GD – Quali sono le origini del conflitto civile in corso in Myanmar e qual è il peso del colpo di Stato del 2021 nella storia recente del Paese?
SR – Il Myanmar (o Birmania, secondo la sua precedente denominazione) è in una condizione di conflitto interno pressoché continuo dal periodo coloniale. Il golpe del 2021 si inserisce in questo quadro, peggiorandolo ulteriormente. Nel 2020 si tengono le elezioni generali, con la conferma della “National League for Democracy” (NLD), guidata da Aung San Suu Kyi, come prima forza politica del Paese. L’esercito birmano (il Tatmadaw) non accetta l’esito elettorale. Prima dell’insediamento del nuovo Parlamento, arresta il presidente in carica Win Myint e la stessa Aung San Suu Kyi, con capi di imputazione pretestuosi. Viene costituito un nuovo governo, denominato State Administration Council (SAC), con a capo il generale Min Aung Hlaing, già comandante in capo del Tatmadaw. Il SAC scioglie il Parlamento e procede a numerosi altri arresti, di parlamentari, leader politici e attivisti.
GD – Non è la prima volta che nel Paese avviene un golpe militare. Perché questa volta gli effetti sono diversi?
SR – Questa volta la società civile reagisce come mai aveva fatto prima. Nelle città principali scoppiano manifestazioni di massa, con migliaia di persone che chiedono il rispetto del risultato elettorale e il rilascio dei leader detenuti. La Spring Revolution, come viene definita, vede il coinvolgimento attivo di giovani e donne, che assumono un ruolo di primo piano nel movimento, sfidando norme sociali consolidate. I lavoratori del settore sanitario e i funzionari pubblici lanciano una campagna di disobbedienza civile, rifiutandosi di lavorare sotto il nuovo regime. Come risposta, la giunta militare dà il via a un’operazione di repressione sistematica, brutale e violenta, con migliaia di arresti e numerose esecuzioni sommarie.
GD – Al di là delle proteste di piazza della società civile, come si organizzano le forze di opposizione?
SR – Parlamentari eletti e figure politiche di spicco danno vita al National Unity Government (NUG), un governo di unità nazionale che opera in esilio. Il NUG si pone come obiettivo quello di riunire i gruppi di opposizione alla giunta militare, incluse le numerose formazioni a base etnica presenti nel Paese, e di ottenere riconoscimento e sostegno a livello internazionale. Allo stesso tempo, i manifestanti urbani, che hanno lasciato le città per sfuggire alla repressione, fondano le People’s Defence Forces (PDF) per organizzare operazioni militari in tutto il Paese. Il NUG attribuisce alle PDF il ruolo di loro “braccio armato”.
GD – Hai fatto riferimento alle formazioni etniche e al tentativo da parte del NUG di coordinarle contro la giunta militare.
SR – Si dice che nel Paese convivano 135 etnie, anche se il dato è di origine governativa e dunque poco affidabile. A una maggioranza di Bamar (che include circa il 70% della popolazione), si accompagna una pletora di minoranze, nessuna delle quali raggiunge il 10% della popolazione complessiva. I gruppi più numerosi sono i Karen, i Rakhine, gli Shan, i Mon, i Chin, i Kachin. Durante la loro occupazione, applicando il principio di divide et impera, gli inglesi hanno supportato alcune minoranze per indebolire la maggioranza bamar e poter governare e ciò, in alcuni casi, ha gettato le basi per la costituzione di istituzioni di auto-governo e di organizzazioni armate su base etnica (Ethnic Armed Organizations – EAO). Prima del golpe del 2021, si contavano circa una ventina di EAO, dalle più piccole, con poche centinaia di effettivi, alle più grandi con anche più di diecimila membri. Molti di questi gruppi hanno alternato, e alternano tutt’oggi, fasi di aperta ostilità nei confronti delle autorità birmane a momenti di relativa convivenza, “ricompensati” con un limitato riconoscimento delle forme di auto-governo da parte delle autorità centrali. Non sono inusuali scontri tra le stesse EAO, così come i casi di cooperazione tra governo ed EAO contro altre EAO. Non tutti gli eserciti etnici si riconoscono nell’agenda del NUG e l’obiettivo di riunirli sotto un’unica bandiera è piuttosto utopico.
GD – Qual è stata la reazione della comunità internazionale alla presa di potere da parte dei militari?
