Europa e Cina nell’ordine in trasformazione: il ruolo del multilateralismo

A settantacinque anni dalla fondazione delle Nazioni Unite, le organizzazioni internazionali sono oramai parte integrante del sistema delle relazioni internazionali. Nel loro insieme costituiscono un universo composito al quale le opinioni pubbliche dei diversi paesi guardano di norma con rispetto, ma talvolta anche con insofferenza e persino frustrazione, a seconda delle decisioni prese o mancate da ciascuna e dell’efficacia dimostrata nel conseguire risultati. La viva attenzione nei confronti del fenomeno – un’attenzione critica, spesso sfidante per i fautori della cooperazione – raramente in passato si è concentrata sulla visione della politica mondiale che queste istituzioni servono.

Incontro dell’international roundtable dell’Organizzazione della cooperazione di Shanghai tenutosi il 6 dicembre scorso a Lianyungang, Jiangsu. Obiettivo dell’incontro: favorire una più stretta cooperazione di carattere commerciale e logistico tra gli Stati membri, in perfetta sintonia con le “aree prioritarie” della Belt and Road Initiative (immagine: Costfoto/Barcroft Media via Getty Images).

 

Il multilateralismo come leva di cambiamento

Il multilateralismo, inteso come progetto di governo dei problemi che trascendono la capacità di intervento dei singoli Stati, era tutt’uno con l’ordine liberale a guida statunitense – basato su regole, aperto, non discriminatorio –, e come tale è stato a lungo accettato. Il problema era, se mai, la rappresentatività delle singole organizzazioni internazionali o il loro rendimento, come si è detto. In alcune circostanze, a suscitare dibattito sono state le azioni di questo o quell’organismo, che visibilmente costituivano la cinghia di trasmissione di specifiche concezioni della politica o dell’economia dal nucleo dell’ordine verso i paesi membri. Il Fondo monetario internazionale rappresenta il caso di scuola a questo proposito.

Se il modello di governo delle relazioni internazionali associato all’ordine liberale è divenuto in sé oggetto di riflessione, di recente, è perché quest’ultimo è entrato seriamente in crisi e, soprattutto per l’Europa, valutare che cosa, dell’esperienza passata, fosse destinato a venir meno e che cosa potesse invece sopravvivere era essenziale. La contestazione dei paesi emergenti – fra i quali spicca per vigore la Cina – riguarda esclusivamente la sua componente “egemonica”, essendo diretta a ridimensionare il ruolo guida degli Stati Uniti, oppure investe anche il multilateralismo?[1] Ciò che soltanto poco tempo addietro appariva nella disponibilità dei paesi occidentali (condizione, peraltro, non così tranquillizzante), improvvisamente si è rivelato esposto alle scelte degli altri e dunque prezioso, come ogni cosa che si rischia di perdere.

Che simili preoccupazioni fossero, e siano, fondate è oggetto di un vivace dibattito. Pechino fa professione, non soltanto verbale, di adesione a questo principio di organizzazione della cooperazione internazionale, avendo varato di recente la Banca asiatica d’investimento per le infrastrutture (Asian Infrastructure Investment Bank, AIIB), una banca multilaterale di indubbio successo a giudicare dalle numerose adesioni qualificate.[2] Eppure l’Unione europea, accantonate dichiarazioni congiunte rassicuranti,[3] ha messo nero su bianco che la Cina, per l’Europa, è oggi un “rivale sistemico in quanto promuove modelli di governance alternativi”.[4]

Una Cina più proattiva nell’order shaping rispetto al passato e orientata ad affermare un principio di organizzazione delle relazioni internazionali differente dal multilateralismo, che l’Europa ha formalmente messo al centro del proprio disegno di politica estera sin dal 2003,[5] costituirebbe un problema serio. E anche più serio, in questa fase, per la mancanza di una sponda da parte degli Stati Uniti, di recente platealmente scettici sulla stessa idea che una qualche forma di organizzazione possa – in realtà: debba[6] – essere impressa ai processi politici internazionali, anche allo scopo di governare la riforma dell’ordine attraverso l’inclusione dei soggetti che promuovono, più o meno incisivamente, una discontinuità.[7] Per cogliere fino in fondo le ragioni di una preoccupazione espressa con un tono inusualmente deciso per una potenza gentile,[8] occorre guardare al modello multilaterale e soprattutto alle aspettative originariamente associate alla sua realizzazione dall’Occidente nel suo insieme.

Il multilateralismo, infatti, non si distingue dall’unilateralismo o dal bilateralismo per la mera numerosità dei soggetti coinvolti. Ciò che lo caratterizza è il modo in cui la cooperazione si realizza.[9] In primo luogo, attraverso regole generali di condotta che riflettono qualche forma di istituzionalizzazione (dai più flessibili regimi alle vere e proprie organizzazioni internazionali). È questo fenomeno a rendere “ordinati” e, in quanto tali, prevedibili i comportamenti dei paesi coinvolti. Affinché Stati indipendenti decidano di legarsi attraverso regole, limitando volontariamente la propria autonomia, occorre abbiano maturato la convinzione che il bene da realizzare collettivamente – la pace – o il male che si vuole evitare – ad esempio il degrado ambientale – sia indivisibile. Una percezione dalla quale discende il senso di indivisibilità del gruppo che si mobilita per affrontarlo. Questo è il secondo ingrediente. Che poi una comunità coesa possa facilmente concepire come indivisibili problemi nuovi, o che inaspettatamente richiedono un impegno collettivo, è uno degli effetti attesi più importanti del multilateralismo in un mondo in rapida trasformazione.[10]

L’ultimo tratto che caratterizza questa forma organizzativa è la reciprocità diffusa, cioè l’adesione al principio che i benefici della cooperazione non debbano necessariamente essere immediati e neppure individuali, ma piuttosto collettivi e valutati nel lungo periodo, come è ragionevole che sia quando un’istituzione crea coesione e amplia gli orizzonti temporali della collaborazione. Questi tre elementi, che si alimentano vicendevolmente, generano fiducia reciproca, consentendo agli Stati di superare il dilemma della sicurezza tipico di un ambiente nel quale gli attori sono indotti precauzionalmente ad attribuirsi l’un l’altro le peggiori intenzioni: ricetta sicura per il conflitto, specialmente in fasi di transizione nella configurazione dell’ordine.

