordi, Kaifu fu protagonista di una importante visita nel Sud-Est asiatico, contrassegnata da un evento di grande portata simbolica: a Singapore, per la prima volta, un’alta carica delle istituzioni giapponesi ammise l’efferatezza dei crimini commessi dal Giappone nel Sud-Est asiatico durante la “Grande guerra dell’Asia Orientale”. Il discorso, pronunciato ironicamente proprio nella città in cui il “Gruppo di spedizione al Sud” dell’Esercito imperiale giapponese inflisse, nel febbraio 1942, una sonora e inaspettata sconfitta all’esercito britannico, espresse il “sincero rimorso[9]” per le sofferenze inflitte alle popolazioni asiatiche. Inoltre, Kaifu si augurò che eventi simili o di peggiore entità non si ripetessero più in futuro.

Tuttavia, il passaggio dal governo Kaifu a quello guidato da Miyazawa Kiichi (1991-93) avviene nel periodo in cui il sistema bipolare implose definitivamente a seguito della dissoluzione dell’Impero sovietico. Fu un evento che trascinò il mondo verso una fase di profonda incertezza, ma che in realtà ebbe modo di dispiegare nuove opportunità per il Giappone e l’Asia. Tokyo partecipò attivamente alla realizzazione dei forum di cooperazione multilaterale sponsorizzati dall’ASEAN e dall’Australia, che avevano l’obiettivo di rimodellare un nuovo ordine regionale e favorire l’integrazione relativa a temi economici e di sicurezza. Il governo Miyazawa non distolse l’attenzione dal Sud-Est asiatico, ma proseguì anzi sulla scia dei suoi predecessori rafforzando gli sforzi del Giappone. La relazione bilaterale non escludeva, anzi, proseguiva di pari passo con l’approccio multilaterale.

Mentre aumentavano gli sforzi tesi ad avviare un processo di liberalizzazione economica nell’Asia-Pacifico, Miyazawa chiarì i passi concreti che il Giappone intendeva compiere per intensificare le relazioni con l’ASEAN. Nel corso del suo tour diplomatico in Indonesia, Malaysia, Thailandia e Brunei, nel gennaio 1993, il Primo ministro discusse con i partner della possibilità di sviluppare nuovi investimenti in infrastrutture e nel settore dei trasporti; avanzò la proposta di coinvolgere altre organizzazioni internazionali, come alcune agenzie delle Nazioni Unite, per garantire nuovi aiuti economici all’ASEAN e per facilitare il processo di democratizzazione nel Sud-Est asiatico; da ultimo, affermò senza alcuna esitazione che la presenza degli Stati Uniti fosse indispensabile per la sicurezza e lo sviluppo economico della regione. Quest’ultimo punto in particolare evidenziava, agli occhi dei Paesi ASEAN, una posizione di quasi asservimento del Giappone nei confronti del suo principale alleato, che ricorreva all’arma della pressione politica (gaiatsu) per convincere Tokyo ad allinearsi alle sue volontà. In effetti ciò si poneva, con altrettanta chiarezza, in profonda contraddizione con la politica di non interferenza e di autonomia dalle Grandi Potenze di cui l’Associazione si fa tuttora promotrice.

In quegli anni emersero i primi screzi tra Tokyo e alcuni leader del Sud-Est asiatico, i quali osteggiavano l’approccio giapponese volto ad appoggiare in maniera quasi incondizionata le iniziative politiche che Washington aveva in serbo per l’Asia, e che spesso si ponevano in antitesi con i progetti concepiti dai Paesi asiatici. Memorabile fu il caso dell’East Asia Economic Caucus, un progetto di area di libero scambio asiatica lanciato da Mahathir Mohamad nei primi anni Novanta e mai realizzato per l’opposizione degli Stati Uniti. Al summit dell’Asia Pacific Economic Co-operation (APEC) di Seattle, nel novembre 1993, l’allora Premier della Malaysia espresse il proprio disappunto nei confronti dell’inerzia dimostrata dall’allora governo giapponese di Hosokawa Morihiro (1993-94), colpevole di non aver incoraggiato la discussione del progetto.