SR – Stati Uniti, Unione Europea e Nazioni Unite condannano il colpo di Stato, mentre Cina (primo importatore ed esportatore da e verso il Myanmar) e Russia evitano di stigmatizzarlo pubblicamente, richiamando i principi di sovranità e non-interferenza. Inizialmente, la Cina, pur riconoscendo la giunta militare, non ostacola le operazioni della resistenza ai suoi confini col Myanmar, tenendo un atteggiamento attendista. Anche l’India riconosce il governo dei militari e mantiene relazioni economiche regolari. I Paesi ASEAN (Association of Southeast Asian Nations) escludono Min Aung Hlaing e gli altri esponenti della giunta dai loro incontri istituzionali a partire dall’ottobre 2021, ma si tratta di una misura più simbolica che sostanziale, non avendo interrotto le relazioni col Paese.
GD – Quali sono stati i primi sviluppi del conflitto sul terreno?
SR – Dopo la repressione delle manifestazioni urbane pacifiche, queste si riorganizzano, in parte, in insurrezioni armate. Seguono, in rapida successione, la nascita delle PDF, quella di nuovi eserciti etnici contrapposti alla giunta, rotture di accordi di cessate-il-fuoco preesistenti tra le vecchie EAO e le autorità centrali, e lo strutturarsi di un coordinamento tra i diversi gruppi di insorti anti-SAC. Con il trascorrere dei mesi, questo fronte inizia a sottrarre territorio dal controllo militare. La risposta del Tatmadaw è quella tipica delle forze armate birmane: coltivazioni bruciate, distruzione di villaggi, evacuazioni forzate di civili, nonché un ampio ricorso all’aviazione e all’artiglieria, contando sulle armi provenienti non solo dalle proprie riserve, ma anche da Cina, Russia e India.
GD – Aviazione e artiglieria non sono, però, sufficienti alla giunta militare per avere ragione delle opposizioni, attive su più fronti e su terreni a loro più favorevoli.
SR – Proprio così. La cosiddetta “Operazione 1027” (ottobre 2023) segna l’inizio della seconda fase del conflitto ed è un punto di svolta: un’azione coordinata di diversi gruppi ribelli riesce a mobilitare 15.000 combattenti e infligge al Tatmadaw una serie di pesanti sconfitte, costringendolo a cedere ampie porzioni di territorio in tutte le borderlands (le aree che circondano le pianure centrali e il corso del fiume Irrawaddy), soprattutto negli Stati Shan e Rakhine. Al centro dell’operazione c’è la Three Brotherhood Alliance (3BA), un’alleanza composta da tre eserciti etnici: MNDAA e TNLA, presenti nello Shan nord-occidentale, e l’Arakan Army, operante nello Stato Rakhine, tutti in guerra aperta con il governo centrale da ben prima del 2021. In poche settimane, la 3BA conquista decine di basi militari e snodi logistici nello Shan settentrionale, dimostrando la vulnerabilità del Tatmadaw anche in aree tradizionalmente sotto il suo controllo. Questo successo ha un effetto moltiplicatore e spinge altre EAO e le PDF a lanciare operazioni parallele in diverse regioni del Paese. I ribelli conquistano altre basi militari e diverse città, strappando al controllo della giunta anche tratti di confine con la Cina.
GD – Questa rapida avanzata dei ribelli, soprattutto in prossimità dei suoi confini, innervosisce la Cina e determina un suo cambio di rotta rispetto al conflitto in Myanmar.
SR – La Cina inizia a esercitare forti pressioni per disinnescare le EAO più pericolose, a cominciare da quelle che compongono la 3BA. Ciò è dovuto ad almeno due ragioni: evitare l’anarchia in Myanmar, tutelando la stabilità alla frontiera comune; tutelare i propri investimenti economici nel Paese, primo tra tutti il corridoio che nelle intenzioni cinesi dovrebbe collegare lo Yunnan all’Oceano Indiano, consentendo alle proprie navi di raggiungere direttamente il Golfo del Bengala dal Mar delle Andamane, bypassando lo stretto di Malacca, controllato da Singapore. A questi elementi si aggiunge anche il fatto che il nord del Myanmar ospita numerosi centri di cyber-scamming, molti dei quali impiegano in modo coatto personale cinese, e che l’instabilità nella regione complica gli sforzi di Pechino per contrastare queste attività e proteggere i propri cittadini. 3BA e SAC accettano la mediazione cinese e si accordano per un cessate-il-fuoco relativo allo Stato Shan nel gennaio 2024.
GD – L’accordo non risolve tutte le difficoltà della giunta militare.
