Vitalità, continuità e rinnovamento del Buddhismo nella Cina d’oggi

Il Buddhismo si trova oggi in uno stato di evidente vitalità in Cina, sia nelle sue manifestazioni istituzionali, sia in ambienti che scelgono un profilo defilato per poter operare con la maggiore libertà possibile all’ombra dei riflettori. La continuità rispetto al passato è stata garantita, all’inizio degli anni Ottanta, dal ritorno sulla scena di alcuni dei principali protagonisti del Buddhismo cinese dell’epoca repubblicana, sopravvissuti – talvolta fisicamente, altre attraverso i propri lignaggi di filiazione spirituale – alle traversie dell’epoca maoista. Tra le più evidenti novità della nuova era spiccano la diffusione tra la popolazione cinese Han (hàn, 汉) di forme di Buddhismo non cinese e lo sviluppo di approcci ecumenici secondo una visione moderna panasiatica della religione.

Sul piano istituzionale, le misure di controllo e ingerenza nelle questioni religiose da parte delle autorità politiche si accompagnano assai agevolmente all’impiego del Buddhismo come elemento di stabilità sociale e come strumento di soft power in politica interna ed estera. Degno di nota, a tale proposito, il 5th World Buddhist Forum (Putian, 28-30 ottobre 2018), evento imponente quanto ambizioso, organizzato sotto l’egida dell’Associazione Buddhista di Cina (Buddhist Association of China, BAC) e con il benestare di Pechino, capace di riunire nel Fujian un migliaio di partecipanti tra monaci buddhisti, rappresentati istituzionali e studiosi provenienti da ogni angolo dell’Asia e del mondo.[1]

Quando alla fine degli anni Settanta è stata lanciata la nuova fase di libertà di credo, molti buddhisti che erano stati attivi nella prima metà del XX secolo si sono posti alla guida della ricostruzione buddhista, spesso rispondendo alle esplicite richieste del governo nazionale e dei governi regionali e andando ad assumere posizioni di rilievo nell’Associazione Buddhista centrale o nelle sue diramazioni locali.[2] Unico organo legale rappresentativo di tutti i buddhisti del paese dal 1949 a oggi, l’Associazione Buddhista di Cina è strutturata in modo piramidale, dipende direttamente dallo Stato ed esercita funzioni di controllo politico e di gestione delle attività religiose ma anche, nei limiti resi possibili dalle disposizioni di legge, di garante dei diritti dei buddhisti.

Badessa buddhista tiene un discorso sul legame tra arte tradizionale del tè e Buddhismo durante una cerimonia del tè presso Chongzhou, Sichuan, settembre 2018 (immagine: Ester Bianchi).

Lo Stato interviene periodicamente con misure più restrittive e penalizzanti per le religioni in generale, come la normativa varata nell’agosto del 2018 sul divieto di utilizzare social media e il web nella comunicazione con i propri fedeli. Dopo l’ascesa al potere di Xi Jinping, è in atto una stretta sulla libertà di credo in generale, che è sentita in modo crescente anche negli ambienti del Buddhismo cinese.[3]

Il Buddhismo cinese gode tuttavia di una situazione privilegiata, rispetto ad esempio al Buddhismo di tradizione tibetana o ad altre religioni, probabilmente perché raramente ha manifestato in epoca moderna tendenze sovversive, propendendo piuttosto alla promozione di un atteggiamento collaborativo da mantenere nei confronti del governo (come nel caso dell’opposizione al Fǎlún Gōng, 法轮功, il noto movimento religioso messo al bando dalle autorità all’inizio degli anni 2000 dopo essere stato dichiarato “culto eretico”). Considerato utile per la creazione di una “società armoniosa”, il Buddhismo è entrato a far parte del patrimonio culturale nazionale ed è sostenuto dal governo sia in virtù della sua funzione pubblica come elemento di stabilità sociale sia – in continuità con quanto già accaduto durante la Repubblica di Cina e in epoca maoista – per il suo potenziale utilizzo come strumento di soft power nei rapporti internazionali, in particolare con Taiwan e gli altri stati asiatici di fede buddhista (Nepal, Sri Lanka, Tailandia, Birmania e Malesia). [4]

La recente Belt and Road Initiative ha consegnato al Buddhismo un ruolo importante nelle politiche di promozione delle nuove Vie della Seta, in particolare lungo le rotte marittime che collegano la Cina ai paesi del Sudest Asiatico. Il mondo buddhista cinese ha risposto all’appello rinsaldando i rapporti con i buddhisti locali e favorendo il dialogo fra Mahāyāna e Therāvada con l’obiettivo non tanto di diffondere il dharma (il proselitismo non è ammesso per legge della Rpc) quanto piuttosto di “creare ponti culturali, favorire relazioni amichevoli e promuovere la conoscenza reciproca tra le civiltà” (così si pronunciava il monaco buddhista Xuecheng, all’epoca Presidente della BAC, prima di essere destituito in seguito a un caso di sospette molesti sessuali e corruzione).[5] Il già citato 5th World Buddhist Forum è stato forse il più grandioso di una serie di analoghi eventi, da cui si evince il desiderio del Buddhismo cinese più istituzionale di porsi alla guida dei buddhisti del mondo.

