Circa un anno fa, questa rubrica ha proposto un bilancio preliminare delle risorse chiave per la convivenza e l’integrazione culturale tra cinesi e italiani,[1] stimando su quali competenze di alto livello il paese potesse contare per misurarsi con le sfide poste dal radicamento sul territorio di una numerosa e sempre più importante minoranza cinese e dalla crescente mole e densità di rapporti politici, economici e culturali con la Repubblica Popolare Cinese.
L’apprendimento della lingua cinese rappresenta indubbiamente una risorsa strategica chiave per poter affrontare al meglio questa intensificazione delle relazioni interculturali a tutto campo. L’intensità dei flussi di persone, capitali, dati e informazioni tra Italia e Cina all’inizio del XXI secolo non può più sperare d’essere gestita mediante un apparato di diplomatici, analisti, consulenti, esperti ed interpreti di dimensioni e profili di competenza limitati, come è stato per l’intero corso del Novecento. Sappiamo che dagli anni Ottanta del secolo scorso in avanti vi è stata una crescita esponenziale del numero di persone che in Italia si sono formate in modo vieppiù specialistico in materia di lingua, cultura, storia, società, economia e politica della Cina. Oggi la lingua cinese è studiata in patria e all’estero da circa 13.600 mila studenti universitari e 17.500 studenti delle scuole superiori:[2] numeri significativi, ma che sono offuscati dal fatto che solo una esigua minoranza, inferiore al 10% del totale, si rivela in grado di raggiungere e certificare una competenza pari al livello B2 del QCER, il Quadro comune dell’Unione Europea per l’apprendimento delle lingue straniere. La definizione ufficiale delle competenze acquisite da un apprendente che ha raggiunto livello B2 è la seguente: “comprende le idee principali di testi complessi su argomenti sia concreti sia astratti, come pure le discussioni tecniche sul proprio campo di specializzazione. È in grado di interagire con una certa scioltezza e spontaneità che rendono possibile un’interazione naturale con i parlanti nativi senza sforzo per l’interlocutore. Sa produrre un testo chiaro e dettagliato su un’ampia gamma di argomenti e riesce a spiegare un punto di vista su un argomento fornendo i pro e i contro delle varie opzioni”. Si tratta di un risultato notevole nell’apprendimento di qualsiasi lingua, e – come vedremo – particolarmente difficile da raggiungere nello studio della lingua cinese. Ma è bene sottolineare che tale livello non rappresenta la padronanza piena della lingua: non corrisponde, cioè, al livello di competenza linguistica posseduto da una persona madrelingua con l’ampiezza e proprietà di linguaggio tipiche di una persona istruita. Può considerarsi un livello intermedio, adatto a una molteplicità di operazioni comunicative, anche con un certo grado di complessità tecnica.
È possibile certificare l’acquisizione di un livello B2 nella lingua cinese? Secondo Hanban, l’agenzia del Ministero dell’Istruzione della Repubblica Popolare Cinese che presiede alla somministrazione dei test di competenza linguistica che consentono la certificazione del “livello di competenza linguistica nella lingua cinese” (Hànyǔ shuǐpíng kǎoshì 汉语水平考试, o HSK), la nuova versione del loro sistema di test è strutturata in modo da corrispondere sostanzialmente ai sei livelli del QCER. Così la certificazione HSK 4 corrisponderebbe a un livello B, mentre le certificazioni HSK 5 e 6 corrisponderebbero ai livelli che denotano una padronanza affine a quella di una persona madrelingua istruita, ovvero i livelli C1 e C2 del QCER. Ma le cose, a detta di molti linguisti europei, non stanno affatto così. Secondo le associazioni dei docenti di lingua cinese di Germania e Francia, come pure secondo esperti di altri paesi europei (compresa l’Italia), il più alto livello di competenza certificabile dall’esame HSK (il livello 6), corrisponderebbe al B2. Mentre il livello di competenza certificato da Hanban di cui si dota la stragrande maggioranza degli studenti universitari italiani al momento della laurea triennale, il livello HSK 3, corrisponderebbe appena a un A1. La minoranza qualificata che ottiene la certificazione HSK 4 si garantirebbe un A2, e solo una ristrettissima élite, che in Italia si stima nell’ordine di poche centinaia di persone, raggiunge un livello HSK 5 o superiore, pari cioè a B1 e B2.