Ecco dunque la capacità che l’Europa, per esperienza diretta, riconosce al multilateralismo: alterare le dinamiche competitive, tipiche della politica mondiale e particolarmente visibili oggi, per creare un ambiente sicuro nel quale gli Stati possano perseguire priorità individuali e collettive altre rispetto alla mera autodifesa. Non stupirà, quindi, che soprattutto l’Europa si preoccupi per il futuro del multilateralismo giacché esso costituisce una leva importante della sua politica estera strutturale, quella alla quale si affida per plasmare il contesto nel quale dovrà interagire con gli altri attori.[11]

Non è peraltro soltanto l’Europa ad aver riconosciuto il valore del multilateralismo se qualche anno addietro Ian Clark proponeva di concepirlo come un vero e proprio “parametro di costituzionalità” delle azioni dei membri della comunità internazionale.[12] Il multilateralismo, che di fatto riflette la trasposizione nella sfera internazionale dei principi fondamentali della democrazia procedurale, in questa versione meno ambiziosa assume d’altronde grande valore proprio nel momento in cui, insieme al numero dei paesi capaci e attivi, cresce la diversità nel sistema internazionale. In questa condizione più che mai occorre infatti agevolare la costruzione di un linguaggio comune per inquadrare collettivamente i problemi, consentire l’espressione e la gestione del dissenso, favorire soluzioni negoziate.[13] Il rispetto di regole condivise – che riflette un processo di istituzionalizzazione e in quanto tale può generare tutti gli effetti positivi più profondi descritti in precedenza – è quindi un parametro assai utile, a fronte della varietà delle culture politiche e delle priorità, per stabilire la legittimità di una scelta o di una politica.

Il Presidente Xi Jinping alla cerimonia d’apertura della Banca asiatica d’investimento per le infrastrutture a Pechino, 16 gennaio 2016 (immagine: MARK SCHIEFELBEIN/AFP via Getty Images).

 

Europa, Cina e multilateralismo

Il fatto che il multilateralismo sia riconosciuto per questa seconda importante funzione che assolve, tanto da essere replicato nella costruzione di nuove istituzioni da parte delle potenze emergenti,[14] non sembra tuttavia placare le preoccupazioni dei suoi sostenitori. Dopo aver chiarito perché sarebbe ragionevole allarmarsi di fronte a una crisi del multilateralismo in quanto tale, è venuto dunque il momento di chiedersi se vi siano ragioni di allarmarsi ora.

Nonostante le professioni di adesione al multilateralismo e di rispetto delle Nazioni Unite, coscienziosamente ripetute anche in occasione di ciascuno dei successivi vertici dei paesi BRICS, la posizione della Cina non è, in effetti, del tutto limpida al riguardo. Poiché Pechino ha ormai chiarito di voler intervenire per modificare ciò che dell’ordine attuale non si concilia con la sua visione del mondo e con i suoi interessi, questa ambiguità pesa parecchio.

La Cina attinge al multilateralismo per creare istituzioni proprie: replica il principio con rigore, ma anche un poco di circospezione, allo scopo dichiarato di legittimarsi, ma in questo modo coglie anche tutto ciò che di buono il multilateralismo può darle in questa fase di consolidamento come attore di riferimento per molti paesi: offrire occasioni di partecipazione, dare voce ai partner, compresi i più marginali secondo le logiche tradizionali, crescere ancora in capacità senza dover esplicitare un disegno che, proprio perché inclusivo, si può ritenere serva un interesse più ampio di quello puramente nazionale. La socializzazione al modello, benché non frutto di un processo di apprendimento profondo, come rivelano i ripetuti richiami di Pechino al valore del consenso nella sfera internazionale, ha certamente generato nel paese una notevole consapevolezza del valore attribuito al multilateralismo non soltanto dall’Occidente e le ragioni di ciò.[15] A parte l’attrito con il quale la Cina dovrebbe fare i conti se volesse promuovere un modello alternativo, occorrerebbe anche averne uno da proporre che abbia gli stessi pregi agli occhi chi cerca un ordine più, e non meno, rappresentativo.

Se pure Pechino aderisse in futuro al multilateralismo con maggior convinzione sulla scorta di questi due elementi, ciò potrebbe comunque non risultare rassicurante per l’Europa (e forse neanche per gli Stati Uniti che, dopo aver perso tanto terreno, potrebbero tornare in futuro ad apprezzare la governance). La Cina multilateralista già oggi impiega la sua recente expertise per riprodurre istituzioni che finiscono per generare, attraverso nuove organizzazioni, un ordine parallelo a quello liberale. Questo costituisce un problema per l’ordine liberale – ormai post-egemonico – che potrebbe vedersi sfuggire sempre più questioni da gestire secondo i propri canoni a favore di piattaforme non occidentali (si veda l’articolo di Druetta sulla duplicazione delle sedi di arbitrato commerciale in questo stesso numero). Pechino mutua dunque il modello, ma la condivisione del metodo non mitiga la preoccupazione che queste forme di external innovation[16] finiscano per svuotare l’ordine che c’è,[17] sino a sostituirlo con una configurazione nella quale il multilateralismo potrebbe essere fortemente ridimensionato nella sua portata. Il termine plurilateralismo, inutile se non per segnalare una cooperazione tra molti che non abbia i caratteri progettuali descritti poc’anzi, suscita qualche sospetto al riguardo.[18]

D’altronde uno studioso autorevole come Shiping Tang sostiene che l’ordine liberale non è mai stato tale e, di fatto, mai un ordine internazionale potrà essere liberale, perché gli Stati non hanno il diritto di esprimere con un voto l’accettazione delle sue regole, come è prescritto in democrazia.[19] Questa asserzione evidentemente “svuota” l’ordine liberale del suo principio organizzatore fondamentale, cioè del suo valore, al contempo sminuendo la funzione delle procedure istituzionalizzate che possono invece cambiare il rendimento del sistema politico internazionale. Ciò soprattutto in una fase in cui la contestazione su metodi e sostanza delle decisioni è forte, come Tang stesso sottolinea. La visione dello studioso, attraverso il suo significativo silenzio sul multilateralismo, evoca un modello di politica mondiale basato su relazioni piuttosto che su norme, sul consenso piuttosto che su un processo decisionale istituzionalizzato. Ecco perché l’Europa ripete quasi ossessivamente che l’ordine deve essere rule-based.

