Nelle zone di frontiera interne al Sud-Est asiatico, con l’avanzare dello sviluppo, sono spuntate vistose enclave consacrate al gioco d’azzardo e a tutti i suoi servizi accessori. Operando con notevole libertà, queste strisce di terra hanno rapidamente attirato un flusso imponente di turisti, soprattutto cinesi e thailandesi. L’arrivo della banda larga, anche in queste aree un tempo remote, ha però aperto le porte a un business ben più oscuro: i call center interamente dedicati alle frodi online.
Queste zone franche, veri e propri “paradisi” normativi, attecchiscono tipicamente sul lato più “debole” del confine, ossia nel Paese con minori controlli o più esposto alla corruzione. Ne sono esempio le aree al confine tra Myanmar e Cina, tra Thailandia e Cambogia, o quelle lungo quasi tutte le frontiere del Laos. E se il gioco d’azzardo è già di per sé una piaga sociale nella regione, l’esplosione dei centri per le truffe online ha fatto scattare un nuovo campanello d’allarme. Uno studio del maggio 2024 dello United States Institute of Peace (“Transnational Crime in Southeast Asia”) avverte senza mezzi termini: il fenomeno rischia di innescare una crisi di sicurezza su scala globale, complice lo stretto e perverso legame tra frodi informatiche e (paradossalmente) lo sviluppo di sistemi di cybersicurezza. Dietro questi hub, un’analisi più approfondita svela quasi sempre lo stesso filo conduttore: il pesante coinvolgimento di reti criminali organizzate cinesi, attive anche ben oltre i confini della madrepatria.
Myanmar, Laos e Cambogia si confermano terreno particolarmente fertile per queste organizzazioni criminali, capaci di infiltrarsi capillarmente e di assoldare un vero esercito di manodopera locale, spesso ridotta in schiavitù e senza concrete possibilità di fuga. Lo stesso studio stima in circa trecentomila i lavoratori dei call center, capaci di generare profitti illeciti da frodi online per 39 miliardi di dollari a livello regionale e, secondo le cifre del rapporto, 64 milioni di dollari su scala globale. Ma il numero totale di persone coinvolte nell’intera filiera – costruzione, gestione e controllo dei centri – schizza oltre il mezzo milione. Molti di questi lavoratori sono essi stessi vittime, adescati con la chimera di facili guadagni e opportunità di investimento, anche all’estero, spesso usando come esca l’immagine patinata delle Zone Economiche Speciali. Una volta varcata la soglia di queste aree, si vedono confiscare i documenti. E per chi osa tentare la fuga, la punizione è quasi sempre un brutale pestaggio, se non peggio.
A spianare la strada al successo immediato di queste attività criminali hanno contribuito l’intelligenza artificiale, sistemi di tassazione inadeguati (soprattutto verso le nuove tecnologie come le criptovalute), l’assenza di controlli antiriciclaggio e tutte quelle zone grigie tra lecito e illecito che, di fatto, oliano gli ingranaggi della corruzione frontaliera. Sarebbe però un errore credere che il bandolo della matassa sia unicamente nelle mani delle mafie cinesi e che gli Stati ospitanti subiscano passivamente. La verità è che si è instaurata una relazione simbiotica: l’intera regione pulsa al ritmo di una vitalissima economia illecita.
Il problema, infatti, va inquadrato in una prospettiva più ampia, che tenga conto di dinamiche complesse. Conflitti decennali e tuttora irrisolti, come quello che strazia il Myanmar, hanno talvolta favorito, se non addirittura regolato, l’insediamento di questi centri di frode. Un esempio lampante arriva dalle zone di frontiera a nord e a est del Paese, dove il controllo di questi centri passa di mano a seconda delle alterne fasi belliche, contesi tra gruppi indipendentisti e forze governative, militari o paramilitari. Su tutte, la città di confine di Laukkai, nello stato Shan del Myanmar, emerge come un crocevia fondamentale di questo business. Qui, numerose organizzazioni criminali cinesi dettano legge, a volte spartendosi il territorio, altre scontrandosi, anche violentemente, per il suo controllo.
