Il Sudest asiatico in trasformazione: politica, economia e relazioni internazionali

Raccolta RISE (2016-2018)

IntroduzIone
di Giuseppe Gabusi (T.wai & Università degli Studi di Torino) e Gabriele Giovannini (T.wai & Università degli Studi di Torino)

 

Il Sud-est asiatico contemporaneo ha sempre goduto di scarsa attenzione nel panorama accademico italiano. Con la lodevole eccezione dell’Università di Napoli-L’Orientale (e non prendendo in considerazione le linee di ricerca di singoli ricercatori), in Italia non si è mai radicata una tradizione di studi sulla regione. Forse perché il nostro Paese non ha avuto – a differenza di Francia o Regno Unito – forti interessi coloniali nell’area, nemmeno la pubblica opinione ha mai nutrito grande curiosità verso la politica, l’economia e le relazioni internazionali dei dieci Paesi che oggi danno vita all’Associazione delle Nazioni del Sudest asiatico (ASEAN), ovvero Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Singapore, Thailandia e Vietnam. Trascorsi i momenti in cui la storia con la S maiuscola attraversa questo spicchio di mondo (possiamo ricordare la guerra statunitense in Vietnam, l’intervento delle Nazioni Unite in Cambogia, la vittoria della Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi in Myanmar), il racconto degli eventi nel Sud-est asiatico è relegato, sulla stampa, a brevi trafiletti o, in televisione, a poche immagini commentate da studio. Fu questa constatazione a convincere chi scrive a fondare nel 2016 RISE, la rivista trimestrale pubblicata da T.wai, il Torino World Affairs Institute, e interamente dedicata, appunto, all’analisi delle dinamiche politiche, economiche e anche sociali lato sensu dei Paesi ASEAN.

Alternando numeri tematici a numeri dedicati all’osservazione di un singolo Paese, RISE cerca di tenere viva l’attenzione su un’area sempre più cruciale per i destini del mondo. Per comprenderne l’importanza occorre osservare con continuità le trasformazioni in atto, al di là del fugace e sporadico spazio mediatico dedicato ai macroeventi. È infatti chiaro come, in uno spazio che registra una tensione evidente tra Pechino e Washington per l’influenza politica e il controllo economico, il Sud-est asiatico sia diventato il terreno privilegiato sul quale indagare quale percorso seguirà l’intera regione dell’Asia-Pacifico. Questi Paesi sono legati economicamente, attraverso le catene globali del valore e la fornitura di materie prime, alla Cina, ma spesso – non fidandosi completamente delle intenzioni di quest’ultima – cercano una sponda strategica negli Stati Uniti. In un momento quindi in cui gli Stati Uniti di Trump sembrano disinteressarsi dell’Asia orientale (salvo pattugliare il Mar Cinese Meridionale e scagliarsi contro la postura mercantilistica della Cina) mentre Pechino propone su scala globale una Nuova Via della Seta, questo esercizio d’equilibrio diviene sempre più difficile, senza contare il fatto che il quadro risulta ancora più complesso se si considera che la regione calamita gli interessi di tutti i principali attori regionali a partire da India, Giappone e Corea del Sud fino a Russia e Australia. L’asimmetria di potere degli stati dell’area, singolarmente presi, e le due grandi potenze, potrebbe essere ridotta qualora l’ASEAN in quanto organizzazione fosse più coesa e meglio in grado di incidere sulle dinamiche in atto, ma in Asia sudorientale non si è mai innescato un processo di integrazione simile a quello dell’Unione Europea.

Stiamo parlando, in effetti, di Paesi con sistemi politici molto diversi, alcuni a partito unico come il Vietnam o il Laos, altri democratici con libere elezioni quali la Malaysia, l’Indonesia e le Filippine, altri ancora in perenne condizione fortemente dialettica tra militari e civili (Thailandia e Myanmar). Non c’è dubbio che, mentre fino a qualche anno fa la regione sembrava avviata a una trasformazione democratica in senso liberale, oggi i segnali vanno nella direzione opposta, con evidenze di spinte autoritarie di singoli governi, che si manifestano anche attraverso restrizioni delle libertà civili.

Dal punto di vista economico, i Paesi ASEAN registrano nel complesso una crescita elevata, anche se al suo interno la grande ricchezza di Singapore (ai primi posti della classifica mondiale in termini di PIL pro capite) convive con la povertà di Laos, Cambogia e Myanmar. Non poteva essere diversamente: collocate geograficamente al sud della Cina, le economie del Sud-est asiatico hanno beneficiato del suo straordinario sviluppo degli ultimi quarant’anni, inserendosi a pieno titolo – soprattutto attraverso gli investimenti diretti esteri e la produzione di componentistica industriale – negli ingranaggi della “fabbrica del mondo”, termine con cui negli ultimi anni è stata definita la Repubblica Popolare Cinese. Inoltre, tutta la regione è stata coinvolta in una frenetica attività di negoziazione di accordi di libero scambio, sia su scala bilaterale intra-regionale (quale l’accordo tra ASEAN e Cina) o transregionale (ad esempio, l’accordo tra Unione Europea e Singapore), sia sul piano multilaterale (la Regional Comprehensive Strategic Partnership, o la Comprehensive and Progressive Trans-Pacific Partnership). La stessa ASEAN ha dato vita all’ASEAN Economic Community. Anche in questo caso, davanti alla ritirata statunitense dagli accordi commerciali multilaterali, sembra che l’Asia orientale sia alla ricerca di una nuova configurazione dei regimi commerciali internazionali che tenga conto dello spostamento ad est del baricentro economico globale. La rapida crescita economica che ha accompagnato la transizione, in molte aree di questi Paesi, da un’economia agraria a un’economia industriale non è stata ovviamente priva di costi, il più delle volte sopportati dalla classe lavoratrice – in termini di bassi salari e difficili condizioni di lavoro. Infine, non mancano sacche di illegalità difficili da estirpare perché in grado di generare enormi profitti, siano esse il frutto di attività lecite ma sommerse (quali il commercio delle pietre preziose o della giada) o di business illeciti (tipicamente, la produzione e il traffico di droghe naturali o sintetiche).