In questo senso, Europa e Cina sarebbero due attori normativi[20] che interpretano la loro missione in due modi diversi, seguendo logiche differenti, con un impatto sull’evoluzione dell’ordine internazionale potenzialmente importante, sia che si guardi all’aspetto trasformativo del multilateralismo, sia che ci si concentri su quello procedurale, che del primo è il presupposto (necessario, non sufficiente).[21] Tuttavia è difficile concepire questa dinamica come frutto di una rivalità intesa in senso tradizionale. La rivalità comporterebbe infatti una contrapposizione netta, ostinata, che nei fatti non si osserva né si potrebbe osservare, data la complessità e la fluidità delle questioni che creano occasioni di interazione tra i due attori. Lo riconosce, d’altra parte, la stessa Unione europea quando, nello stesso passaggio di EU-China – A Strategic Outlook del 2019 in cui definisce la Cina un “rivale sistemico” nella sfera della governance, esplicita che, per l’Europa, Pechino è allo stesso tempo anche un “partner di cooperazione” con il quale condivide obiettivi, una “controparte negoziale” quando gli interessi non sono complementari, e infine un “concorrente nella competizione per la leadership tecnologica in ambito economico”.[22] La rappresentazione semplificata – preferita dai media – cela dunque una visione più sofisticata dell’altro e del mondo che da Cina ed Europa è oggi, in buona misura, definito, visione che chiaramente si riflette nella condotta diplomatica e nelle politiche.

Quando la Cina crea istituzioni proprie, i paesi che danno valore al multilateralismo sono indotti a scegliere di farne parte per orientarne, dall’interno, l’evoluzione: questo è il caso della AIIB, che talvolta potrà anche deliberare in una direzione non condivisa dall’Occidente, ma lo farà comunque attraverso un processo decisionale trasparente. Optare per l’engagement significa anche lasciarsi coinvolgere, entrare in un processo di socializzazione bidirezionale che può favorire l’innovazione più di quello a senso unico, vecchia maniera. Una dinamica promettente ma che richiede vera consapevolezza di quale sia la posta in gioco, prima ancora che saldezza di principi.

Di recente a comportarsi come un external innovator è peraltro stata l’Unione europea che, di fronte allo stallo dell’Organo di conciliazione dell’Organizzazione mondiale del commercio (World Trade Organization, WTO), ha creato un arrangement parallelo temporaneo, in attesa che si sblocchi la situazione – incresciosa e dannosa – determinata dalla scelta dell’amministrazione Trump di bloccare la nomina dei nuovi componenti. A tale organismo hanno aderito 18 paesi, inclusa la Cina (gennaio 2020). Se dovesse partire domani un processo di riforma organica del WTO, non sarebbero comunque ragionevolmente proprio Cina ed Europa a dover fare un investimento di energie e credibilità per condurla in porto? Quella tra Pechino e Bruxelles sarà certamente una uneasy partnership – come peraltro la maggior parte di quelle che conosciamo –, ma potrebbe non avere alternative, come dimostra l’interazione sino-europea nel contesto dell’AIIB.

 

Confrontarsi in un contesto multilaterale: il caso dell’AIIB

Il presidente dell’AIIB, la nuova istituzione multilaterale creata da Pechino nel 2015, ama ricordare il motto dell’istituto che presiede, “Lean, clean and green”, per riflettere la struttura burocratica snella ed efficiente, l’impegno alla trasparenza e contro la corruzione, e l’aderenza agli obiettivi dello sviluppo sostenibile. In altre parole, l’AIIB desidera fermamente collocarsi all’interno delle regole e degli standard che caratterizzano le istituzioni finanziarie internazionali, in particolare le banche multilaterali di sviluppo (BMS). Nel tenere fede a questa promessa, l’AIIB è aiutata dai suoi membri europei.[23]

Fin dall’annuncio della loro adesione alla Banca in qualità di stati fondatori, e della conseguente partecipazione ai negoziati per darle uno statuto, infatti, gli europei chiarirono di volere incardinare l’AIIB nel sistema finanziario globale esistente, come si evince dalle dichiarazioni ufficiali provenienti da alcune capitali, come Parigi (“Francia, Italia e Germania […] sono desiderose di aggiungersi ai membri fondatori dell’AIIB per lavorare alla costituzione di un’istituzione che aderisca alle best practices nei settori della governance, sicurezza, prestiti e appalti pubblici”),[24] Roma (“Francia, Germania e Italia, operando in stretto raccordo con i partner europei e internazionali, intendono lavorare con i membri fondatori dell’AIIB per costruire un’istituzione che segua i migliori principi e le migliori pratiche in materia di governo societario e di politiche di salvaguardia, di sostenibilità del debito e di appalti”)[25] e Londra (“Il Regno Unito svolgerà un ruolo chiave nell’assicurare che l’AIIB incarni i migliori standard di accountability, trasparenza e governance”).[26] I governi europei, a differenza di quelli statunitense e giapponese,[27] non hanno mai visto nella mossa di Pechino il tentativo di costruire un’alternativa alla Banca mondiale e alla Banca asiatica per lo sviluppo, anzi, hanno concepito l’AIIB come un valido complemento alle stesse, in grado di accrescere la raccolta di capitali necessari per costruire e ammodernare le infrastrutture di cui l’Asia ha sempre più bisogno per sostenere lo sviluppo economico.[28] Anche la Commissione europea sostenne la presenza europea nell’AIIB come tassello di una più ampia strategia di engagement con la Cina, pur lamentando al contempo il mancato coordinamento degli Stati membri nella risposta da dare all’invito di Pechino.[29]