Il Consiglio di Amministrazione di Stato del Myanmar, sollecitato a commentare, ha glissato sulla presenza e l’operatività di questi centri, limitandosi a confermare un aumento fuori controllo dell’uso di valuta digitale. Un fenomeno, hanno sottolineato, che vìola le leggi antiriciclaggio (Anti-Money Laundering Act) e quelle sugli istituti finanziari (Financial Institutions Act), esponendo i trasgressori a multe salate e al carcere. Silenzio assoluto, invece, dalle autorità di confine cinesi, anch’esse interpellate. È cruciale notare come queste città di frontiera cambino spesso “padrone”. Laukkai, ora controllata da gruppi di resistenza armata, avrebbe visto, verso la fine del 2023, il rimpatrio forzato di ben 40.000 cittadini cinesi[1], in qualche modo affiliati alle triadi che tirano le fila dei centri. Un’azione forte, interpretata come una netta dimostrazione di forza da parte delle milizie locali dello Shan, evidentemente più sensibili, rispetto alle forze armate tradizionali, alle istanze di sviluppo sostenibile e sicurezza rispetto alle forze armate nazionali.
La crescente raffinatezza organizzativa di questi centri implica l’attrazione di criminali di calibro superiore e, di conseguenza, un salto di qualità anche per le attività illegali satellite. L’osservazione diretta di Laukkai negli ultimi cinque anni ha rivelato un chiaro spostamento: dal controllo di attività prettamente regionali si è passati a una gestione con orizzonti globali. Non significa necessariamente che Laukkai stia diventando un terminal logistico per il traffico di esseri umani o di droga, quanto piuttosto un hub direzionale. La sofisticata manodopera e le tecnologie richieste dalle frodi online vengono infatti impiegate anche per coordinare operazioni illecite che non transitano fisicamente per quel territorio.
Paradossalmente, la Cina è la prima vittima di questa emorragia criminale. Pechino, infatti, sta correndo ai ripari con misure sempre più severe e chirurgiche contro le frodi online. Già da dicembre 2022, una legge ad hoc colpisce le truffe perpetrate con qualsiasi strumento di comunicazione virtuale: dal telefono a internet, fino alle app e ai software più diffusi. Questo perché, se è vero che le menti criminali sono cinesi, l’espansione del business richiede un reclutamento massiccio. Ed è altrettanto vero che la maggior parte delle vittime sono cittadini cinesi, spesso appartenenti a minoranze etniche delle aree di frontiera, tradizionalmente difficili da controllare per il governo centrale.
Il cybercrimine, per sua stessa natura, non conosce frontiere. Eppure, i governi del Sud-Est asiatico stentano a trovare una risposta comune. Se la Cina ha compreso l’entità della minaccia e ha reagito con decisione, altri Paesi della regione sembrano voltare la testa dall’altra parte. Per capire il perché, basti un dato: in Cambogia, nel solo 2023, le frodi online avrebbero generato profitti per circa 12,5 miliardi di dollari[2], quasi la metà del PIL nazionale. E, a differenza di altre zone calde, qui gran parte dei centri sembrerebbe saldamente in mano alle élite locali. Si comprende, quindi, lo scarso zelo delle autorità pubbliche nel colpire organizzatori e complici, e talvolta persino nel tutelare le vittime.
Chou Bun Eng, figura di spicco del Comitato Nazionale Cambogiano contro il Traffico di Esseri Umani (NCCT), ha persino dichiarato al Khmer Times[3] – testata vicina al governo – che oltre l’80% dei casi di traffico di esseri umani esaminati dal comitato sarebbero montature. Eppure, nonostante queste evidenti resistenze interne, persino l’NCCT ammette l’urgenza di una coalizione sovranazionale per arginare il dilagare di questi crimini, poiché le sole strategie nazionali sono destinate a fallire. Fare pressione sui governi perché vigilino e sanzionino le compagnie che forniscono servizi e piattaforme a questi gruppi è un’impresa titanica. Si pensi solo alle implicazioni legali e giurisdizionali nel chiamare in causa colossi globali come Meta, LinkedIn o Match.com, non solo per le sanzioni, ma anche per ottenere collaborazione e condivisione di dati sensibili.
Tracciare i flussi di persone e informazioni per identificare con certezza un hub è un rompicapo, soprattutto perché questi centri, non necessitando di grandi infrastrutture, sono estremamente mobili. Così, al primo segnale di pericolo – come un raid nel nord del Myanmar – operazioni e “dipendenti” vengono rapidamente trasferiti oltreconfine. Quantificare il fenomeno è arduo, ma la sua spiccata mobilità è chiaramente la chiave del suo successo. Lo dimostrano i frequenti arresti di boss e affiliati che, in fuga dal Myanmar, vengono acciuffati in Laos, Cambogia, Thailandia, Singapore, o persino nelle Filippine.