Tutto ciò rende il quadro del Sud-est asiatico contemporaneo estremamente ricco e affascinante, come emerge da questa raccolta dei migliori articoli pubblicati in tre anni (2016-2018) all’interno della rivista RISE. Presentarli in questa sede significa offrire al lettore una nuova opportunità di soffermarsi, in maniera trasversale ai temi e ai Paesi, su quattro dimensioni: le relazioni internazionali, la politica, l’economia, e la percezione della presenza cinese nel Sud-est asiatico. Si noterà allora una certa coerenza dei fenomeni analizzati, che rendono la regione attraversata da identiche spinte trasformatrici, e pertanto caratterizzata da una sua identità distintiva. Come emblema delle difficoltà dei processi di costruzione dello stato, abbiamo scelto di dedicare anche una sezione ai conflitti etnici in Myanmar, un Paese a cui alcuni ricercatori di T.wai prestano da anni speciale attenzione.

La prima sezione racchiude le molteplici dinamiche di cui si è appena accennato sia attraverso approfondimenti sulle relazioni internazionali tout court di alcuni Paesi chiave come Indonesia e Thailandia, sia indagando i principali dossier all’interno delle relazioni bilaterali, regionali o globali. La politica internazionale del Myanmar, ad esempio, viene illuminata isolando i nessi tra transizione politica e i legami con Pechino, tra gli investimenti cinesi e le dinamiche di connettività regionale, tra la questione dei Rohingya e i rapporti con un altro attore cruciale della regione come la Malaysia. Grande attenzione è poi dedicata a due temi cruciali quali risorse naturali e commercio. Unitamente ad un’analisi sulla competizione per le risorse nel Mar Cinese Meridionale, trova spazio un tema meno popolare ma non meno rilevante come la gestione delle acque del Mekong. Ci si sofferma infine sull’ordine commerciale regionale successivo al passo indietro di Washington dalla Trans-Pacific Partnership e il legame dialettico tra integrazione e competizione. La sezione permette dunque sia di avere il polso della situazione sui maggiori dossier e attori della politica internazionale del Sud-est asiatico, sia di approcciare temi altrettanto complessi ma nettamente meno conosciuti.

La seconda sezione evidenzia alcune delle principali criticità che tuttora connotano i sistemi politici di questi Paesi, accomunati, come si ricordava, da un recente passato coloniale, eccezion fatta per la Thailandia. I contributi di Masina e Gaspari sottolineano le difficoltà del processo di democratizzazione che si scontra con la resistenza dei cosiddetti Asian values e le pressioni autoritarie e populistiche. Le analisi a firma di Camroux e Do Benoit sul Vietnam, Farrelly sul Myanmar e Sopranzetti sulla Thailandia, nonostante le grandi differenze che corrono tra questi tre Paesi, denotano come spinte e controspinte spesso riportino al punto di partenza determinando una situazione di immobilismo. Non poteva mancare un focus sul ruolo dell’Islam politico nel maggior Paese musulmano al mondo: l’Indonesia. Completano la sezione tre temi – diseguaglianza, minoranze etniche, migrazioni – che, seppure declinati nei contesti specifici dei Paesi in esame, rappresentano temi trasversali all’intera regione.

La terza sezione, dedicata all’economia, permette di cogliere al contempo la forte crescita dell’area e le sue fragilità. A una crescita del PIL di quasi cinque volte dal 2000, tuttora mediamente superiore al 5%, fanno da contraltare diseguaglianze difficili da superare, mercati del lavoro immaturi, processi riformistici completati solo parzialmente, aspettative talvolta troppo alte, modelli di sviluppo troppo dipendenti dalle risorse naturali.

La quarta sezione è dedicata alle trasformazioni in atto nel Myanmar, Paese che nel 2015 ha celebrato il ritorno alle libere elezioni e a un governo guidato da civili, malgrado le forze armate conservino le leve cruciali del potere politico ed economico. Il Myanmar costituisce un caso emblematico del dilemma tra libertà e sicurezza nel Sud-est asiatico che si pone in tutta la sua drammaticità in un contesto dove i confini nazionali sono spesso porosi ed è difficile controllare i flussi di merci e di persone, dove rinascono i fondamentalismi religiosi, e dove i processi di costruzione di un’identità nazionale devono fare i conti con la presenza di etnie diverse, alcune rivendicanti maggiore autonomia o addirittura l’indipendenza.

L’ultima sezione approfondisce il ruolo della Cina visto dai vari Paesi della regione, allungando lo sguardo anche oltre il Sud-est asiatico verso Australia, Nuova Zelanda, Giappone e India. Ne emerge una trama ricca e complessa in cui è difficile determinare in che punto il filo degli investimenti cambi colore per assumere le tonalità dell’influenza politica; dove quello della minoranza etnica cinese si intrecci a dinamiche interne della Repubblica Popolare o del Paese di destinazione trasformandosi, a seconda delle circostanze, in opportunità o minacce; quando quello sottile del pragmatismo rischi di diventare dipendenza; o in che misura tessitori esterni alle relazioni bilaterali con Pechino intervengano ricamando complessi disegni diplomatici.

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