Nel giugno 1992, con Miyazawa ancora ben saldo al governo, il Giappone adottò la “Carta ODA”, ossia il primo documento ufficiale che identificava tutte le precondizioni necessarie affinché i Paesi in Via di sviluppo potessero richiedere e ottenere aiuti pubblici dalla JICA. I principali requisiti scritti nero su bianco sul documento erano l’avvio di un processo di democratizzazione, il rispetto dei diritti umani fondamentali e il contenimento delle spese militari. Sebbene la Carta costituisse un elemento di innovazione nella concessione dell’ODA, Tokyo in realtà si trovò in passato nella condizione di sospendere gli aiuti allo sviluppo alla Birmania/Myanmar, di fronte alle ripetute violazioni dei principi democratici e dell’incolumità dei cittadini. Nel Paese, che negli anni Ottanta fu tra i primi dieci destinatari dei prestiti e delle sovvenzioni giapponesi[10], la violenta repressione ordita dal Generale Ne Win per sedare le proteste sviluppatesi nell’agosto-settembre 1988 condussero il Giappone a congelare tutti i programmi di assistenza allora in corso.

Dopo l’iniziativa di Kaifu che fece ammenda degli errori commessi dal Giappone nella prima parte del XX secolo, la diplomazia del pentimento compì un ulteriore avanzamento con Murayama Tomiichi (1994-96), importante figura politica giapponese che diede il proprio contributo alla riconciliazione con il Sud-Est asiatico. Nell’agosto 1994, a un anno esatto dal cinquantesimo anniversario della fine del conflitto in Asia Orientale, il Primo ministro riconobbe le “intollerabili sofferenze” derivanti dagli “atti di aggressione” commessi nei confronti delle popolazioni dei territori occupati durante la dominazione coloniale.[11] Murayama, inoltre, promosse un’iniziativa denominata “Pace, amicizia e scambio”, che fu strutturata su due piani: nella prima parte, il Giappone avrebbe messo a disposizione di storici e ricercatori asiatici una parte consistente della documentazione di archivio in suo possesso, necessaria per fare luce su tutti gli aspetti oscuri e controversi di quel periodo. Questa sarebbe stata depositata e conservata presso il “Centro per la documentazione storica asiatica” dipendente dagli archivi nazionali giapponesi, che fu inaugurato solo nel 2001. Nella seconda parte, invece, il governo avrebbe approvato nuovi scambi culturali con i Paesi dell’ASEAN.

Rispetto a Kaifu, Murayama non solo cercò di fornire una risposta concreta – ancorché non sufficiente a sopire le polemiche – alle accuse di revisionismo storico mosse dai governi asiatici soggetti in passato al dominio giapponese, ma per la prima volta levò da sotto il tappeto la questione delle “donne di conforto” che furono sottratte alle proprie famiglie nelle Filippine e in Indonesia. Se l’iniziativa di Murayama ebbe indubbiamente il merito di riconoscere le responsabilità dell’esercito giapponese nel circuire centinaia di migliaia di giovani donne vittime del sistema di sfruttamento sessuale approvato tacitamente dall’allora governo imperiale, dall’altra parte essa venne meno all’aspettativa di prevedere adeguate forme di indennizzo alle sopravvissute.

La crisi finanziaria asiatica e la human security

Hashimoto Ryutaro guidò il governo giapponese tra il 1996 e il 1998, in una delle fasi più delicate e turbolente dell’Asia nel post-Guerra fredda. Nell’estate 1997, il drastico deprezzamento del bath thailandese nei confronti del dollaro statunitense, dopo mesi di pressioni speculative, gettò la Thailandia, l’Indonesia e la Corea del Sud in una crisi della bilancia dei pagamenti e del sistema bancario. Ciò ingenerò una fase acuta di panico tra gli investitori internazionali, e in particolare giapponesi, che impulsivamente diedero avvio a una generale fuoriuscita dei propri capitali dai Paesi colpiti[12]. Il disperato tentativo di alzare i tassi di interesse non bastò a fermare la fuga di capitali e il Sud-Est asiatico si trovò, quindi, nel bel mezzo di un disastro che intaccò negativamente i rapporti commerciali tra il Giappone e i propri partner ASEAN.

