[CINESITALIANI] Dai cinesi "in rivolta" di Sesto Fiorentino ai cinesi "in soccorso" dei terremotati di Amatrice. Tappe di un dialogo difficile ma necessario

San Donnino, Campi Bisenzio, Osmannoro, Sesto Fiorentino: sono luoghi che scandiscono lo sviluppo storico dell’insediamento di immigrati cinesi nell’area fiorentina a cavallo degli anni Ottanta e Novanta, prefigurando lo sviluppo ulteriore nell’area pratese. La crisi del tradizionale settore della lavorazione artigianale della pelle, che neppure il ricorso al lavoro a domicilio (in nero) di un centinaio di donne fiorentine riusciva più a contrastare, creò le premesse per l’inserimento nell’economia di distretto dei primi lavoratori cinesi (1). Uomini e donne sotto i trent’anni, gravati dagli importanti debiti sostenuti dalle famiglie per consentire loro di lasciare la Cina e di raggiungere l’Italia, ma anche fortemente motivati al successo di un progetto migratorio tutto incentrato sull’impresa familiare, riuscirono presto a colmare i vuoti e a rendere ancora sostenibili lavorazioni che la globalizzazione aveva inesorabilmente condannato a scomparire. Lo fecero alle condizioni di coloro che agevolarono questo insediamento: lavorando in conto terzi per committenti italiani, in capannoni affittati loro a caro prezzo da proprietari o subaffittuari italiani (e, col tempo, anche cinesi), procurandosi macchinari, accessori, manutenzione e minuteria metallica da un indotto, allora tutto italiano, che senza il loro apporto sarebbe collassato completamente. Contrariamente a un luogo comune duro a morire, non importarono dalla Cina “un certo loro modo di lavorare”: quasi nessuno di loro, prima di emigrare, aveva mai lavorato in un laboratorio artigiano, né era stato titolare di un’impresa manifatturiera. Provenienti da piccoli borghi e villaggi di montagna, avevano lavorato nell’economia agricola e commerciale tipica della provincia cinese profonda, ai margini del boom economico della metropoli più vicina, Wenzhou, nel Zhejiang meridionale. Tanto chi lavorasse per imprese statali quanto chi gestisse negozietti di paese era abituato a ritmi di lavoro assai placidi, per non parlare di coloro, e all’epoca erano ancora tanti, che lavoravano nei campi. Niente li aveva preparati a vivere chiusi in un capannone affollato insieme ad altre famiglie, a lavorare anche più di tredici ore al giorno per guadagni modesti e in gran parte assorbiti dalle spese dell’affitto, dai debiti da ripagare, dall’investimento costante nella propria rete di relazioni (partecipare a matrimoni, aiutare famigliari e amici a mettersi in proprio, gestire un’emergenza famigliare in Cina o in Italia, ecc.). Per questo molti di loro impiegheranno anni per uscire dal manifatturiero e rigenerarsi nel settore dei servizi, dove le competenze richieste sono sovente più elevate, ma lo sono anche i margini di profitto.
Sono passati trent’anni, ma la sostanza resta: i cinesi d’Italia che lavorano nel manifatturiero non impongono le proprie regole, il proprio modo di lavorare, la propria filosofia di vita a un contesto locale di cui espropriano identità e consuetudini economiche. Quello che invece avviene, da trent’anni a questa parte, è che si adeguano a regole del gioco stabilite da altri. Inizialmente soprattutto da italiani, oggi anche da quei (pochi) cinesi che in quel settore hanno fatto fortuna e messo, per così dire, radici. Certo, queste “regole” sono un po’ diverse da quelle invocate con fervore dai rappresentanti delle istituzioni locali, dei sindacati, delle forze dell’ordine, quando assicurano fermamente che “non saranno tollerate zone franche”. Si impara, per esempio, che per riuscire a stare a galla in un distretto manifatturiero che affonda, occorre ridurre al minimo tutte le spese accessorie di un’impresa, anche se significa restare per l’intero inverno senza riscaldamento. Oppure che per potersi assicurare una commessa di lavoro giocata al ribasso senza alcuna remora da chi minaccia di rivolgersi ad altri alla prima obiezione, bisogna attrezzarsi per poter sfruttare al massimo il lavoro proprio e dei propri famigliari, magari dichiarando al fisco il meno possibile. O ancora che senza una lettera di un avvocato certi committenti non ti pagano proprio. E magari anche che certi controlli, in particolare quelli cui inevitabilmente seguirebbero multe salate, perché in un laboratorio artigiano a cercar bene qualcosa che non va lo si trova sempre, le si evita solo allungando bustarelle a chi li esegue. Passano gli anni, passano i decenni: il mestiere lo si impara, alcuni riescono perfino a rinnovarlo. I complessi raccordi tra economia europea, italiana, cinese finiscono per rendere possibili fenomeni nuovi – e controversi – come il pronto moda “cinese” di Prato, dove imprenditori cinesi riescono finalmente a gestire in proprio molti degli snodi-chiave della filiera, invece di essere relegati ai suoi livelli più subalterni e vulnerabili. La crisi dei settori tessile e pellettiero nell’area fiorentina e pratese perdura, ma i cinesi, anche a prezzo di duri sacrifici, se la cavano. Man mano che cresce il numero di lavoratori e imprenditori italiani costretti ad abbandonare il settore, e si restringono le file di chi dal lavoro dei cinesi trae guadagno o maggiore competitività a livello nazionale e internazionale, ecco che questi ultimi diventano il facile bersaglio dell’invidia sociale, ma anche l’utile capro espiatorio per imprenditori e politici che non riescono più – o meglio, non riescono ancora – a vederli davvero come membri della loro constituency politica. E che, in compenso, possono trarre preziosi consensi da dichiarazioni che nelle “fortune” dei lavoratori cinesi individuano non un sintomo, ma piuttosto una concausa della crisi.