SR – In Rakhine, un altro esercito etnico, l’Arakan Army, prende il controllo di quasi tutto lo Stato, giungendo ad assediare la stessa capitale, Sittwe. Nel giugno del 2024, l’accordo tra 3BA e governo birmano entra in crisi: le tre organizzazioni riprendono gli attacchi, ottenendo una grande vittoria in agosto, la conquista di Lashio, importante città dello Shan settentrionale. Per far fronte alla difficile situazione, il Tatmadaw decide di far ricorso per la prima volta alla legge sulla coscrizione, vigente dal 2010, ma mai applicata prima. L’intenzione della giunta è reclutare 50-60.000 persone all’anno. Naturalmente la decisione genera molti casi di renitenza e di espatrio.
GD – La Cina non molla la presa con la 3BA.
SR – Le pressioni da parte cinese continuano, fino a quando, nel mese di novembre, uno dei membri della Three Brotherhood Alliance, l’MNDAA, prende pubblicamente le distanze dal NUG sottoscrivendo, due mesi dopo, un nuovo accordo di cessate-il-fuoco con la giunta militare, con la restituzione della città di Lashio. Siamo alla fase corrente del conflitto. Per proteggersi dal caos, la Cina accetta l’idea promossa dalla giunta di nuove elezioni: spera che esse possano aprire degli spazi per una de-escalation del conflitto.
GD – Di che tipo di elezioni parliamo?
SR – Di elezioni in primis limitate geograficamente, dato il controllo parziale che la giunta ha sul Paese: i seggi potranno aprirsi solo in centoquaranta delle più di trecento municipalità esistenti, trovandosi, le rimanenti, in aree fuori dal suo controllo. La giunta decide comunque di andare avanti, fissando la prima tornata elettorale il 28 dicembre, con ulteriori due fasi in gennaio. Alle elezioni non parteciperanno la NLD, né i due principali partiti etnici (rispettivamente Shan e Rakhine) che avevano ottenuto limitati, ma significativi successi nelle tornate elettorali precedenti. Il vincitore delle elezioni è di fatto già noto e sarà il partito costola dei militari, lo Union Solidarity and Development Party (USDP). Insomma: le elezioni non saranno competitive, e non saranno free and fair.
GD – Un po’ ti sei già espresso, ma che possibilità ci sono che le elezioni non si trasformino solo in una colossale operazione di maquillage?
SR – Secondo le previsioni più ottimistiche, le elezioni genereranno comunque un cambio di leadership, obbligando, ad esempio, il generale Min Aung Hlaing a scegliere una delle due cariche di vertice: presidente del Paese oppure capo delle forze armate. Le elezioni implicano anche la costituzione di un nuovo parlamento e di un nuovo governo. Il rinnovamento politico potrebbe aprire degli spiragli di negoziato con le opposizioni che al momento non si intravedono. C’è tuttavia anche chi vede le elezioni solo come un modo, da parte del Tatmadaw, di schedare gli attori dell’opposizione, classificarne i diversi orientamenti politici, per procedere successivamente a una repressione mirata, selettiva, chirurgica per così dire, evitando spargimenti di sangue indiscriminati per limitare le reazioni da parte della comunità internazionale.
GD – Dove ti collochi, tra gli ottimisti o i pessimisti? Non si tratta, in fondo, dell’ennesimo episodio, nella storia del Myanmar post-coloniale, di alternanza tra giunte militari e timidi processi di democratizzazione?
SR – Sicuramente ciò che è accaduto dal 2021 a oggi non può essere cancellato col colpo di spugna delle elezioni: ci sono stati 75.000 morti, tra militari e civili, con più di tre milioni di sfollati, sono stati eseguiti 30.000 arresti politici, con le condizioni di prigionia spesso associate a gravi violazioni dei diritti umani. Attualmente, la giunta militare esercita il proprio controllo soltanto sul circa il 20% del territorio birmano, che però include le città principali. Del restante 80%, metà è contesa tra SAC e ribelli, mentre l’altra metà non è nelle mani di un unico soggetto né di una coalizione solidamente favorevole al NUG, bensì di una costellazione di organizzazioni insurrezionali di cui solo una frazione è orientata in senso democratico. A prescindere dall’esito delle elezioni, dunque, avremo un Myanmar a governance frammentata, con un’area centrale soggetta a una forma di autoritarismo, magari ammorbidita, da parte dei militari, aree periferiche sottratte al controllo centrale, e zone contese dove è probabile una riproduzione di vecchie dinamiche attraverso le quali i militari e l’apparato civile che sta attorno ai militari cercheranno di riguadagnare terreno con tempistiche diluite, utilizzando accordi di cessate-il-fuoco con alcuni attori per concentrare le forze contro soggetti ritenuti più pericolosi.