Soprattutto nei primi anni di attività, la maggioranza dei progetti dell’AIIB fu co-finanziata dalle altre BMS, di cui dovevano quindi rispettare gli standard, e sembra che le decisioni sul co-finanziamento siano state influenzate dal governo tedesco.[30] Come vedremo, l’AIIB ha adottato molti principi e procedure operative simili a quelli delle BMS esistenti, e per questo i reali vincitori potrebbero essere il regime finanziario globale e i paesi in via di sviluppo, poiché l’arrivo sulla scena dell’AIIB ha allargato il mercato dei capitali disponibili, in un contesto multilaterale, per il finanziamento infrastrutturale.[31]

Senza dubbio, esistevano (ed esistono) anche delle ragioni economiche molto più prosaiche che hanno spinto gli europei ad aderire alla Banca.[32] Sulla scia della “dottrina Osborne”, dal nome dell’ex Cancelliere dello Scacchiere del governo conservatore britannico che propugnava relazioni economiche più strette con la Cina, gli Stati europei entravano in competizione tra di loro per attrarre gli investimenti cinesi e per aumentare le proprie esportazioni verso la Cina e l’Asia. Quindi gli Stati membri nutrivano la speranza che, diventando stati fondatori dell’AIIB, la Cina avrebbe mostrato riconoscenza, garantendo alle aziende europee accessi privilegiati al proprio mercato e in generale moltiplicando le occasioni di scambio commerciale con l’Europa.[33] Da una prospettiva di sicurezza internazionale, inoltre, è stato dimostrato che la probabilità per uno Stato europeo di aderire alla Banca è positivamente correlata al suo senso di incertezza riguardo al mantenimento dell’alleanza con gli Stati Uniti, e al grado di dipendenza della sua crescita futura dai fiorenti mercati asiatici.[34] Infine, Regno Unito, Lussemburgo, Germania e Francia erano in competizione ciascuno per promuovere i propri centri finanziari come hub per la negoziazione e lo scambio di strumenti denominati in renminbi.[35] La stessa AIIB scelse Londra per il lancio delle prime obbligazioni, anche se ciò ha più a che fare con il vantaggio competitivo di questa piazza finanziaria che con la scelta del Regno Unito di aderire alla Banca.

Aderendo alla Banca, Stati europei come Francia, Germania e Regno Unito portarono in dote all’AIIB la loro credibilità finanziaria, contribuendo alla tripla A concessa alla nuova organizzazione dalle tre principali agenzie globali di rating del credito. Inoltre, il periodo della creazione della Banca, dal 2014 al 2016, coincise con i negoziati per la conferenza sul clima delle Nazioni Unite COP21 che portò all’adozione degli accordi di Parigi sul cambiamento climatico nel dicembre 2015. Il ministero degli affari esteri francese chiarì che gli europei avrebbero portato l’agenda COP21 all’interno delle discussioni per dare uno statuto alla Banca:[36] “Insieme ai nostri partner europei, ci siamo assicurati che questo statuto incorpori i più elevati standard sociali e ambientali utilizzati dalle banche multilaterali. La Francia attribuisce una speciale importanza alla loro applicazione nella selezione e gestione dei progetti”.[37] Sulla stessa linea la posizione della Germania, “impegnata ad assicurare che l’AIIB applichi gli standard ambientali, sociali e di governance il più possibile elevati”,[38] e del Regno Unito, accertatosi “che l’AIIB incarni i migliori standard di accountability, trasparenza e governance”.[39] Gli europei entrarono in scena quando alcuni round negoziali si erano già conclusi, e si concentrarono sull’allineamento dello statuto della Banca alle disposizioni, da loro ben conosciute, in uso presso le altre BMS. In un certo senso, secondo alcuni l’impegno europeo potrebbe essere ricondotto all’obiettivo di “domare la Cina dall’interno”,[40] secondo un approccio del tipo “se non puoi batterli, unisciti a loro”.[41] Nella loro azione, gli europei furono probabilmente agevolati dalla scelta di Pechino di reclutare, per la stesura dei testi normativi, Nathalie Lichtenstein, una giurista americana con trent’anni di carriera alle spalle in Banca mondiale,[42] a dimostrazione che la Cina non intende sfidare direttamente l’ordine secondo una logica di “rivalità sistemica”.

Con eccezioni minori, le richieste europee furono generalmente accettate, e l’AIIB adottò anche standard sociali quali la proibizione del lavoro infantile, l’uguaglianza di genere, e regolativi come la trasparenza e l’apertura non discriminatoria negli appalti pubblici. Se la fonte primaria di ispirazione fu la Banca mondiale, le regole e gli standard dell’AIIB pescano anche dai modelli costituzionali delle altre BMS, peraltro nominate espressamente dalla stessa Lichtenstein, che assunse il ruolo di General Counsel inaugurale: la Banca europea per gli investimenti (BEI), la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (BERS), la Banca di sviluppo inter-americana, la Banca africana per lo sviluppo, e la Banca asiatica per lo sviluppo.[43]

Considerato che i principali clienti della Banca sono i paesi in via di sviluppo (in cui questi standard non sono diffusi), l’incorporazione degli standard globali nelle norme che regolano l’attività della Banca potrebbe riflettere una certa asimmetria di potere, visto che questi standard riflettono spesso l’agenda, gli interessi e le regole dei paesi industrializzati. Tuttavia, Jin Liqun, il presidente dell’AIIB, e gli altri funzionari cinesi, videro in ciò evidenti guadagni reputazionali, e l’immediata credibilità della Banca nel panorama della finanza multilaterale per lo sviluppo.[44] Probabilmente, accettare la prospettiva europea sugli standard fu il prezzo da pagare per la Cina per avere gli europei tra i paesi fondatori, un indubbio successo diplomatico e allo stesso tempo una garanzia per la solidità finanziaria e la buona governance della Banca.[45]

In effetti, lo statuto della Banca ricorda che l’azione della stessa si basa su “solidi principi bancari” (art. 13.1 degli Articles of Agreement). Uno dei temi più controversi nel dibattito sulla Belt and Road Initiative (BRI) proposta da Pechino riguarda la sostenibilità del debito – vale a dire, la capacità degli Stati debitori, spesso piccoli e poveri, di restituire puntualmente capitale e interessi del prestito ricevuto.[46] Finora, la Banca non ha erogato prestiti in paesi che sono considerati ad alta vulnerabilità del debito secondo i criteri della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale,[47] con le eccezioni di due progetti in Laos e Tajikistan, che sono stati tuttavia co-finanziati da altre BMS, dopo averne valutato la sostenibilità in modo rigoroso.

