[ThinkINChina] Umiliazione coloniale e nazionalismo in Cina

ThinkINChina è un’“open academic-café community” attiva a Pechino, luogo di dibattito tra giovani ricercatori e professionisti di varia provenienza impegnati nello studio della Cina contemporanea.

 

ThinkInChina, questo mese, affronta insieme ad Erik Ringmar, professore di relazioni internazionali alla Jiaotong University, il tema della memoria dell’imperialismo europeo in Cina, uno degli elementi chiave per comprendere l’identità della Cina contemporanea.

In Cina la narrazione ufficiale del “secolo delle umiliazioni” (百年国耻, bainian guochi) – ossia delle interferenze straniere sul territorio cinese dall’inizio della prima Guerra dell’Oppio nel 1839 alla fondazione della Repubblica popolare cinese (Rpc) nel 1949 – riflette non solo il modo in cui il paese percepisce se stesso ma anche la maniera attraverso cui esso guarda al suo rapporto con l’Occidente.

In quegli anni la sovranità del paese fu violentata, il territorio smembrato (瓜分 guafen) e la dignità calpestata. I segni di quell’umiliazione e i dibattiti che da essi scaturirono sono ancora vivi nel paese: oggi come ieri si discute sul modo migliore per rafforzare il paese e impedire nuove umiliazioni, sulla natura delle relazioni internazionali e sulla possibilità di stabilire dei rapporti paritari e di reciproco rispetto tra paesi. Ancora oggi, come dimostra il caso di Taiwan e il ruolo degli Stati Uniti a riguardo, la riunificazione nazionale trova nell’interferenza straniera un ostacolo con il quale confrontarsi.

Di questa memoria, il Partito comunista cinese (Pcc) ha fatto tesoro fondando su di essa la propria legittimazione a governare il paese. Il Pcc si presenta da sempre, infatti, come l’unica forza capace di garantire il riscatto nazionale contro gli oppressori stranieri, restituendo indipendenza, dignità e forza al paese. Di qui la memoria del 1949 come momento conclusivo del travaglio nazionale e inizio della rinascita del paese: “La fondazione della Repubblica popolare pose fine alle divisioni, all’umiliazione nazionale e alle sofferenze del popolo”, ha detto di recente Liu Yunshan, membro del Politburo del Pcc.

Questa narrativa consente di interpretare i successi recenti attraverso la lente delle sconfitte del passato. Un articolo del Renmin Ribao, il quotidiano ufficiale del Pcc – presentato da Peter Hays Greys in uno studio sullo scoppio delle proteste in Cina dopo il bombardamento da parte della Nato dell’ambasciata della Rpc a Belgrado – si esprime chiaramente la riguardo: “Questo è il 1999, non il 1899. Questo non è il momento in cui le potenze occidentali possono saccheggiare come credono il palazzo imperiale o distruggere il Palazzo d’Estate, o impadronirsi di Hong Kong e Macao. La Cina oggi è una Cina che si è alzata in piedi, è una Cina che ha sconfitto i fascisti giapponesi; è una Cina che ha dimostrato di essere forte e vittoriosa sugli Stati Uniti sul campo di battaglia coreano. Il popolo cinese non può più essere intimidito.”

Le celebrazioni per il centesimo anniversario della Rivoluzione repubblicana del 1911 che portò alla caduta della dinastia Qing e alla fondazione della prima Repubblica cinese hanno obbedito alla stessa logica. Il Partito ha presentato se stesso come legittimo erede della rivoluzione di Sun Yat Sen che pose fine al “feudalesimo” Qing e avviò il processo di rigenerazione ed emancipazione nazionale. Diverse critiche sono state sollevate su questa interpretazione ufficiale del 1911. In un editoriale pubblicato di recente, Chang Ping sostiene che furono il pluralismo, la libertà di espressione e l’internazionalismo – ovvero la collusione con forze esterne al paese – che consentirono alla rivoluzione di realizzarsi, ossia proprio quegli elementi contro i quali si concentrano le resistenze del Pcc.

Come fa notare Ringmar nel suo libro Liberal Barbarism, in corso di pubblicazione, il profilo “nazionalista” del Pcc è andato sempre più emergendo nel corso degli anni Ottanta come surrogato al declino dell’ideologia marxista. Un esempio di questa metamorfosi è rappresentato in maniera plastica dalle rovine del Palazzo d’Estate emerse dall’oblio proprio in quella fase come simbolo dell’umiliazione nazionale subita per opera della violenza distruttrice dell’Occidente. Nel 1860 le truppe anglo-francesi, per rappresaglia contro il rapimento di alcuni inviati occidentali alla corte imperiale, depredarono e distrussero la residenza estiva degli imperatori cinesi, trasformandola in uno dei principali simboli del “secolo delle umiliazioni”. La violazione dei bastioni culturali e istituzionali cinesi per mano dell’Occidente è stata tuttavia seguita, secondo Ringmar, da un processo di distruzione autoindotto che ha cercato di imporre al paese una nuova identità ‘moderna’. Tale identità doveva essere ribadita e imposta attraverso una serie ininterrotta di attacchi all’identità originaria e al senso di insicurezza che essa portava con sé.

In quest’ottica Ringmar, ritiene che la trasformazione di un monumento come il Palazzo d’Estate in un simbolo della debolezza e della sconfitta della nazione cinese sia il frutto di una visione hegeliana della storia della nazione cinese imposta dall’alto. Una visione falsa, in quanto fondata sull’invenzione di una nazione che non era ancora venuta alla luce, e perniciosa poiché foriera di pericolosi istinti distruttivi. “In un mondo postmoderno privo di grandi narrazioni – sostiene Ringmar – la Cina resta l’ultimo paese ad averne una; per superare tale visione è necessario dimenticare questa storia e liberare i cinesi e gli occidentali dai rispettivi sensi di colpa che essa suscita”.

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