GD – Cosa resterà del NUG e del progetto di governo federale?
SR – Il supporto al NUG, per alcune organizzazioni etniche, è stato solo di circostanza: non vi era una condivisione del disegno politico, ma solo un nemico comune da sconfiggere. Altre organizzazioni hanno perseguito esclusivamente i propri obiettivi, conducendo conflitti paralleli o mantenendo una condizione di non belligeranza con la giunta militare. Altre organizzazioni ancora sarebbero disposte ad aderire a un disegno federale, ma questo presupporrebbe che il NUG fosse in qualche modo protagonista nell’arena politica ufficiale del Paese, cosa che non è nell’orizzonte delle cose. Il federalismo resta un sogno per il Myanmar, un Paese nel quale le stesse parti in causa non hanno una definizione comune del concetto di federalismo.
GD – La riuscita del progetto elettorale potrebbe avere un impatto positivo sulla disastrata economia del Paese e alleviare il peso della crisi umanitaria, peraltro aggravata dal terremoto dello scorso marzo?
SR – La valuta nazionale (Kyat) si è gravemente svalutata, generando un tasso di inflazione importante, con aumenti ben oltre il 200% dei prezzi rispetto ai livelli pre-conflitto anche di beni di prima necessità, come riso o carburante. Un terzo dei birmani vive in condizioni di grave povertà: si stima che più di 15 milioni di persone necessitino di assistenza umanitaria. Il post elezioni potrebbe portare a un ritorno degli investimenti esteri e a un rilancio dell’economia che sarà, però, concentrato solo in alcune aree, quelle controllate dalla giunta e quelle di interesse strategico per gli investitori, a cominciare dalla Cina. Questa ripresa economica consoliderebbe il potere del nuovo governo e dei militari. Si può sperare, però, che possa anche contribuire a una riduzione delle violenze, a sua volta propedeutica all’apertura di nuovi spazi di negoziato e convivenza.
GD – L’ultima parte del nostro dialogo la dedicherei alla situazione di un particolare gruppo etnico, quello dei Rohingya, e del loro Stato di appartenenza, il Rakhine.
SR – I Rohingya sono un’etnia che conta un milione e mezzo di individui, di cui solo un terzo vive attualmente in Myanmar. Dal 1982, sono stati privati del diritto di cittadinanza, sulla base dell’argomento che non sono un’etnia “nativa” del Myanmar, ma sono stati introdotti nel Paese dal colonialismo britannico. Il picco delle violenze contro i Rohingya si è avuto nel 2017, con migliaia di morti e l’emigrazione forzata di circa 750.000 persone verso il Bangladesh. Oggi lo Stato Rakhine è controllato quasi per intero dall’Arakan Army, uno dei membri della Three Brotherhood Alliance, cresciuto molto negli ultimi dieci anni, passando da alcune migliaia a circa 30.000 effettivi. Nonostante si sia parzialmente coordinato con le PDF, l’obiettivo di massima dell’Arakan Army è l’auto-governo, non la democrazia né l’abbattimento della giunta. Anche loro si sono macchiati di crimini nei confronti dei Rohingya, che hanno di recente definito – riecheggiando le parole di altri attori nel contesto birmano – “immigrati bangladesi musulmani”.
GD – Ci sono speranze fondate che il conflitto tra la giunta militare e l’Arakan Army possa risolversi in tempi rapidi, facilitando il ritorno dal Bangladesh del milione e trecentomila Rohingya come richiesto a gran voce dal governo di quel Paese?
SR – Se in Rakhine persisterà una condizione di conflitto armato, difficilmente i Rohingya potranno rientrare. Ma se pure Arakan Army e governo birmano, qualunque esso sia, raggiungessero un accordo, entrambe le parti resterebbero ostili ai Rohingya. Dunque, un ritorno dei Rohingya in Myanmar, in condizioni di sicurezza, mi pare assai improbabile, anche qualora il governo si dichiarasse favorevole in merito, magari per ragioni di convenienza internazionale. È una situazione che non sembra avere una via di uscita.
Stefano Ruzza (T.wai & Università di Torino) è intervistato da Giuseppe De Mola (Medici Senza Frontiere). Per ulteriori approfondimenti sul tema, leggi “Per Principio”, la newsletter di Medici Senza Frontiere sull’azione umanitaria.
Head of Research
Stefano Ruzza is the Head of T.wai’s "Violence & Security" Program and an Associate Professor of Political Science at the University of Turin.
GD – Quali sono le origini del conflitto civile in corso in Myanmar e qual è il peso del colpo di Stato del 2021... Read More

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