L’ultimo rapporto dell’UNODC (Ufficio ONU contro Droga e Crimine) suona un ulteriore allarme sul ruolo cruciale di casinò e criptovalute nell’orchestrare operazioni bancarie clandestine e nel riciclare il denaro sporco delle frodi online. I casinò, presenze consolidate nelle zone di confine, vantano strutture amministrative rodate e reti logistiche capillari. E poiché quasi tutti offrono ormai gioco online, dispongono già delle infrastrutture fisiche e tecnologiche ideali per i centri di frode. Un matrimonio d’interessi, insomma. Entrambe le attività si appoggiano agli stessi network regionali di riciclaggio per movimentare i capitali, e la commistione delle transazioni rende quasi impossibile distinguere l’origine dei fondi.
Tuttavia, un barlume di speranza arriva dalla società civile. Meccanismi di resistenza sociale potrebbero infatti accrescere la consapevolezza del problema e spingere verso una più stretta collaborazione tra autorità e cittadini per combattere la diffusione cronica di questi crimini. Nelle Filippine, unico Paese asiatico con gioco d’azzardo legale e regolamentato, l’industria è finita recentemente sotto il fuoco incrociato dell’opinione pubblica, stanca dei suoi legami con la criminalità organizzata e dello sfruttamento dei più deboli. Il boicottaggio dei casinò da parte della popolazione – che rappresenta quindi, indirettamente, un freno alla proliferazione delle frodi online – ha sortito effetti tangibili.
Le Filippine sono un caso emblematico: i gruppi criminali prendono di mira facoltosi giocatori cinesi disposti a viaggiare appositamente, una tattica diffusa in tutto il Sud-Est asiatico. Pechino ha reagito stringendo i controlli sui propri cittadini sospettati di recarsi nelle Filippine per gioco, e collabora con Manila per identificare visitatori e lavoratori cinesi coinvolti. I due governi hanno anche unito le forze per oscurare siti sospetti e piattaforme di trasferimento fondi poco trasparenti. È solo un inizio, e i numeri restano preoccupanti, ma l’industria sembra dare i primi segni di cedimento.
La Cambogia, dove il gioco d’azzardo è ufficialmente illegale, potrebbe certamente imparare da questo approccio, cavalcando un’eventuale onda di sdegno popolare. Nonostante i divieti, infatti, centinaia di siti online, cartelloni pubblicitari e profili social continuano a fare sfacciatamente l’occhiolino alla clientela cinese, con tanto di annunci di lavoro in mandarino. Oggi, nella “classifica” della resistenza, le Filippine guidano il gruppo, seguite da vicino da Thailandia e Malaysia. Arranca la Cambogia, mentre il Myanmar resta in balia di equilibri instabili.
Il volume d’affari e i flussi di denaro sono così imponenti che Interpol, Unione Europea e Stati Uniti stanno dispiegando mezzi significativi per contrastare il fenomeno. Per ora, però, la domanda e l’offerta sembrano capaci di assorbire il colpo, vanificando in parte questi sforzi. L’industria delle frodi resta un colosso miliardario in continua espansione. Il vero scoglio, a quanto pare, sono proprio le élite nazionali che gestiscono alcuni di questi hub e il fatto che, per Stati in affanno economico, questi introiti illeciti siano semplicemente troppo allettanti per rinunciarvi. I blitz e gli arresti degli ultimi anni, più che una reale volontà di sradicamento, assomigliano spesso a mere operazioni di facciata.
[1] RFA Burmese (2022). “More than 40,000 Chinese involved in online scam operations deported from Myanmar”, Radio Free Asia, 22 dicembre, disponibile online al sito: https://www.rfa.org/english/news/myanmar/chinese-deported-12222023162538.html/
[2] USIP Senior Study Group on Transnational Organized Crime in Southeast Asia (2024). “Transnational Crime in Southeast Asia: A Growing Threat to Global Peace and Security”, United States Institute of Peace, 13 maggio, disponibile online al sito: https://www.usip.org/publications/2024/05/transnational-crime-southeast-asia-growing-threat-global-peace-and-security
[3] Vibol, T. (2024), “Most trafficking complaints false, says NCCT”, Khmer Times, 26 marzo, disponibile online al sito: https://www.khmertimeskh.com/501462340/most-trafficking-complaints-false-says-ncct/
“Nella regione del Sud-Est asiatico sono presenti e attive più di cinquecento Zone Economiche Speciali, in maggior numero in Viet Nam e Thailandia, ma... Read More
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