Furono diversi i provvedimenti che il governo Hashimoto deliberò per provare ad arginare un fiume ormai in piena. In aggiunta ai primi aiuti economici e all’invio di beni di sussistenza come cibo e medicinali elargiti all’Indonesia e ad altri Paesi in difficoltà, Tokyo propose la nascita di un Fondo monetario asiatico, ancillare al Fondo Monetario Internazionale (FMI), che avesse reso più semplice il coordinamento delle politiche macroeconomiche e monetarie dei Paesi toccati dalla crisi. Malgrado l’amministrazione di Bill Clinton riponesse grandi speranze sullo spirito di iniziativa giapponese per far fronte a una situazione oggettivamente disperata, quest’idea fu bloccata proprio dagli Stati Uniti e dai Paesi europei perché avrebbe depotenziato il ruolo delle istituzioni del Washington consensus, ovvero lo stesso FMI e la Banca Mondiale.

A prescindere dalle prese di posizione avute dal suo governo nella gestione della crisi asiatica del 1997, l’azione di Hashimoto si distinse anche per aver ridefinito gli obiettivi della Carta ODA. La riforma amministrativa che fu allora approvata stabiliva che la valutazione finale sulla destinazione degli aiuti pubblici allo sviluppo si sarebbe basata principalmente su criteri qualitativi che quantitativi[13]. In buona sostanza, il Paese che ne faceva richiesta si sarebbe impegnato ad assimilare i principi dell’economia di mercato in cambio di nuova assistenza. Un’altra novità importante prevedeva il coinvolgimento del settore privato nella realizzazione dei progetti infrastrutturali, anche tramite la sottoscrizione di partnership pubblico-privato; infine, parte dei finanziamenti giapponesi avrebbe dovuto tradursi in investimenti di lungo termine in campo ambientale. Priorità fu data ai progetti che vedevano impegnati due o più stati, e ciò andò di conseguenza a favorire lo sviluppo della Grande area del bacino del fiume Mekong. Il governo non fece affidamento sul supporto della JICA e delle istituzioni bancarie tradizionali, ma decise di coinvolgere nuovi istituti di credito nazionali come la Japan Export-Import Bank, nonché istituzioni finanziarie multilaterali come la Banca asiatica di Sviluppo, per quanto riguardava il finanziamento delle opere infrastrutturali interstatali.

Gli esordi del governo di Obuchi Keizo (1998-2000) furono segnati da un inedito attivismo giapponese verso i processi di peacebuilding nel Sud-Est asiatico. Nel 1999 Tokyo ospitò la prima conferenza internazionale su Timor Est, dove inviò forze di polizia e militari delle Forze di Autodifesa a monitorare il corretto svolgimento del referendum sull’indipendenza. Obuchi pose la sicurezza umana (human security) al centro della propria azione diplomatica[14], in posizione leggermente defilata rispetto all’obiettivo di ripresa economica asiatica. Sebbene Murayama avesse per primo coltivato l’idea di uno sviluppo incentrato sull’essere umano, si deve ad Obuchi il primo, concreto, tentativo di dare forma a una strategia organica di assistenza agli individui e alle comunità locali più povere del Sud-Est asiatico (ma non solo).

