Sicurezza, stabilità e interessi sulle sponde del Mar Rosso: il ruolo dei caschi blu cinesi

Sono passati ormai tre anni da quando il Presidente della Repubblica popolare cinese e Segretario generale del Partito comunista cinese Xi Jinping ha annunciato l’intenzione di promuovere una maggiore integrazione economica fra la Cina e i paesi del grande continente euroasiatico attraverso le cosiddette “Silk Road Economic Belt” e “Maritime Silk Road”, riunite sotto il nome di “One Belt One Road”. Se non c’è dubbio che questa iniziativa abbia un’importante componente innovativa, ben rappresentata dal Silk Road Fund e dalla Banca asiatica d’investimento per le infrastrutture (un totale di 140 miliardi di dollari Usa messi a disposizione da Cina e altri paesi che hanno aderito), è da sottolineare che la Belt & Road Initiative (Bri) rappresenta in molti modi un tentativo di armonizzare e riorganizzare la politica estera in una direzione più precisa che in passato. Uno degli obiettivi chiave è la riduzione del divario venutosi a creare fra una politica economica orientata all’espansione verso l’estero, cominciata verso la fine degli anni Novanta, e una più timida partecipazione alla gestione delle questioni di sicurezza internazionale. Che questa situazione non fosse più sostenibile divenne evidente a fine 2008, con l’emergenza determinata dagli attacchi dei pirati somali, e ancor più qualche anno dopo con la grande instabilità causata dalle primavere arabe.

Se le missioni internazionali antipirateria iniziate nel dicembre 2008 sotto mandato Onu hanno significativamente ridimensionato la minaccia alla navigazione attorno al Corno d’Africa, l’instabilità continua in Medio Oriente e nel Nord Africa richiede sforzi molto maggiori. D’altra parte, anche i rischi per i cittadini e le aziende cinesi lì presenti sono notevoli. Basti dire che dal 2002 al 2014 il solo numero di lavoratori cinesi impiegati in progetti infrastrutturali in questa regione è aumentato da poco più di 7.000 a 180.000. Parallelamente, il valore dei contratti affidati a imprese cinesi è cresciuto da un valore pari a 2,9 miliardi di dollari Usa nel 2004 a quasi 46 miliardi nel 2014. Poiché questi dati raccolti dall’Ufficio nazionale di statistica si riferiscono essenzialmente alle operazioni delle imprese di Stato, è lecito immaginare che la presenza economica cinese sia in realtà ben più vasta. È quindi chiaro che un’evacuazione di massa come quella messa in atto nel 2011 da una Libia ormai sull’orlo del precipizio va considerata come un’eccezione dovuta alla rapidità degli eventi di quel periodo, non una soluzione che possa essere replicata in altri contesti, se non in dimensioni molto minori come per lo Yemen nell’aprile del 2015.

Per questo è in atto un ripensamento della strategia cinese nei confronti delle operazioni di peacekeeping, nel cui ambito Pechino appare orientata a cercare un ruolo di maggior leadership. Alcune date fondamentali hanno segnato l’evoluzione dell’impegno cinese nelle missioni Onu. La prima è il 1989, quando, per riportare alla normalità i rapporti con il mondo dopo la repressione delle manifestazioni di Piazza Tian’anmen, la Cina inviò i primi osservatori militari in Namibia a monitorare le elezioni. La seconda è il 2004 quando, con l’invio di genieri e medici militari in Liberia, il numero di peacekeeper cinesi passò nell’arco di un anno da circa 360 a oltre mille. Da allora il numero di caschi blu cinesi ha continuato ad aumentare, raggiungendo circa 2.000 unità.

Mentre queste prime due date sono state significative in termini di crescita quantitativa, il 2012 ha rappresentato un momento di trasformazione qualitativa: il primo piccolo gruppo di soldati di fanteria è arrivato in Sud Sudan. Sebbene senza compiti di peacekeeping, ma solo di protezione dei medici e genieri miliari cinesi già presenti, questo contingente ha aperto la strada verso un maggior coinvolgimento nelle missioni Onu non solo in funzioni di supporto medico e logistico. A segnalare questa svolta, infatti, sempre nel 2012 l’ex Presidente cinese Hu Jintao firmò una nuova serie di regolamenti per ridefinire i ruoli dei peacekeeper cinesi all’estero e predisporre l’organizzazione necessaria a tale cambiamento. Nel giro di pochi anni queste nuove regole hanno permesso alla Cina di inviare truppe da combattimento in Mali e il primo battaglione di fanteria in Sud Sudan, sotto l’egida Onu. A fine 2015 il Presidente Xi Jinping ha infine dichiarato che la Cina era pronta a mettere a disposizione una forza di circa 8.000 soldati da dispiegare velocemente su richiesta dell’Onu e a fornire elicotteri da trasporto alla missione Unmiss in Sud Sudan.

Questa serie di cambiamenti avvenuti dopo il 2011 apparentemente non ha un legame particolare con gli interessi cinesi in Africa e Medio Oriente. Dopo anni di guerra quasi tutti i pozzi petroliferi del Sud Sudan sono chiusi perché si trovano sul fragile confine con il Sudan. Inoltre, gli investimenti e il numero di cittadini cinesi in Mali sono relativamente trascurabili. Tuttavia, l’elemento cruciale per capire il senso strategico della partecipazione cinese in missioni di peacekeeping sta nella fisionomia della regione. Per cominciare, Etiopia ed Egitto, che confinano rispettivamente con Sud Sudan e Sudan, sono destinazioni molto importanti per gli investimenti cinesi. Escludendo i grandi fornitori di petrolio e gas naturale della Cina, l’Egitto – dove è presente uno dei fiori all’occhiello della politica economica e di cooperazione cinese in Africa, la China-Egypt Suez Economic and Trade Cooperation Zone – è infatti il secondo paese in cui Pechino ha investito di più nella regione dopo l’Algeria. L’Etiopia invece viene terza. Inoltre, in Etiopia nel giro di una dozzina d’anni il numero di lavoratori cinesi registrato dalle statistiche ufficiali è passato da circa 1.200 a più di 14.000. Egitto ed Etiopia sono due paesi strategici per la loro posizione alle due imboccature del Canale di Suez. La scelta cinese di costruire le prime installazioni militari all’estero a Gibuti ufficialmente proprio per fornire un supporto logistico più solido alle truppe impegnate nel peacekeeping e alle navi che pattugliano il Golfo di Aden si inserisce bene in questa strategia mirante a mantenere la stabilità lungo le sponde del Mar Rosso. La situazione in Mali si può interpretare in maniera simile. L’eventuale caduta nel caos del Mali potrebbe avere pesanti ripercussioni sull’Algeria, una delle principali destinazioni di investimenti e lavoratori cinesi nella regione (da poco più di 14.000 a 71.000 lavoratori cinesi fra il 2002 e il 2014 e quasi 10 miliardi di dollari Usa investiti solo nel 2014), e Niger, dove negli ultimi anni gli investimenti cinesi sono aumentati rapidamente in progetti di vario tipo.

In conclusione, attraverso le missioni di peacekeeping la Cina punta a consolidare i propri interessi e, allo stesso tempo, a contribuire in maniera costruttiva alla sicurezza regionale. A settembre 2015, durante il suo primo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni unite, Xi Jinping ha parlato di sicurezza sostenibile, basata sulla cooperazione e sugli interessi comuni: va preso atto che alle parole stanno effettivamente facendo riscontro fatti concreti.

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