Sul piano economico, il turismo religioso è capace di muovere ingenti capitali anche dall’estero ed è pertanto sostenuto dai governi locali. Le istituzioni governative favoriscono l’impegno sociale dei monasteri buddhisti, pronti a investire i fondi derivanti dalle donazioni dei laici in opere filantropiche come orfanotrofi, case di riposo per anziani, ospedali o donazioni in caso di calamità.[6]

Il nuovo corso ha determinato un aumento esponenziale del numero dei credenti e delle ordinazioni monastiche. Nel 2010 l’Accademia delle Scienze Sociali di Pechino ha reso noti nel “Libro blu sulle religioni” i risultati di un sondaggio, secondo cui solo il 15% dei cinesi si dichiarerebbe non-religioso, a fronte del 59% del 1993. Secondo la stessa indagine, il 18% dei cinesi sarebbe di fede buddhista, un dato che renderebbe il Buddhismo la più diffusa tra le cinque religioni istituzionali.[7] Gli ultimi dati disponibili, pubblicati nell’aprile 2018 dall’Ufficio d’Informazione del Consiglio per gli affari di Stato, confermano sostanzialmente il quadro del 2010.[8]

Degno di nota anche il netto aumento del numero dei monasteri e delle ordinazioni monastiche buddhiste che stanno gradualmente riportando la percentuale dei religiosi ai numeri della prima metà del XX secolo.[9] Secondo i dati più recenti, ci sarebbero oggi in Cina 33.500 luoghi di culto buddhisti, di cui 28.000 cinesi, 3800 tibetani e 1700 Theravāda (Buddhismo in lingua Pāli diffuso nello Yunnan sudoccidentale), un incremento davvero considerevole a fronte dei 16.000 del 2007 e dei 20.000 del 2008. Quanto ai religiosi, i dati ufficiali parlano di 222.000 monaci e monache buddhiste, una cifra che include, oltre ai buddhisti cinesi, i cosiddetti “buddhisti etnici” tibetani e Theravāda, a fronte dei 70.000 monaci e monache cinesi nel 1997 e dei circa 80.000 nel 2009.[10]

Per quanto concerne le ordinazioni, va aggiunto che vige oggi un totale controllo sulla loro programmazione e organizzazione da parte delle autorità governative, che in questo modo non solo stabiliscono il numero degli ordinandi – prerogativa del governo cinese già in epoca imperiale – ma si esprimono anche in merito alle procedure e ai contenuti rituali.[11] All’inizio degli anni Ottanta, grazie a significativi finanziamenti statali, la BAC si impegnò per la riapertura dei monasteri e la creazione di accademie per la formazione del sagha, la comunità monastica.[12] L’Istituto di studi buddhisti della Cina di Pechino cominciò a operare già nel 1981, e fu seguito l’anno successivo dal suo corrispettivo femminile a Chengdu. Da quel momento in poi, il numero degli istituti continuò a crescere. Collocati all’interno dei principali monasteri del paese e modellati sulle accademie buddhiste dell’epoca repubblicana, offrono curriculum moderni che affiancano una formazione strettamente religiosa incentrata sullo studio delle principali dottrine e scritture del Buddhismo inteso come religione panasiatica, a materie secolari quali gli studi classici nazionali (lingua, letteratura e storia cinese), la psicologia, le lingue straniere, l’informatica e l’educazione politica. Da oltre trent’anni queste istituzioni formano la nuova élite monastica destinata a ricoprire posizioni di rilievo nelle associazioni buddhiste o nei monasteri. Fattori come la chiara prossimità alle autorità politiche o il prevalere dello “studio” sulla “pratica”, fanno sì che sussista una generalizzata sfiducia dei buddhisti meno vicini al governo rispetto a questi istituti di studio.