Questa è una situazione che non trova riscontro nella maggior parte delle lingue straniere insegnate nelle scuole superiori e nelle università italiane. Prendiamo per esempio la lingua straniera più studiata di tutte, l’inglese. Per un apprendente italofono non è una lingua facile: la fonologia è molto diversa da quella dell’italiano, che un’ortografia assai conservatrice trascrive in modo incoerente, ricchissima di usi idiomatici e di inflessioni locali. L’apparente semplicità della grammatica è associata all’una enorme complessità e variegatezza del lessico, che risente di una secolare storia di espansione territoriale e di adattamenti locali. Però è la lingua che maggiormente impatta sui consumi culturali dell’Occidente (e non solo), la lingua franca globale per eccellenza, la lingua del commercio, della diplomazia e della scienza. Chi la studia in Italia comincia presto e spesso compendia lo studio con ripetuti soggiorni studio all’estero. Anche se sussiste anche in questo caso un ampio margine di miglioramento, tra i laureati che hanno completato un triennio di inglese all’università (e a maggior ragione tra i laureati magistrali), la certificazione veritiera di un livello C1 o C2 non è cosa tanto rara. Il B1-B2 è pressoché assicurato per la maggior parte degli apprendenti italiani che abbiano studiato l’inglese alle superiori e all’università. Ma forse la principale differenza è un’altra. Chi ottiene la certificazione del massimo livello di competenza della lingua inglese (C2), è sempre in grado di compiere almeno queste tre semplici operazioni:
Oggi chi ottiene la certificazione del massimo livello di competenza della lingua cinese sostenendo gli esami HSK, che come si è detto corrisponde a un livello B2 del QCER, non è neanche lontanamente in grado di compiere tali operazioni con lo stesso grado di efficacia. Perché mai allora il nuovo sistema di certificazione HSK si ferma, per così dire, a metà strada?
Un’ipotesi è che ciò sia legato al modo in cui mediamente si sviluppa il percorso di apprendimento della lingua cinese per un italofono. Si tratta di un tema che meriterebbe ricerche ed approfondimenti ad hoc, ma non è poco plausibile suggerire che tale percorso richiede un impegno in termini di tempo non inferiore a quello richiesto a un apprendente anglofono, rispetto al quale esistono dei parametri attendibili di riferimento. Uno dei più gettonati è il numero di ore di apprendimento guidato richiesto per acquisire la padronanza piena delle lingue straniere secondo le stime del Foreign Service Institute del Dipartimento di Stato USA,[3] stime che sono rigorosamente basate su riscontri empirici. Per il cinese la stima è pari a 2.200 ore. Un normale corso di lingua cinese in un percorso di studi triennale in un’università italiana ne offre da 360 a 420. Con una laurea magistrale, si arriva a 600-700 ore: meno di un terzo del monte ore necessario a raggiungere la padronanza piena della lingua. Come stupirsi, dunque, se al termine di un corso di studi la maggior parte degli studenti non supera il livello A2 del QCER? E forse è in considerazione di questo dato di fatto, che non è limitato alla situazione italiana, che Hanban ha scelto nel 2010 di ritoccare sensibilmente al ribasso il sistema delle certificazioni HSK. Il “vecchio” HSK, infatti, richiedeva per il conseguimento del livello massimo di certificazione l’apprendimento di quasi 9.000 vocaboli (contro i 5.000 dell’HSK 6 attuale) e di quasi 2.900 caratteri a maggior frequenza. I migliori studenti, coloro che scelgono di integrare i corsi frequentati in Italia con soggiorni studio in Cina di un semestre o di un anno, magari supportati da borse di studio Confucio rilasciate da Hanban, possono sperare di raggiungere un monte ore complessivo di 1.200-1.500 ore, compatibile con un livello di competenza intermedio: B1-B2. E poi restano intrappolati a tale livello.