Fin dall’inizio, il team organizzativo dell’AIIB e lo stesso Ministero delle finanze hanno dichiarato tolleranza-zero nei confronti della corruzione, in ossequio alla componente “clean” del motto della Banca. Non solo ciò è riflesso nello statuto (art. 9 degli Articles of Agreement), stabilendo che i finanziamenti erogati devono essere utilizzati solo per gli scopi del prestito, e prestando la “dovuta attenzione a considerazioni di economia ed efficienza”, ma l’AIIB ha anche adottato una “policy sulle pratiche proibite” conforme alle disposizioni delle altre BMS.[48] In materia di appalti pubblici, la Banca segue un processo competitivo, aperto e trasparente, che “non prevede alcuna restrizione sulla fornitura di beni e servizi da alcun paese” (art. 13.8 degli Articles of Agreement), in linea con le disposizioni della BERS, molto meno restrittive di quelle in vigore ad esempio per la Banca africana e la Banca asiatica per lo sviluppo, che limitano l’accesso alle procedure di appalto agli stati membri.[49] Ancora, la sezione 5 della Procurement Policy elenca gli stessi principi che governano gli appalti nelle altre BMS: economia, efficienza, efficacia, equità e good governance, value for money, fit for purpose, e trasparenza.[50]

L’AIIB si è anche dotata di un Environmental and Social Framework (ESF),[51] ancorato su una Environmental and Social Policy che include obbligatoriamente nei progetti tre gruppi di standard ambientali e sociali (valutazione sociale e ambientale, riallocazione involontaria, e gruppi indigeni). Tra i principi dell’ESF trovano spazio lo sviluppo sociale e l’inclusione sociale, la parità di genere, le norme sull’occupazione adeguate alle regole dell’Organizzazione mondiale del lavoro. L’ESF contiene anche un riferimento esplicito agli obiettivi dello sviluppo sostenibile (paragrafo 7), alla biodiversità (par. 17), alla crescita economica verde (par. 18), e agli impegni degli accordi di Parigi sul cambiamento climatico (par. 16), malgrado non si escluda a priori l’investimento in infrastrutture che utilizzano combustibili fossili.[52]

In sintesi, i membri europei della Banca sembrano svolgere, all’interno della stessa, il ruolo di difensori degli standard ambientali e sociali. Questi ultimi rappresentano però, allo stesso tempo, una possibile causa di frizioni e tensioni, tra paesi occidentali, Cina e paesi in via di sviluppo. Da un lato, infatti, l’AIIB è sottoposta a pressioni dai governi e dalle organizzazioni della società civile dei paesi europei, affinché vengano concretamente rispettati gli standard e le regole che la Banca si è data (e non restino confinati in un libro dei sogni, soprattutto in materia di sviluppo sostenibile).[53] D’altro canto, alcuni paesi in via di sviluppo vorrebbero ricevere maggiori fondi dalla Banca senza le condizionalità che discendono dagli alti standard adottati (e che a troppi governi ricordano le condizionalità della Banca mondiale). Come la Cina saprà gestire, da un lato, i soci occidentali – che comunque, ricordiamo, rappresentano una minoranza del capitale – e, dall’altro, le pressioni dei potenziali clienti, che possono rappresentare validi alleati di Pechino nel processo di sviluppo della BRI e di riarticolazione dell’ordine, determinerà il futuro status e ruolo dell’AIIB sulla scena globale degli aiuti finanziari allo sviluppo.

Le criticità sono già evidenti. Nel dicembre 2019, l’AIIB ha approvato il primo finanziamento (per un importo pari a 500 milioni di dollari) alla Federazione russa, allo stesso tempo in questo momento un alleato-chiave della Cina e, allo stesso tempo, un paese soggetto a sanzioni finanziarie internazionali, e che non può pertanto ricevere finanziamenti dalla BEI o dalla BERS.[54] È la prima volta dal 2014 che la Russia ottiene un prestito da una BMS in cui siano soci gli europei, che si trovano quindi in una situazione di imbarazzo istituzionale, poiché la loro resistenza non si può tramutare in un veto. Ironicamente, il governo russo ha dichiarato che la prima tranche del prestito sarà utilizzata per migliorie all’autostrada tra la Russia nord-occidentale e la Norvegia, e che il prestito dell’AIIB dimostra come la politica delle sanzioni non possa durare per sempre.[55] Malgrado la Banca, nell’annunciare l’approvazione del prestito, si sia precipitata a ricordare che saranno applicate tutte le regole previste in materia di appalti pubblici, tutela ambientale e protezione sociale, per assicurare che “l’esecuzione delle opere sia condotta rispettando gli elevati standard internazionali”, è evidente come l’apertura alla Russia avvenga sotto la spinta di Pechino, e rappresenti un tentativo di innovare l’ordine finanziario multilaterale, che oggi non include Mosca. Il rischio, quindi, che Pechino utilizzi un’arena multilaterale per perseguire l’obiettivo di edificare un ordine parallelo, non condiviso dall’Europa, è evidente.

