Se costruisci, verranno: il rischio calcolato di Jokowi in politica estera

Dieci giorni dopo il 20 ottobre 2014, data in cui il Presidente Joko Widodo aveva prestato giuramento, si sparse la notizia che il nuovo leader volesse che tutti i diplomatici indonesiani diventassero qualcosa che né loro né i loro predecessori avevano mai ritenuto essenziale per la professione di diplomatico: venditori dell’Indonesia. La notizia ebbe un effetto scioccante dal momento che arte del vendere e diplomazia non sono compatibili nell’ordine delle cose indonesiano. Per quanto strana, l’idea del diplomatico venditore fu tuttavia il primo segnale che le cose sarebbero cambiate sotto il nuovo Presidente.

Tornare alle fondamenta 

Nei mesi successivi, gli osservatori di politica estera hanno incominciato a preoccuparsi per la mancanza di direzione e di interesse dell’esecutivo, in un Paese normalmente caratterizzato da una politica estera proattiva. Contrariamente alle aperture internazionaliste che avevano connotato la precedente decade sotto la presidenza di Susilo Bambang Yudhoyono, l’Indonesia stava assumendo, infatti, una posizione ai margini della scena internazionale. Tradizionalmente conosciuta per la sua dottrina “libera e attiva”, attualmente la politica estera indonesiana non è più molto attiva. La svolta verso l’interno emerge chiaramente dal fatto che la presenza indonesiana ai vertici internazionali e alle riunioni di alto livello non è più un fatto scontato. Si dice che fare in modo che il Presidente Jokowi, come è meglio noto, partecipi a tali eventi richieda una prodigiosa opera di convincimento. Nel 2016, a titolo d’esempio, Jokowi ha deciso di saltare l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e il Summit APEC a Lima in Perù, gesto impensabile per il suo predecessore. Sottinteso a questo dietrofront c’è un azzardo. Il Presidente Jokowi si sta dedicando a impostare correttamente le fondamenta: infrastrutture, sistema sanitario universale, macchina burocratica agile, riduzione della corruzione e migliore istruzione per i giovani indonesiani. Dato il chiaro potenziale del Paese la scommessa è: gli interessi stranieri si manifesteranno e gli investimenti affluiranno nel lungo periodo, una volta che le fondamenta saranno saldamente collocate al loro posto. Con la nuova enfasi di porre la diplomazia al servizio delle riforme economiche, i diplomatici indonesiani hanno ora il compito di aprire nuovi mercati e cercare nuova domanda per i prodotti e servizi del Paese. Il nuovo modo di pensare il ruolo dei diplomatici è: maggiore produzione comporta salari più elevati e di conseguenza maggiori entrate pubbliche, dai salari più alti e dai maggiori beni pubblici – che il governo riesce ora a garantire – deriva una base più solida per una vita migliore.

Un disegno intenzionale di politica estera

Tutto ciò ha prodotto una politica estera nuova sia per stile sia per sostanza. Intenzionalità, non mero attivismo, è ora l’orientamento principale della nostra politica estera. Il Governo ora decide su quali questioni impegnarsi e come esercitare i propri interessi e diritti. Sono ormai lontani i giorni della politica estera del ‘migliaia di amici e zero nemici’ che ha prevalso sotto l’ex Presidente Yudhoyono. Il coinvolgimento e l’impegno dell’Indonesia su qualsiasi questione internazionale richiede ora un’esplicita spiegazione del modo in cui tale coinvolgimento o impegno possa portare benefici al Paese. Oggigiorno per suscitare una risposta positiva da parte di un decisore indonesiano bisogna essere preparati a fornire una risposta positiva a una domanda: questo vertice o questo impegno internazionale come rendono tangibilmente migliore la vita degli indonesiani? Ma esattamente che cosa considera importante l’Indonesia di oggi? Nel suo manifesto per le elezioni presidenziali, Jokowi ha elencato solo quattro priorità di politica estera: protezione delle acque indonesiane, rafforzamento dello status di media potenza, coinvolgimento nella regione Indo-Pacifica, riforma del processo di politica estera. Dopo le elezioni, Jokowi ha incorporato queste priorità nella sua visione di trasformare l’Indonesia in un asse marittimo globale. Anche questa nuova visione è legata allo sviluppo domestico e allo stesso tempo influenza la postura internazionale dell’Indonesia. La formula omnicomprensiva dell’asse marittimo è, infatti, alla base degli sforzi del governo volti sia a creare un sistema sovvenzionato di trasporti marittimi attraverso il programma Sea Toll Road, sia a modernizzare i porti marittimi in tutto l’arcipelago. L’obiettivo primario di questi imponenti progetti infrastrutturali consiste nel connettere ogni angolo del Paese.

Nello stesso quadro va vista la fermezza della Ministra degli Affari Marittimi e della Pesca, Susi Pudjiastuti, la quale non ha esitato a far valere i diritti del Paese sulle proprie acque anche a costo di catturare e far esplodere, a fini di deterrenza, pescherecci thailandesi, vietnamiti o cinesi sorpresi a operare illegalmente nelle acque indonesiane. L’Indonesia, tuttavia, guarda anche oltre il Sud-est asiatico, come dimostra il fatto che stia guidando il processo di fondazione dell’Associazione rivierasca dell’Oceano Indiano (IORA). Si tratta di una delle prime organizzazioni internazionali che l’Indonesia abbia contribuito a istituire dopo la fine del regime di Suharto e a marzo 2017 si terrà a Giacarta il primo summit. Sebbene l’Associazione sia appena agli inizi, la IORA potrebbe rivelarsi un’altra pietra angolare per la politica estera indonesiana, assieme alle altre due organizzazioni di cui l’Indonesia è membro fondatore: l’ASEAN e il Movimento dei paesi non allineati.

*Le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente dell’autore. Traduzione dall’inglese a cura di Gabriele Giovannini

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