Sul piano dottrinale, l’Associazione Buddhista di Cina si è fatta promotrice del “Buddhismo tra gli uomini” (rénjiān fójiào, 人间佛教), “un Buddhismo che, fondato sui principi buddhisti, cerca di riformare e far progredire la società e di far avanzare il mondo” per la costruzione di una “terra pura tra gli uomini” (rénjiān jìngtǔ, 人间净土). Questa idea di Buddhismo impegnato, concepita in epoca repubblicana dal monaco riformatore Taixu (1890-1947) e ulteriormente sviluppata nella Taiwan della seconda metà del XX secolo, mirava a una sostanziale riforma della società da realizzarsi attraverso l’applicazione dei principi morali buddhisti. Zhao Puchu (1907-2000), all’epoca Presidente dell’Associazione Buddhista di Cina, se ne fece promotore già all’inizio degli anni Ottanta, legandola alla modernizzazione socialista e fornendone quindi una lettura ideologico-politica.[13]

Va tuttavia rimarcato che in Cina, a differenza di Taiwan, il “Buddhismo tra gli uomini” sembra essere più una questione di ordine politico-idelologico della BAC ed è poco rappresentato all’interno dei monasteri. Eredi del Buddhismo della prima metà del XX secolo, le nuove istituzioni monastiche rappresentano la maggior parte delle tradizioni, con una prevalenza di monasteri chán (禅), Terra Pura o misti, ma anche con una discreta presenza di centri dediti ad altre forme di pratica (tiāntái, 天台, huáyán, 华严, vinaya, tantrica giapponese e tibetana, Theravāda). Altri centri, come il Lóngquánsì (龙泉寺) di Pechino, propendono invece per un Buddhismo ecumenico o “non settario”, in cui trovano spazio elementi di tradizioni diverse.

Un’altra caratteristica degli ultimi decenni è la riaffermazione del vinaya, la disciplina monastica. Gli istituti di studi buddhisti, a prescindere da dimensioni, livello o afferenza, prevedono tutti classi per lo studio della disciplina monastica fra i propri insegnamenti fondamentali. Allo stesso modo, nella maggior parte dei monasteri si assiste a un recupero dei rituali prescritti nel vinaya e caduti nell’oblio e a un sempre più diffuso rispetto delle norme disciplinari. Alla base di questo fenomeno vi è la convinzione che il vinaya sia il fondamento su cui poggia il dharma e che sia pertanto imprescindibile per la rigenerazione della comunità monastica.[14]

Una fetta crescente della popolazione cinese sceglie di legarsi a una particolare istituzione, a un lignaggio o a un maestro attraverso l’accettazione di specifici precetti o semplicemente “prendendo rifugio” nel Buddhismo e divenendo così un “laico” (jūshì, 居士). È soprattutto per costoro che sono organizzati i tanti campi estivi e i ritiri di preghiera e meditazione – prevalentemente chán ma spesso anche di tradizione tibetana o Theravāda – che, nei mesi estivi o durante le festività, raccolgono centinaia quando nonmigliaia di praticanti buddhisti. In questo contesto, un ruolo rilevante è svolto dalle associazioni note come “bosco di bambù dei laici” (jūshìlín, 居士林). Formate prevalentemente da rappresentanti della borghesia urbana, queste associazioni si posero subito come una delle caratteristiche più rilevanti del rinnovamento del Buddhismo durante la prima fase del XX secolo. Furono bandite in tutto il paese dopo il 1949 e tardarono a riemergere dopo la Rivoluzione culturale, quando la creazione di associazioni di laici buddhisti era ancora scoraggiata, se non proibita, per questioni ideologiche e di controllo della popolazione non monastica. Solo alla fine degli anni novanta si è assistito alla loro ricomparsa: un’evidente concessione del governo a fronte della crescita numerica e dell’influenza dei laici buddhisti in ogni ambiente del paese.[15]

Tra i segni dello stato di vivacità del Buddhismo nella Rpc vanno menzionati anche: il fiorire degli studi accademici e il loro sostegno da parte delle comunità monastiche più facoltose (benché lo studio dei fenomeni contemporanei sia tendenzialmente evitato, perché considerato tema sensibile); lo sviluppo di dibattiti e studi su possibili punti di convergenza tra il Buddhismo e le scienze cognitive; e la popolarità del Buddhismo in ambienti alla moda e tra alcune celebrità. In questi contesti, il Buddhismo sembra essere percepito come una raffinata espressione della cultura tradizionale, patrimonio da promuovere e salvaguardare, in perfetta consonanza con la riscoperta della ricchezza dei costumi e delle arti tradizionali della Cina.

 

 

 

 

 

Questo articolo è tratto, in versione lievemente modificata, dal saggio dell’autrice: “Oscillando fra Tradizione, Ammodernamento e Riforma: Il Buddhismo Cinese Incontra la Modernità”, in Fede e culture nell’attualità cinese, a cura di Emanuela Fogliadini (in corso di stampa).

