Un nuovo ritmo nei rapporti tra l’Australia e l’ASEAN

Amici e vicini

Nei distretti delle grandi città del Sud-Est asiatico, ricolmi di attività commerciali e di hotel, di solito non si deve attendere molto tempo prima di avvertire tra la folla l’accento australiano. Mentre il governo federale di Canberra annunciava l’intenzione di voler portare avanti una politica estera che fosse rivolta “più a Giacarta e meno a Ginevra”, milioni di cittadini australiani proseguivano, da vicino e di persona, i loro sforzi di comprensione del Sud-Est asiatico. Bali, centro turistico e culturale di grande importanza, è parte di questa equazione ma gli australiani sono diventati parte dello scenario economico, culturale ed educativo dell’intera regione.

È naturale che alcuni si ritrovino a trascurare i milioni di legami, seppur piccoli, che hanno unito il Sud-Est asiatico e l’Australia. Spesso analisti e accademici lamentano proprio la riluttanza degli australiani ad approfondire queste interazioni e la loro incapacità di guardare al Sud-Est asiatico in maniera diversa dall’opinione comune, che vede la regione come luogo di piaceri, perdizione e destinazione esotica. Le capacità linguistiche degli australiani sono un argomento comune di sconcerto. Malgrado qualche limitazione percepita, negli ultimi vent’anni i voli economici e regolari diretti verso tutti gli angoli del Sud-Est asiatico hanno aperto nuove frontiere ai turisti, agli uomini d’affari, agli analisti e agli studiosi australiani. Tutti noi abbiamo beneficiato dei vantaggi delle interazioni interculturali e molti di noi hanno imparato a pronunciare Phuket o Yogyakarta senza alcuna esitazione.

Viceversa, gli abitanti del Sud-Est asiatico hanno cercato di approfondire la loro conoscenza dell’Australia. Ogni anno un numero non quantificabile di brillanti studenti malaysiani, thailandesi, indonesiani e vietnamiti prosegue gli studi a Melbourne, Armidale, Perth e Hobart. Una quota di questi studenti non lascia l’Australia, optando per lo stile di vita australiano e, solitamente, per la cittadinanza, poiché intende cogliere al volo opportunità lavorative in città o in periferia, da Burnie a Broome. La migrazione verso l’Australia ha rappresentato uno scenario allettante, soprattutto per quei gruppi che non hanno trovato vita facile una volta tornati in patria: i sostenitori vietnamiti della democrazia, i malaysiani di etnia cinese, i movimenti LGBTIQ+ indonesiani, i Rohingya. Nelle rilevazioni statistiche più recenti, almeno novecentomila persone – ossia, il 14,2% della popolazione australiana nata all’estero – sono originarie del Sud-Est asiatico.

Oggi il Sud-Est asiatico è secondo solo all’Europa nord-occidentale per numero di cittadini nati all’estero. Nella vita di tutti i giorni, la società australiana è contraddistinta da voci e idee vivaci del Sud-Est asiatico, con ogni genere di connettività che spazia dalla resilienza individuale alla politica, al commercio alla cultura. Non sorprende che a Canberra ambiziosi funzionari governativi cerchino spesso opportunità nelle ambasciate o altri incarichi nel Sud-Est asiatico. Giacarta, Singapore, Bangkok, Yangon e Hanoi vengono tutte viste di buon occhio all’interno di un curriculum, in particolare per coloro che intendono rivestire ruoli centrali nella danza geopolitica sempre più intricata dell’Australia.

Apprensioni strategiche

Il ritmo di questa danza è cadenzato dall’Association of South-East Asian Nations (ASEAN) che se, da una parte, ha cercato di integrare le aspettative australiane, dall’altra ha inteso assicurare che l’“ASEAN centrality” – una dottrina difensiva di non interferenza negli affari interni – continuasse ad avere influenza. L’Australia, esattamente come la Cina, il Giappone e la Corea del Sud, ha investito massicciamente sul multilateralismo del Sud-Est asiatico, sulla base dell’assunto – quasi corretto – che la pace e la prosperità regionale richiedano una costante attenzione ai potenziali momenti di conflitto. Da cinque anni a questa parte la sfida principale è data dalla sempre più decisa postura politica e militare di Pechino. Sono affiorate le iniziative muscolari intraprese dalla Cina, mentre gli Stati Uniti, distratti dalle questioni interne, non sono riusciti a mantenere intatta la fiducia che i suoi alleati asiatici riponevano nei loro confronti. L’Australia, storico e leale sostenitore della supremazia americana, si trova ora di fronte alla necessità di fare qualche aggiustamento.