Lo strumento che concorse alla realizzazione di questa strategia fu il Trust Fund for Human Security, un piano dispiegato nel dicembre 1998 a sostegno delle agenzie delle Nazioni Unite responsabili di cinque grandi progetti di sviluppo nel Sud-Est asiatico. Sul fronte della crisi asiatica, invece, fu inaugurata nei mesi precedenti la “Nuova iniziativa Miyazawa” — dal nome dell’ex Premier, all’epoca responsabile del dicastero delle Finanze — un pacchetto di aiuti a medio-lungo termine che era stata dotato di una cifra pari a trenta miliardi di dollari, destinata a stabilizzare i mercati finanziari. La mossa fu accolta positivamente dai governi di Thailandia, Indonesia e Malaysia che, allettati dalla promessa di una maggiore flessibilità nella concessione dei prestiti rispetto al FMI, decisero di attingere al fondo giapponese. Il Myanmar fu escluso dalla lista degli stati che potevano accedere ai prestiti: ancora una volta il Giappone accolse le richieste dell’alleato statunitense. L’iniziativa del governo Obuchi permise al Paese, da una parte, di corroborare il successo del modello di stato sviluppista che esso incarnava nel continente e, dall’altra, di ristabilire una presenza economica e politica duratura nel Sud-Est asiatico[15].

Conclusioni

In sedici anni, tra il 1982 e il 1998, dieci importanti esponenti politici si succedettero alla guida del governo del Paese. Malgrado la supremazia del PLD fosse stata scalzata per un breve periodo da nuovi partiti, una delle linee di continuità che caratterizzò la politica estera giapponese di quegli anni con l’ASEAN e il Sud-Est asiatico fu la costante ricerca di una forma di cooperazione che fosse il più possibile salda, diversificata ed esclusiva. Tokyo trasse notevoli vantaggi dalla relazione speciale con il Sud-Est asiatico, soprattutto negli anni Ottanta quando l’incremento degli investimenti nella regione consentì alle aziende nipponiche di creare quel sistema di triangolazione della produzione industriale che determinò il successo del modello economico giapponese. Peraltro, proprio in quella fase, Paesi come la Malaysia e Singapore decisero di ispirarsi a quel paradigma di sviluppo e ai valori etici e culturali di cui era portatore, nella consapevolezza che fosse allora il migliore modo per costruire ricchezza e garantire il benessere ai propri cittadini. In questo senso, i programmi di formazione in ambito tecnico e scientifico promossi dal Giappone diedero l’opportunità a centinaia di migliaia di giovani ingegneri ed economisti del Sud-Est asiatico di entrare in contatto con le innovazioni tecnologiche più recenti. Parallelamente, i programmi bilaterali in ambito scolastici e accademico permettevano a studenti e studentesse di frequentare i kosen, gli istituti tecnici nipponici, in cui potevano attingere a conoscenze e competenze che si sarebbero rivelate poi utili una volta fatto ritorno in patria.

Nei due decenni esaminati in questo articolo, la vera forza motrice che favorì i rapporti fu lo schema dell’assistenza allo sviluppo: i programmi rientranti entro la cornice dell’ODA contribuirono alla crescita, prima, e alla ripresa, poi, delle principali economie ASEAN. Fu grazie ai finanziamenti pubblici dei contribuenti nipponici che la principale beneficiaria degli aiuti, l’Indonesia, riuscì a costruire strade, ponti e ferrovie, oppure a ristrutturare il comparto agricolo. Da una prospettiva etica, la convenienza politica derivante dalla concessione dell’assistenza economica molto spesso sovrastava l’interpretazione restrittiva della normativa dell’ODA che, come detto, formalmente vincolava l’aiuto al rispetto dei diritti umani fondamentali o dello stato di diritto. Ciononostante, i governi giapponesi – incontrando talora il favore di alcune organizzazioni imprenditoriali – scesero a patti con i regimi autoritari del Sud-Est asiatico, come l’Indonesia di Suharto, la Thailandia di Prem Tinnasulanon o le Filippine di Ferdinand Marcos, laddove invece ci si attendeva che essi salvaguardassero quei valori di libertà e di democrazia che affermavano di tutelare in patria.


[1] Japan’s Diplomatic Bluebook 2022, pp. 6-7, disponibile online al link https://www.mofa.go.jp/files/100387219.pdf.

[2] Discorso del Primo ministro Kishida Fumio alla 27° Conferenza internazionale sul “Futuro dell’Asia”, 26 maggio 2022, disponibile online al link https://japan.kantei.go.jp/101_kishida/statement/202205/_00014.html.