 

Considerazioni conclusive

Il timore dell’Europa di fronte all’order shaping della Cina è dunque motivato dalla percezione di un ricorso strumentale, e come tale subordinato ad altre considerazioni, del multilateralismo da parte di Pechino. Questo potrebbe rendere più difficile compiere un percorso condiviso di riforma dell’ordine (comunque meno accidentato se si dipana in un contesto multilaterale), e crea naturalmente preoccupazioni circa il suo sbocco. Il senso dell’iniziativa, lanciata di recente da Francia e Germania, denominata The Alliance for Multilateralism[56] è di tenere alta la guardia sulla dimensione più importante e sfidante del multilateralismo, quella alla quale si affida la funzione di far crescere la fiducia tra paesi e nei rispettivi cittadini. Ciò è possibile soltanto attraverso una politica internazionale che risponda davvero alle loro sempre più pressanti domande. Costoro, dal confronto tra i grandi sulla base di una logica di potenza, davvero non hanno nulla da guadagnare e moltissimo da perdere in termini di qualità della vita presente e futura.

[1] Questo quesito è al centro della riflessione di uno dei maggiori studiosi dell’ordine liberale, G. John Ikenberry del quale si veda, per una riflessione organica sull’ordine e la sua crisi, Leviatano liberale. Le origini, la crisi e la trasformazione dellordine mondiale americano, trad. it. Antonio Zotti (Torino: Utet, 2013).

[2] La AIIB costituirà il caso di studio, proposto nella seconda parte del saggio.

[3] Si veda: Council of the European Union, “Joint Statement of the 20th EU-China Summit”, 16 luglio 2018, disponibile all’Url https://www.consilium.europa.eu/media/36165/final-eu-cn-joint-statement-consolidated-text-with-climate-change-clean-energy-annex.pdf. Nella dichiarazione conclusiva del summit l’impegno condiviso per il multilateralismo viene ribadito per ben sei volte in sei pagine.

[4] European Commission and HR/VP contribution to the European Council, EU-China – A Strategic Outlook, 12 marzo 2019, 1, disponibile all’Url https://ec.europa.eu/commission/sites/beta-political/files/communication-eu-china-a-strategic-outlook.pdf.

[5] Nella variante del “multilateralismo efficace”, attraverso un documento formale: la European Security Strategy. A Secure Europe in a Better World, disponibile all’Url https://www.consilium.europa.eu/media/30823/qc7809568enc.pdf.

[6] Nella filosofia di sicurezza dell’amministrazione Trump, infatti, un unilateralismo “di principio” si fonde con la convinzione che nel disordine, chi ha potere – gli Stati Uniti più di tutti – prosperi. Questa convinzione è stata colta con ineguagliata efficacia da Robert Kagan che, per spiegare l’insanabile divergenza tra America ed Europa nel post 11 settembre, sottolineava come «le grandi potenze […] spesso temono le norme restrittive più dell’anarchia, perché in un mondo anarchico la loro forza è garanzia di sicurezza e benessere», Robert Kagan, Paradiso e potere, trad. it. Carla Lazzari (Milano: Mondadori, 2003), 42.

[7] La retorica promossa dagli Stati Uniti in questa fase è che la Cina sia una potenza revisionista – per l’ampiezza dei fini e l’incisività dei mezzi impiegati per realizzarli – in un contesto di competizione per il potere. Pechino pone dunque una sfida, secondo questa interpretazione, alla quale è razionale far fronte con una strategia mista composta da bilanciamento (magari off-shore, per ridurre le spese) e contenimento. L’engagement, che fa leva soprattutto sulla socializzazione attraverso le istituzioni, non rientra nel repertorio preso in considerazione. La prevalenza di una visione del mondo realista nell’interpretare le dinamiche regionali in Asia è ciò che lamenta, d’altra parte, Zha Daojiong nel suo contributo a questo numero di OrizzonteCina. Ciò, in effetti, spinge a replicare una storia già vista, dove sfuggire all’antagonismo consentirebbe sviluppi piuttosto costruttivi.

[8] Tommaso Padoa-Schioppa, Europa, forza gentile (Bologna: Il Mulino, 2001).

[9] Si veda: John G. Ruggie, “Multilateralism: The Anatomy of an Institution”, International Organization 46 (1992) 3: 561-598. L’autore qui correttamente definisce il multilateralismo una “forma istituzionale estremamente impegnativa” proprio per queste sue caratteristiche (p. 572). Molta parte della letteratura liberal-istituzionalista fa riferimento alla capacità delle organizzazioni internazionali non soltanto di facilitare la cooperazione, ma di renderla trasformativa.

[10] In condizioni di interdipendenza è spesso saggio agire sulla base di un principio di solidarietà, ma naturalmente i fautori del comunitarismo sono anche fautori del decoupling, della rescissione dei legami dei quali l’interdipendenza si nutre.

[11] Sembra aver perso fiducia in questa capacità dell’Europa l’Alto rappresentante Josep Borrell, “Embracing Europe’s power”, Project Syndicate, 8 febbraio 2020, disponibile all’Url https://www.project-syndicate.org/commentary/embracing-europe-s-power-by-josep-borrell-2020-02.

[12] Ian Clark, La legittimità nella società internazionale, trad. it. Giovanni B. Andornino (Milano: Vita e Pensiero, 2008).

[13] Vincent Pouliot, “Multilateralism as an end in itself”, International Studies Perspectives 12 (2011) 1: 18-26.

[14] Accanto alla AIIB, si cita spesso quale istituzione multilaterale voluta da potenze emergenti l’Organizzazione di cooperazione di Shanghai (Shanghai Cooperation Organization, SCO), varata nel 2001 dopo un’esperienza più informale, denominata Gruppo di Shanghai o Shanghai Five, durata un lustro. Un’evoluzione che testimonierebbe il riconoscimento del valore dell’istituzionalizzazione da parte di questi ultimi.

[15] I due accordi di libero scambio multilaterali, l’erede del TPP senza gli Stati Uniti, cioè il Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTPP), siglato da 11 paesi nel 2018, e l’African Continental Free Trade Area, conclusa da 54 dei 55 paesi africani, anche questo nel 2018.

[16] G. John Ikenberry e Darren J. Lim, China‘s emerging institutional statecraft: the Asian Infrastructure Investment Bank and the prospects for counter-hegemony (Washington, D.C.: Brookings, 2017).