Questo accade fondamentalmente perché, semplificando una materia assai complessa, essi dispongono di un lessico di base (e di un numero di caratteri ad alta frequenza perfettamente appresi) troppo ristretto (1.200-2.500 vocaboli, circa 2.000 caratteri) per poter passare dall’apprendimento guidato alla cosiddetta acquisizione linguistica naturale, estrapolando senso e pronuncia delle parole nuove dal contesto. Se, per esempio, si vuole leggere un libro in cinese senza ricorrere al dizionario, memorizzando le parole nuove di cui si carpisce il senso dal contesto, è necessario: a) riuscire a identificare correttamente almeno pronuncia e tono (idealmente anche il significato) dei caratteri con cui sono scritte le parole nuove; b) intuire dal contesto e dal significato dei caratteri che compongono le parole nuove il significato di tali vocaboli; c) memorizzare quindi il suono e il significato di tali parole. Queste operazioni non sono possibili senza una copertura elevata del lessico di base e dei caratteri ad alta frequenza necessari per scrivere le parole che ne fanno parte. Indicativamente, questo livello di competenza si raggiunge solo dopo aver appreso un lessico di base di circa 8.000-10.000 parole e di 3.500-4.000 caratteri ad alta frequenza. Con un livello di competenza pari a quello certificato dall’attuale HSK 6, il lessico a disposizione è assai più contenuto: circa 5.000 parole e 2.500 caratteri. Il tempo di lettura medio di un testo complesso (un articolo di giornale, un saggio o un romanzo) si aggira intorno ai venti minuti per pagina, la cui piena comprensione è possibile solo aiutandosi costantemente con un vocabolario. Saltare le parole nuove per concentrarsi sulla comprensione grezza del contenuto non è una buona idea, perché così si rinuncia a priori alla possibilità di espandere il proprio lessico. Si resta chiusi nella “trappola del livello intermedio”.[4]
Come uscire da questa grave impasse, che ha ricadute sul livello strategico di preparazione delle nostre risorse umane? Il primo passo dovrebbe essere la pragmatica presa di coscienza del problema: riconoscere che rebus sic stantibus l’apprendimento della lingua cinese è sabotato dallo stesso percorso di apprendimento e dal sistema di certificazione dei livelli di competenza raggiunti. Ci si accontenta sistematicamente di un livello di competenza in uscita sub-standard, che per altre lingue straniere sarebbe considerato inaccettabile. Il secondo può essere la promozione sistematica di percorsi più lunghi di soggiorni in studio in Cina per il maggior numero possibile degli studenti di un corso di laurea. Il terzo, l’intensificazione delle alleanze con enti – come gli stessi Istituti Confucio – che possono integrare l’offerta formativa garantita da scuole superiori e università, incrementando le ore di apprendimento guidato erogate complessivamente. L’importante è cominciare a mettere mano alla questione, con creatività e pragmatismo, magari collaborando tra diverse istituzioni per una migliore comunità di pratiche. Una prospettiva assai promettente in questo senso sono ad esempio le prime esperienze di coordinamento tra insegnamento del cinese alle superiori e la didattica avanzata all’università. Lo sviluppo di una didattica coordinata e coerente dalla prima superiore alla laurea magistrale garantirebbe infatti tutto il tempo necessario all’acquisizione della padronanza piena della lingua cinese.
[1] Daniele Brigadoi Cologna, “Risorse per la convivenza e l’integrazione culturale tra cinesi e italiani: un bilancio preliminare”, OrizzonteCina 8 (2017) 5: 32-33.
[2] Si tratta necessariamente di stime, basate sul totale degli iscritti dei corsi di laurea che contemplano l’insegnamento della lingua cinese, giacché il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (Miur) non rilascia dati sugli iscritti disaggregati per singoli corsi. I dati sugli studenti universitari italiani in Cina sono forniti dall’Ambasciata della Rpc in Italia riferiti all’anno 2016 e riportati in Elisabetta Pagani, “Gli studenti italiani trovano l’America in Cina”, La Stampa, 4 ottobre 2016, 1 e 3. I dati relativi agli studenti delle scuole superiori sono tratti da: Fondazione Intercultura onlus, La nuova via della Cina. I giovani, la scuola e la Cina. IX rapporto dell’Osservatorio nazionale sull’internazionalizzazione delle scuole e la mobilità studentesca (Milano: Ipsos, 2017), disponibile all’Url http://www.scuoleinternazionali.org/_files/report_annuali/2017.pdf.
[3] Disponibile all’Url https://www.state.gov/m/fsi/sls/c78549.htm.
[4] Per un approfondimento dei temi trattati in questo articolo, si vedano Luisa M. Paternicò, “Chinese Language Learning, Teaching and Assessment in Europe: the Need for Standardization”, in Italian Association for Chinese Studies, Selected Papers I (Venezia: Cafoscarina, 2016), 163-181; Qiao Yucai, Chinese as a Second and Foreign Language Education (London: Palgrave Macmillan, 2018); Zhang Dongbo e Lin Chin-Hsi (a cura di), Chinese as a Second Language Assessment (Singapore: Springer, 2017); Richard Xiao, Paul Rayson, Tony McEnery, A Frequency Dictionary of Mandarin Chinese. Core Vocabulary for Learners (New York: Routledge, 2009). Sul passaggio dall’apprendimento guidato all’acquisizione linguistica spontanea, si veda Stephen D. Krashen, Principles and Practice in Second Language Acquisition (New York: Prentice Hall Macmillan, 1995). Sempre attuale sull’argomento la lettura del celebre saggio di David Moser del 1991, Why Chinese Is So Damn Hard, disponibile in forma abbreviata o integrale ai seguenti indirizzi web, rispettivamente: http://pinyin.info/readings/texts/moser.html; http://www.sino-platonic.org/complete/spp027_john_defrancis.pdf (pp. 59-70).
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