[3] Sumio, E. (2013), The Fukuda Doctrine: Diplomacy with a Vision, in Peng Er, L. (a cura di), Japan’s Relations with Southeast Asia. The Fukuda Doctrine and Beyond, Abingdon: Routledge, pp. 24-34.

[4] Rassicurazioni in questo senso furono pronunciate dallo stesso Fukuda all’allora presidente filippino Ferdinand Marcos, cfr. Kamm, H. (1977), “Fukuda Offers No Encouragement to Marcos on Japan’s Defense Role”, The New York Times, 28 aprile, disponibile online al link https://www.nytimes.com/1977/04/28/archives/fukuda-offers-no-encouragement-to-marcos-on-japans-defense-role.html.

[5] Kato, H. (2016), “Japan’s ODA 1954–2014: Changes and Continuities in a Central Instrument in Japan’s Foreign Policy”, in Kato, H., Page, J., e Shimomura, Y. (a cura di), Japan’s Development Assistance. Foreign Aid and the Post-2015 Agenda, Basingstoke and New York; NY: Palgrave, p. 3.

[6] Cfr. Ohno, I. (2014), “Japan’s ODA Policy and Reforms since the 1990s and Role in the New Era of Development Co-operation”, Korea International Cooperation Agency, p. 69, disponibile online al link https://www.grips.ac.jp/forum/IzumiOhno/lectures/2014_Lecture_texts/03_KOICA_Ohno_1125.pdf.

[7] Edström, B (1999), Japan’s Evolving Foreign Policy Doctrine from Yoshida to Miyazawa, Basingstoke e New York; NY: Palgrave, p. 134.

[8] Pressello, A. (2018), Japan and the Shaping of Post-Vietnam War Southeast Asia: Japanese Diplomacy and the Cambodian Conflict, 1978-93, Abingdon: Routledge, pp. 196-200.

[9] Yoshimi, Y. (1992), “Japan Battles Its Memories”, The New York Times, 11 marzo, disponibile online al link https://www.nytimes.com/1992/03/11/opinion/japan-battles-its-memories.html.

[10] Seekins, D.M. (2000), “Japan’s ‘Burma Lovers’ and the Military Regime”, Asian Perspective, Vol. 24 (4), pp. 321-23.

[11] Dichiarazione del Primo ministro Murayama Tomiichi sull’iniziativa “Pace, Amicizia e Scambio”, 31 agosto 1994, disponibile online al link https://www.mofa.go.jp/announce/press/pm/murayama/state9408.html.

[12] Per una completa comprensione delle cause che scatenarono la crisi del 1997, si vedano Agenor, P.R., et al. (1999). The Asian Financial Crisis: Causes, Contagion and Consequences. Cambridge: Cambridge University Press; Bello, W. (1999), “The Asian Financial Crisis: Causes, Dynamics, Prospects”, Journal of the Asia Pacific Economy, Vol. 4 (1), pp. 33-55; Montes, M.F. (1997), The Currency Crisis in South-East Asia, Singapore: ISEAS-Yusof Ishak Institute.

[13] Hoshiro, H. (2022), “Japan’s Foreign Aid Policy: Has It Changed? Thirty Years of ODA Charters”, Social Science Japan Journal, Vol. 25 (2), p. 303.

[14] Cfr. Discorso politico del Primo ministro Obuchi Keizo alla Lecture Programme ospitata dall’Institute for International Relations, Ha Noi, 16 dicembre 1998, disponibile online al link https://www.mofa.go.jp/region/asia-paci/asean/pmv9812/policyspeech.html; Ho, S. (2008), “Japan’s Human Security Policy: A Critical Review of its Limits and Failures”, Japanese Studies, Vol. 28 (1), pp. 101-12.

[15] Hughes, C.W. (2000), “Japanese Policy and the East Asian Currency Crisis: Abject Defeat or Quiet Victory?”, Review of International Political Economy, Vol. 7 (2), p. 222.


 

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