[17] Magari passando per l’institutional balancing, cioè il controbilanciamento attraverso la costruzione di istituzioni piuttosto che l’incremento del potere materiale posseduto. Si veda Feng Huyiun e He Kai, “China’s institutional challenges to the international order”, Strategic Studies Quarterly 11 (2017) 4: 23-49.

[18] Chen Zhimin, “China, the European Union and the fragile world order”, Journal of Common Market Studies 54 (2016) 4:  775-792, 781 e seguenti

[19] Shiping Tang, “The future of international order(s)”, The Washington Quarterly 41 (2018) 4: 117-131.

[20] Emilian Kavalski, “The struggle for recognition of normative powers: normative power Europe and normative power China in context”, Cooperation and Conflict 48 (2013) 2: 247-267.

[21] Anna Caffarena, “Diversity management in world politics: reformist China and the future of the (liberal) order”, The International Spectator 52 (2017) 3: 1-17.

[22] European Commission and HR/VP contribution to the European Council, EU-China – A Strategic Outlook, 12 marzo 2019, 1, disponibile all’Url https://ec.europa.eu/commission/sites/beta-political/files/communication-eu-china-a-strategic-outlook.pdf.

[23] Ad oggi, gli Stati membri dell’Ue e dell’Associazione Europea di libero scambio sono 23, con una percentuale complessiva di diritti di voto pari a circa il 23%. Diciassette di questi sono anche membri fondatori. I paesi europei che in realtà hanno una vera “voce” nella Banca sono Francia, Germania, Italia e Regno Unito: insieme, questi paesi controllano quasi il 14% del capitale, e circa il 13% dei diritti di voto. Fonte disponibile all’Url https://www.aiib.org/en/about-aiib/governance/members-of-bank/index.html.

[24] France Diplomatie, “France, Italy and Germany announce their intention to become founding members of the AIIB”, 17 marzo 2015, disponibile all’Url https://www.diplomatie.gouv.fr/en/french-foreign-policy/economic-diplomacy-foreign-trade/news/article/asian-infrastructure-investment.

[25] Ministero dell’Economia e delle Finanze, “Italia, Francia e Germania intendono diventare membri fondatori di AIIB”, Comunicato Stampa n. 61, 17 marzo 2015, disponibile all’Url http://www.mef.gov.it/ufficio-stampa/comunicati/2015/Italia-Francia-e-Germania-intendono-diventare-membri-fondatori-di-AIIB/.

[26] HM Treasury, “UK announces plans to join Asian Infrastructure Investment Bank”, 12 marzo 2015, disponibile all’Url https://www.gov.uk/government/news/uk-announces-plans-to-join-asian-infrastructure-investment-bank.

[27] Jane Perlez, “U.S. opposing China’s answer to World Bank”, New York Times, 9 October 2014, disponibile all’Url https://www.nytimes.com/2014/10/10/world/asia/chinas-plan-for-regional-development-bank-runs-into-us-opposition.html.

[28] Qualcuno ha definito l’AIIB come esempio perfetto di complementarietà tra il savoir-faire industriale e finanziario dell’Europa e le necessità infrastrutturali dell’Asia: Françoise Nicolas e Jean-François Di Meglio, “Les raisons du raillement Européen à la Banque Chinoise concurrente de la Banque Mondiale”, Atlantico, 18 marzo 2015, disponibile all’Url https://www.atlantico.fr/decryptage/2045013/les-raisons-du-ralliement-europeen-a-la-banque-chinoise-concurrente-de-la-banque-mondiale-francoise-nicolas-jean-francois-di-meglio.

[29] Commissione Europea, “Engaging China at a time of transition”, European Political Strategy Center Strategic Notes no. 16, 15 maggio 2016, disponibile all’Url https://ec.europa.eu/epsc/sites/epsc/files/strategic_note_issue_16.pdf.

[30] Angela Stanzel, “A German view of the Asian Infrastructure Investment Bank”, European Council on Foreign Relations, 21 aprile 2017, disponibile all’Url  https://www.ecfr.eu/article/commentary_a_german_view_of_the_aiib_7275.

[31] Giuseppe Gabusi, “«Crossing the River by feeling the gold»: the Asian Infrastructure Investment Bank and the financial support to the Belt and Road initiative”, China & World Economy 25 (2017) 5: 23-45.

[32] AIIB, “AIIB reaches new milestone by pricing debut global bond to unlock financing for infrastructure”, 9 maggio 2019, disponibile all’Url: https://www.aiib.org/en/news-events/news/2019/20190509_001.html.

[33] Françoise Nicolas e Jean-François Di Meglio, “Les raisons du raillement Européen à la Banque chinoise concurrente de la Banque mondiale”, Atlantico, 18 marzo 2015, disponibile all’Url https://www.atlantico.fr/decryptage/2045013/les-raisons-du-ralliement-europeen-a-la-banque-chinoise-concurrente-de-la-banque-mondiale-francoise-nicolas-jean-francois-di-meglio.

[34] Yan Tsung-Yen Chen, “European participation in the Asian Infrastructure Investment Bank: making strategic choice and seeking economic opportunities”, Asia Europe Journal 16 (2018) 4: 297-315.

[35] Gregory T. Chin, “True Revisionist: China and the Global Monetary System”, in Chinas Global Engagement: Cooperation, Competition and Influence in the Twenty-first Century, a cura di Jacques deLisle e Avery Goldstein (Washington, DC: Brookings Institution Press, 2017), 35-66.

[36] AIIB, Articles of Agreement, 2015, disponibile all’Url https://www.aiib.org/en/about-aiib/basic-documents/articles-of-agreement/index.html.

[37] France Diplomatie, “Economic diplomacy – France joins the Asian Infrastructure Investment Bank”, 16 giugno 2016, disponibile all’Url https://www.diplomatie.gouv.fr/en/french-foreign-policy/economic-diplomacy-foreign-trade/news/article/economic-diplomacy-france-joins-the-asian-infrastructure-investment-bank-16-06. Federal Ministry of Finance, “Asian Infrastructure Investment Bank achieves major milestones in its first three years”, 3 aprile 2019, disponibile all’Url https://www.bundesfinanzministerium.de/Content/EN/Standardartikel/Topics/Financial_markets/Articles/2019-04-03-AIIB-milestones.html.