La cruda realtà che si prospetta dinanzi ai decision-makers australiani è che, molto semplicemente, figuriamo ai margini sia di Washington sia di Pechino. Sappiamo bene che la nostra economia, la tredicesima a livello mondiale, è una fonte cruciale di importazioni sia per l’industrializzazione della Cina sia per i consumatori della sua esigente classe media. Questo vantaggio, tuttavia, non si traduce immediatamente in un incremento di influenza nei principali consessi internazionali. L’approccio australiano alla creativa diplomazia da media potenza si è a lungo scontrato con la percezione che la nostra élite di addetti ai lavori e di esperti di politica estera avalla una visione del mondo che pone sempre l’America al centro. Sofisticati analisti cinesi e del Sud-Est asiatico danno valore a queste tensioni e comprendono le difficoltà che stanno dietro alle scelte di ogni governo australiano, il quale cerca di cambiare ciò che sono stati i duraturi e vantaggiosi accordi di alleanza.

Ciò che è accaduto dal momento in cui la pandemia da COVID-19 si è diffusa dalla Cina centrale nel gennaio di quest’anno richiederà una disamina nei decenni avvenire. È aumentata la pressione competitiva tra gli Stati Uniti e la Cina e molte certezze diplomatiche, economiche e sociali sono state erose dalla disomogenea risposta globale a questo nuovo coronavirus. Fin dalla pandemia, il dibattito sulla politica estera australiana è diventato ancor più ossessionato dalla valutazione dei rispettivi punti di forza e di debolezza dei modelli politici cinese e americano. La sicurezza e la prosperità dell’Australia, caso quasi unico, dipendono da entrambe le potenze, in una cornice che è ora messa alla prova su ogni fronte.

Le nazioni del Sud-Est asiatico affrontano una serie di sfide politiche similari e si mostrano comprensibilmente riluttanti a decidere se favorire Pechino o Washington. Se gli analisti ricorrono a diversi concetti teorici – “balancing” e “hedging” – o, semplicemente, alla raffigurazione di qualche elegante passo di danza per descrivere e analizzare le loro posture strategiche, gli Stati finiscono comunque per cercare di creare uno spazio, nella regione, per una interazione pragmatica e una politica flessibile. Scegliere da che parte stare è considerato diplomaticamente imprudente e politicamente incauto secondo la cangiante ideologia dell’agnosticismo cooperativo concepita dall’ASEAN. Poiché i dieci Paesi dell’Associazione sono portatori di visioni differenti, l’organizzazione regionale ha qualche margine per placare le tante voci critiche.

In effetti, all’interno di molti Paesi del Sud-Est asiatico esistono molteplici approcci utili ad affrontare il terreno geopolitico che muta velocemente. Il Myanmar, certamente un’eccezione nella regione, contempla al suo interno gruppi etnici armati molto influenti che si dimostrano attori di politica estera reattivi, capaci di ritagliarsi da decenni porzioni di territorio sotto il loro controllo, con il sostegno di forti sostenitori internazionali. Anche in Thailandia, nelle Filippine e in Indonesia ci sono chiare aspettative, localmente definite, verso la potenza cinese e americana. La maggior parte degli attori politici, economici e militari si tutela da possibili perdite, cercando di convincere entrambe le parti della loro disponibilità a cooperare.

Disordine e incertezza

La sostenibilità degli accordi nel Sud-Est asiatico è una questione cruciale per l’Australia. Gli ultimi decenni, contrassegnati da un relativo successo economico e dalla stabilità politica, hanno certamente ridotto di intensità le preoccupazioni australiane relative a possibili scenari preoccupanti di conflitti regionali e implosioni nazionali. Se è vero che gli attacchi terroristici nella regione, e in particolar modo in Indonesia, in Thailandia e nelle Filippine hanno richiesto una grande dose di accurata attenzione, la sicurezza regionale nel suo complesso non ha subìto reali contraccolpi. È lecito attendersi che il Sud-Est asiatico continuerà a non sperimentare situazioni di reale insicurezza, ma viene da chiedersi se si tratti di una risposta razionale, soprattutto adesso che la pandemia ha stravolto così tante certezze.

Ciò che già sappiamo è che il COVID-19 continuerà a rivelare risposte differenti da sistemi politici ed economici altrettanto diversi. È anche probabile che alcuni dei più grandi cambiamenti affioreranno in tutta l’Asia, in termini sia di ripercussioni economiche sia di risultati sanitari devastanti. Gli scontri per la legittimità, già una caratteristica ricorrente del panorama regionale, si uniformeranno alla valutazione del successo o del fallimento delle risposte. Sulla base di queste condizioni, i governi cadranno e le società si frantumeranno.