[1] Questo articolo è tratto, in versione lievemente modificata, dal saggio dell’autrice: “Oscillando fra Tradizione, Ammodernamento e Riforma: Il Buddhismo Cinese Incontra la Modernità”, in Fede e culture nell’attualità cinese, a cura di Emanuela Fogliadini (in corso di stampa).

[2] Wei Peiquan, “World Buddhist Forum opens in Fujian”, Xinhua, 28 ottobre 2018, disponibile all’Url http://www.xinhuanet.com/english/2018-10/28/c_137564569.htm.

[3] Per una raccolta di ritratti di personalità di rilevo delle religioni cinesi del XX secolo, tra cui molti buddhisti, si veda: Vincent Goossaert, Ji Zhe e David Ownby (a cura di), Making saints in modern China (Oxford e New York: Oxford University Press, 2017). Sui legami tra il Buddhismo repubblicano e l’attuale revival, si vedano Ji Zhe, Tian Shuijing e Wang Qiyuan (a cura di), Èrshí shìjì Zhōngguó fójiào de liǎng cì fùxīng [I due revival del Buddhismo cinese nel XX secolo] (Shanghai: Fudan University Press, 2016).

[4] Zhe Ji, “Buddhist Institutional Innovations”, in Modern Chinese Religion II: 1850-2015, a cura di Vincent Goossaert, Jan Kiely e John Lagerwey (Leiden: Brill, 2015), 729-766.

[5] André Laliberté, “Buddhist revival under state watch”, Journal of Current Affairs 40 (2011) 2: 107-134, e “Religion and the State in China: the limits of institutionalization”, Journal of Current Chinese Affairs 2 (2011): 3-15. 

[6] Ian Johnson, “#MeToo in the monastery: a Chinese abbot’s fall stirs questions on Buddhism’s path”, The New York Times, 15 settembre 2018, disponibile all’Url https://www.nytimes.com/2018/09/15/world/asia/metoo-china-monastery.html. 

[7] Ji Zhe e Vincent Goossaert (a cura di), “Social implications of the Buddhist revival in China”, numero speciale di Social Compass 58 (2011) 4, disponibile all’Url https://journals.sagepub.com/toc/scp/58/4. 

[8] Ji Zhe, “Chinese Buddhism as a social force. Reality and potential of thirty years of revival”, Chinese Sociological Review 45 (2012) 2: 8-26. 

[9] Xinhua, “China has nearly 200 mln religious believers: white paper”, 3 aprile 2019, disponibile all’Url http://www.xinhuanet.com/english/2018-04/03/c_137084917.htm.

[10] Ester Bianchi, “Quando Rigore e Rigenerazione si Incontrano. Procedure di Ordinazione e Disciplina Monastica nell’Ambito del Revival del Buddhismo Cinese Contemporaneo”, in Il liuto e i libri. Studi in onore di Mario Sabattini, a cura di Magda Abbiati e Federico Greselin (Venezia: Edizioni Ca’ Foscari, 2014), 53-65.

[11] Ji Zhe, “Chinese Buddhism as a social force. Reality and potential of thirty years of revival”, Chinese Sociological Review 45 (2012) 2: 8-26, disponibile all’Url https://www.tandfonline.com/doi/abs/10.2753/CSA2162-0555450201. 

[12] Ester Bianchi, “«Transmitting precepts in conformity with the Dharma»: restoration, adaptation and standardization of ordination procedures”, in Buddhism after Mao: negotiations, continuities, and reinventions, a cura di Ji Zhe, Gareth Fisher, André Laliberté (Honolulu: University of Hawaii Press, 2019) (in corso di stampa).  

[13] Raoul Birnbaum, “Buddhist China at the century’s turn”, China Quarterly 174 (2003): 451-467.

[14] Ji Zhe, “Zhao Puchu and his renjian Buddhism”, The Eastern Buddhist 44 (2013) 2: 35-58.

[15] Ester Bianchi, “Yǐ jiè wéi shī 以戒為師. Theory and practice of monastic discipline in modern and contemporary Chinese Buddhism”, Studies in Chinese Religions 3 (2017) 2: 111-141.

[16] Si vedano: Yoshiko Ashiwa e David L. Wank, “The globalization of Chinese Buddhism: clergy and devotee networks in the twentieth Century”, International Journal of Asian Studies 65 (2006) 2: 337-359; Gareth Fisher, From comrades to Bodhisattvas: moral dimensions of Lay Buddhist practice in contemporary China (Honolulu: University of Hawai’i Press, 2014).

 

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