[Yìdàlì 意大利] Se Pechino bacchetta Bruxelles

“Per molti funzionari cinesi l’Europa rappresenta ormai solamente un gruppo di nazioni in declino, i cui cittadini dovrebbero mettersi a lavorare di più.” Jonathan Holslag, direttore della ricerca del Brussels Institute of Contemporary China Studies, appariva molto pessimista alla vigilia del China-EU Summit, il vertice che si sarebbe dovuto tenere a Tianjin il 25 ottobre scorso.

Ma il Summit è saltato sotto i colpi della crisi del debito pubblico europeo: con una nota stringata, diffusa nel tardo pomeriggio di venerdì 21, Bruxelles ha reso noto che l’incontro “è stato rimandato a data da destinarsi” a causa “degli imminenti vertici del Consiglio europeo e dei capi di stato dell’Eurozona”. I leader europei non potevano essere presenti a Tianjin il martedì, stretti com’erano tra l’appuntamento della domenica e la riunione straordinaria fortemente voluta da Francia e Germania per il mercoledì successivo, due incontri-chiave per la strategia di salvataggio dell’euro. “I leader cinesi hanno capito – dice una fonte della delegazione Ue a Pechino – e d’altronde non è il primo vertice che viene rimandato per fare fronte ad emergenze più urgenti”.

Tuttavia è difficile smentire l’impressione che la leadership cinese nutra verso il Vecchio Continente l’atteggiamento descritto da Holslag. E in Cina, in questo periodo, chi dice Europa dice Italia. Basta dare un’occhiata alle pagine dei quotidiani e delle riviste cinesi: “Crisi europea: allerta sull’Italia, no ad altra benzina sul fuoco”; “Situazione del debito poco ottimista: l’Italia mette i bastoni tra le ruote al piano di aiuti europeo” erano solo alcuni dei titoli pubblicati dal sito di news economiche Hexun il 27 ottobre scorso.

Il fatto che i media cinesi tendano spesso a dipingere la situazione dei paesi stranieri con toni allarmistici non può servire da alibi: “L’Europa è uno dei pochi colossi economici e politici che si aspetta la carità dalla Cina e dalle nazioni emergenti. Noi vi rispettiamo, per favore, rispettatevi anche voi” ha detto il presidente del board dei supervisori di China Investment Corporation, Jin Liqun, a margine di una conferenza che si è tenuta a Parigi.

Le parole taglienti di Jin sembrano riassumere il punto di vista di una larga fetta della leadership cinese: “Le cause della crisi vanno individuate in un welfare eccessivo, nelle norme sul lavoro che inducono gli europei alla pigrizia, – ha detto ancora il funzionario del fondo sovrano di Pechino – la gente ha bisogno di lavorare più duramente e di lavorare più a lungo. L’Europa faccia le riforme che deve fare, e poi noi interverremo”.

Il venerdì successivo all’annullamento del vertice Cina-Ue e al summit di Bruxelles, il direttore del Fondo europeo di stabilità finanziaria (Fesf) Klaus Regling è volato a Pechino. “Si tratta di incontri di routine fissati da tempo, – ha dichiarato più volte Regling nel corso di una conferenza stampa – al momento non c’è un accordo specifico con la Cina, e non mi aspetto di raggiungerlo in questi giorni”.

Il direttore del Fesf ha negato con decisione che la Cina stesse ponendo delle condizioni in cambio dell’acquisto di titoli europei, smentendo le ipotesi che circolavano da giorni: “Il mio mestiere è vendere bond, e non sono qui per discutere di eventuali concessioni. Non fa parte del mio lavoro”, ha detto Regling. L’unico spiraglio aperto riguarda la creazione di “nuovi prodotti finanziari” sui quali “vogliamo sentire i consigli degli investitori per sondare la loro disponibilità”. Adattare il prodotto ai desideri dei compratori, insomma, sembra la missione di Klaus Regling: ma cosa succede se gli investitori cinesi in bond vogliono “meno welfare” e meno norme “che inducono gli europei alla pigrizia”?

Quelle di Jin Liqun sono frasi che il governo e i sindacati italiani dovrebbero tenere presenti per decidere il tipo di modello su cui vogliono impostare l’economia italiana dei prossimi decenni. Come scrive Geminello Alvi nel suo ultimo libro Il capitalismo: verso l’ideale cinese: “Che guardiamo a prima o dopo il 2008, un dato di fatto rimane comunque ineluttabile: un capitalismo amministrato dal dispotismo orientale è cresciuto più di quello americano, che anzi si è trovato a imitarlo”.

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