[38] Federal Ministry of Finance, “Asian Infrastructure Investment Bank achieves major milestones in its first three years”, 3 aprile 2019, disponibile all’Url https://www.bundesfinanzministerium.de/Content/EN/Standardartikel/Topics/Financial_markets/Articles/2019-04-03-AIIB-milestones.html.

[39] HM Treasury, “UK signs founding articles of the Agreement of the Asian Infrastructure Bank”, 29 giugno 2015, disponibile all’Url https://www.gov.uk/government/news/uk-signs-founding-articles-of-agreement-of-the-asian-infrastructure-investment-bank.

[40] Fleur Huijskens, Richard Turcsanyi, e Balazs Ujivari, “The EU in the AIIB: taming China’s influence from within”, Security Policy Brief 86 (maggio 2017), disponibile all’Url http://www.egmontinstitute.be/the-eu-in-the-aiib-taming-chinas-influence-from-within/.

[41] Angela Stanzel, “A German view of the Asian Infrastructure Investment Bank”, European Council on Foreign Relations, 21 aprile 2017, disponibile all’Url  https://www.ecfr.eu/article/commentary_a_german_view_of_the_aiib_7275.

[42] “Ciò che sorprese molti fu il mio passaporto americano, considerata l’assenza degli Stati Uniti dalla scena; altri presero ciò come indicazione iniziale della preferenza dell’AIIB per le doti tecniche e per il reclutamento scevro da considerazioni in base alla nazionalità”, da Nathalie Lichtenstein, A comparative guide to the Asian Infrastructure Investment Bank (Oxford: Oxford University Press, 2018), 3.

[43] Nathalie Lichtenstein, A comparative guide to the Asian Infrastructure Investment Bank (Oxford: Oxford University Press, 2018); Nathalie Lichtenstein, “AIIB at three: A comparative and institutional perspective”, Global Policy 10 (2019) 4: 582-586, disponibile all’Url https://onlinelibrary.wiley.com/doi/epdf/10.1111/1758-5899.12703

[44] Gregory T. Chin, “The Asian Infrastructure Investment Bank – New Multilateralism: early development, innovation, and future agendas”, Global Policy 10 (2019) 4: 569-581; Jiejin Zhu, “Is the AIIB a China-controlled bank? China’s evolving multilateralism in three dimensions (3D)”, Global Policy, 10 (2019) 4: 653-659.

[45] Ricardo Bustillo e Maiza Andoni, “China, the EU and multilateralism: the Asian Infrastructure Investment Bank”, Revista Brasileira de Política Internacional 61 (2018) 1, disponibile all’Url http://www.scielo.br/scielo.php?script=sci_arttext&pid=S0034-73292018000100207.

[46] Una delle voci più critiche al riguardo è quella di Sam Parker, Debtbook diplomacy: Chinas strategic leveraging of its newfound economic influence and the consequences for U.S. foreign policy (Cambridge: Belfer Center for Science and international affairs/Harvard Kennedy School, 2018), disponibile all’Url https://www.belfercenter.org/sites/default/files/files/publication/Debtbook%20Diplomacy%20PDF.pdf.

[47] International Development Assistance, Debt vulnerability in IDA countries, 2018, disponibile all’Url http://documents.worldbank.org/curated/en/896041540087366658/pdf/debt-vulnerabilities-in-ida-countries-10042018-636756697620872725.pdf.

[48] AIIB, Policy on prohibited practices, disponibile all’Url https://www.aiib.org/en/policies-strategies/operational-policies/prohibited-practices.html; Nathalie Lichtenstein, A comparative guide to the Asian Infrastructure Investment Bank (Oxford: Oxford University Press, 2018).

[49] Ibid.

[50] AIIB, Procurement policy, 2016, disponibile all’Url https://www.aiib.org/en/policies-strategies/procurement-policies/procurement-policy.html.

[51] AIIB, Environmental and Social Framework, 2019, disponibile all’Url https://www.aiib.org/en/policies-strategies/framework-agreements/environmental-social-framework.html.

[52] Ciò ha suscitato l’ira del mondo ambientalista europeo. Si veda per esempio: Korinna Horta, The Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB): A Multilateral Bank where China sets the rules, Heinrich Böll Stiftung Publication Series on Democracy vol. 52, edited by the Heinrich Böll Foundation in cooperation with Urgerwald (Berlino 2019), disponibile all’Url https://www.boell.de/sites/default/files/boell_aiib_studie_0.pdf?dimension1=division_as. Germanwatch, Aligning the Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB) with the Paris Agreement and the SDGs: Challenges and opportunities, [online] (Berlino: Germanwatch, 2019), disponibile all’Url https://germanwatch.org/sites/germanwatch.org/files/AIIB_Report_web_0.pdf.

[53] William Laurence, “Why scientists fear the AIIB”, China Dialogue, 11 luglio 2018, disponibile all’Url https://www.chinadialogue.net/blog/10726-Why-scientists-fear-the-AIIB/en.

[54] AIIB, “AIIB makes first investment in Russia with USD500-M transport project”, 12 dicembre 2019, disponibile all’Url https://www.aiib.org/en/news-events/news/2019/20191212_001.html.

[55] Reuters, “UPDATE-1-China-backed AIIB approves its first $500mln loan to Russia”, 12 dicembre 2019, disponibile all’Url https://www.reuters.com/article/russia-aiib/update-1-china-backed-aiib-approves-its-first-500-mln-loan-to-russia-idINL8N28M2GE.

[56] L’Alleanza, che ha naturalmente soprattutto una valenza in termini di discorso pubblico, è presentata attraverso https://multilateralism.org/.  A ulteriore testimonianza di ciò che si diceva in apertura, il dominio Internet era libero al momento della nascita di questo network promosso, nell’aprile 2019, dai Ministri degli esteri di Francia e Germania.

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