La rivolta di Sesto Fiorentino, in un assolato pomeriggio di fine giugno scorso, pare sia stata innescata da un alterco tra esponenti delle istituzioni e cittadini cinesi presenti in un capannone soggetto a un controllo di routine da parte dell’Asl. L’arrivo sul posto di un numero crescente di cittadini cinesi (circa 300 persone), allertati via WeChat, e il conseguente spiegamento di forze di polizia in assetto antisommossa, hanno presto generato una situazione di forte tensione, che inutilmente il sopraggiungere sul luogo di soggetti esperti, in grado di mediare sul piano linguistico tra le parti, ha tentato di allentare. Ne sono risultati tumulti e scontri che sono proseguiti per diverse ore e che si sono lasciati alle spalle il consueto strascico di contusi e di polemiche sulla propensione cinese a non rispettare “le regole”. Quelle regole che in gran parte del manifatturiero italiano, soprattutto laddove si impiega forza lavoro di origine straniera, quasi nessuno rispetta. Da decenni. È questa la vera ragione della rabbia dei cinesi di Sesto Fiorentino, dell’Osmannoro, di Campi Bisenzio, di Prato: la sensazione di non trovare nelle istituzioni, nelle forze di polizia, negli stessi sindacati, degli interlocutori credibili, ma un atteggiamento di ipocrita condiscendenza e di peloso pregiudizio, in cui ogni tentativo di confronto serio inevitabilmente sprofonda.
Salvo poi ritrovare le stesse istituzioni spiazzate dalle iniziative che i medesimi cinesi mettono in campo per ribadire la loro disponibilità a farsi parte attiva e solidale della società cui contribuiscono da decenni con il proprio lavoro, con i propri consumi, con i propri investimenti. In questi ultimi mesi le diverse associazioni imprenditoriali cinesi di molte città italiane hanno raccolto quasi 200.000 euro per soccorrere le vittime del terremoto che in agosto ha colpito il centro Italia. Circa 90.000 euro la cifra record offerta dai cinesi di Milano, 22.000 euro il contributo dei cinesi di Napoli, oltre 14.000 euro quelli raccolti dai cinesi di Bologna. E a Firenze? Il 28 settembre scorso un assegno da 46.320 euro, frutto delle donazioni di sei associazioni cinesi locali, è stato consegnato dal console generale della Repubblica popolare cinese a Firenze Wang Fuguo alla vicepresidente della Regione Toscana Monica Barni e all’assessore alla Protezione civile Federica Fratoni, alla presenza dei vicesindaci di Firenze e di Prato. Il console Wang ha spiegato che “per la comunità cinese immigrata, l’Italia è il secondo paese. Quindi tutto quello che succede qua ci coinvolge e ci riguarda. Il contributo che abbiamo raccolto vuole mostrare il nostro amore per l’Italia e la nostra amicizia per il popolo italiano. Speriamo, in questo modo, di poter essere un aiuto utile alle popolazioni colpite”. Nelle difficili relazioni tra istituzioni locali e residenti cinesi di Firenze e Prato, questa potrebbe essere una buona occasione per voltare pagina. La buona volontà non manca, occorre forse un po’ più di onestà nel riconoscere le rispettive responsabilità nell’incerto e claudicante modus convivendi che si è costruito in un territorio che ha visto avvicendarsi ormai due generazioni di immigrati cinesi.
(1) Sull’insediamento dei laboratori manifatturieri cinesi nel contesto fiorentino e pratese, cfr. Anna Marsden, Cinesi e fiorentini a confronto (Firenze: Firenze Libri, 1994); Massimo Colombo, Corrado Marcetti, Maria Omodeo e Nicola Solimano, Wenzhou-Firenze. Identità, imprese e modalità di insediamento dei cinesi in Toscana (Firenze: Angelo Pontecorboli, 1995); L’imprenditoria cinese nel distretto industriale di Prato, a cura di Matteo Colombi (Firenze: Leo S. Olschki, 2002); Migranti a Prato. Il distretto tessile multietnico, a cura di Antonella Ceccagno (Milano: Franco Angeli, 2003); Oltre ogni muro. I cinesi di Prato, a cura di Graeme Johanson et al. (Pisa: Pacini, 2010).

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