Dall’Australia, teniamo d’occhio i vasti arcipelaghi del Sud-Est asiatico. Ci sono luoghi dove le molte ramificazioni della pandemia riguarderanno la prossima generazione, e anche quella successiva. La difesa del regime è ovunque un istinto forte, e spesso si fa ricorso alla violenza. Ci sono già molti esempi di uomini che con un manganello percuotono chi non osserva le regole. Dittatori e prepotenti, anche nel caso del Sud-Est asiatico, cercheranno nuovi spazi nel contesto di crisi attuale.

Gli australiani sono anche naturalmente preoccupati che una nuova serie di complicazioni emergerà in un altro aspetto della pandemia. Con 650 milioni circa di persone nel solo Sud-Est asiatico, alcuni gruppi e contesti sociali diventeranno inevitabilmente più forti dopo la crisi. Tuttavia, è probabile che le ineguaglianze si andranno ulteriormente a consolidare, soprattutto in quanto i poveri e i contesti sociali in cui la forbice è più larga si batteranno per cercare risposte adeguate alla crisi. Il disastro che si sta consumando negli Stati Uniti potrebbe ripetersi in molte aree del Sud-Est asiatico il prossimo anno, con conseguenze anche più gravi.

Come analisti, non possiamo dare per assodato che i contesti sociali dei Paesi della regione si riprendano dalla rottura che ne segue e accettare che innumerevoli vite siano a rischio. Le diseguaglianze intergenerazionali si aggraveranno ovunque, con tragici risultati per le comunità più vulnerabili, in particolare donne, adolescenti, minoranze etniche e religiose, profughi, rifugiati e coloro che vivono già in contesti fortemente militarizzati.

I prossimi passi

A questo punto, che cosa può fare l’Australia per sostenere i nostri amici del Sud-Est asiatico in questo intricato contesto? Se la diplomazia, la collaborazione e la partnership creativa costruite negli anni sono valse a qualcosa, l’Australia intenderà incrementare gli sforzi nella regione nei prossimi anni. Non sarà così semplice perseguire una siffatta politica estera e un’iniziativa umanitaria, date le enormi necessità di reinvestimento nella società australiana per un lungo periodo. Il budget del governo federale e il quadro economico nazionale complessivo sono peggiori adesso che in ogni altra fase che si ricordi.

Ciò malgrado, non è tempo di ignorare le richieste provenienti dall’Asia, in particolare dal Sud-Est asiatico e dalle aree adiacenti. La prospettiva per Paesi come l’Indonesia e il Bangladesh è sconfortante, almeno in economia. Si diffonderà in questa epoca la tendenza a ritirarsi dagli affari mondiali, ma l’Australia ha sempre fatto del proprio meglio quando c’era da condividere con gli amici ricchezza, sicurezza e opportunità.

Questo fu senza dubbio il modello di successo di innovazione e coinvolgimento dopo la Seconda guerra mondiale. Esattamente come nel 1946, non dobbiamo accettare tutto ciò che allora era sbagliato e replicarlo nuovamente nel 2019 in Australia e nel Sud-Est asiatico, nell’era post-COVID-19. Abbiamo l’occasione di costruire istituzioni migliori e una cooperazione più fitta, con una minore tolleranza verso la ristrettezza mentale e la meschinità che sono state così invitanti negli anni. Senza soffermarsi troppo sulla questione, di sicuro chi di noi ha vissuto la crisi ha un debito verso ognuno, inclusi coloro che lottano per sopravvivere e rendere un mondo più giusto per tutti.

L’anno prossimo, o negli anni seguenti, gli australiani torneranno probabilmente a frotte a viaggiare in Sud-Est asiatico. Gli aerei riprenderanno a volare, gli hotel torneranno a riempirsi e i soldi degli australiani saranno ancora ben accetti. Infatti, anche il successo dell’Australia nel ridurre le conseguenze sanitarie della pandemia sarà valutato favorevolmente, soprattutto in quelle circostanze dove le lezioni apprese e la tecnologia appropriata possono essere generosamente condivise.

Senza tirar fuori motivazioni ciniche, in questo periodo storico il sostegno umanitario australiano otterrà un vantaggio significativo in termini sia strategici sia di prestigio. La strategia diplomatica cinese nel periodo della pandemia ha già destato sospetti e, con una corretta gestione, i funzionari australiani possono evitare di commettere un simile passo falso. Purtroppo, gli Stati Uniti sono alle prese con i propri problemi interni e, davanti a queste nuove eccezionali circostanze, la danza tra il Sud-Est asiatico e l’Australia – e tutti gli altri partner – continuerà. Spetterà a una nuova generazione di leader asiatici e australiani decidere in futuro come continuare a costruire relazioni positive in una fase segnta dal disordine e dall’incertezza.

Traduzione dall’inglese a cura di Raimondo Neironi

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