Santa Sede e Cina in rotta di collisione

Se il 2010 è stato un anno difficile per i rapporti tra la Cina e diversi partner internazionali, non si può dire siano stati più semplici quelli con l’unico Paese europeo che ancora non riconosce la Repubblica popolare: il Vaticano. Come analizzato in dettaglio da Francesco Sisci su Asia Times Online e La Stampa, lo scorso 9 dicembre, le autorità cinesi hanno impresso un’accelerazione al processo di rinnovamento della leadership della Chiesa cattolica cinese ufficialmente riconosciuta.

Le due istituzioni che governano questa chiesa ufficiale di circa quattro milioni di aderenti – cui si contrappone una comunità di credenti sotterranea, fuorilegge e fedele al Papa, che potrebbe contare su un numero pari o anche superiore di affiliati – sono l’Associazione patriottica dei cattolici cinesi (Apcc) e il Collegio dei vescovi cattolici di Cina. Mentre la prima rappresenta da sempre un ostacolo critico nella normalizzazione dei rapporti bilaterali per la sua pretesa di surrogare l’autorità papale sulla Chiesa in Cina, il secondo non gode della legittimazione quale conferenza episcopale pienamente riconosciuta, non facendone parte i vescovi clandestini (fedeli al Papa, ma invisi alle autorità di Pechino) e trovandovi, invece, posto vescovi ordinati illecitamente (senza il consenso del successore di Pietro).

Presente in Cina da più di 700 anni, a partire dall’evangelizzazione dei mongoli a Pechino nel 1294 ad opera del francescano Giovanni da Montecorvino, il cattolicesimo conobbe un glorioso periodo di fioritura quale “ponte” tra Occidente e Oriente in particolare grazie alla missione dei gesuiti avviata da Matteo Ricci nel 1583. Fu la vittoria comunista nel 1949 che, nell’arco di due anni, portò alla rottura delle relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e la Rpc. Da allora, i rapporti bilaterali hanno attraversato diverse fasi, culminate in un atteggiamento di maggiore apertura nel periodo delle riforme di Deng Xiaoping. Nell’ultimo decennio non sono mancati colloqui riservati a vario livello per affrontare gli snodi critici che impediscono il ristabilimento a Pechino della nunziatura apostolica, oggi a Taipei.

Tra i principali, il ruolo della Apcc medesima (retaggio della tradizione atea e maoista del Pcc e incompatibile con l’universalità della Chiesa cattolica), l’ordinazione dei vescovi (Pechino interferisce con l’autorità papale per evitare la nomina di figure potenzialmente destabilizzanti per il regime), la proprietà dei beni ecclesiastici e la possibile ricomposizione dell’unità tra la comunità clandestina dei credenti e quella ufficiale, che teme di perdere status e privilegi. A ciò si deve aggiungere un dato eminentemente diplomatico: la Santa Sede è uno 23 Paesi che ancora riconosce Taiwan e un eventuale trasferimento della nunziatura nella Cina continentale accrescerebbe l’isolamento di Taipei. Ciò non è nell’interesse di Pechino, perché in una Taiwan più isolata potrebbero riprendere vigore le forze che si oppongono alla politica di engagement verso la Cina continentale perseguita sin qui dal Presidente Ma Ying-jeou (le elezioni presidenziali si terranno nel 2012). Nel 2010 Pechino è riuscita a migliorare notevolmente i rapporti con Taipei e non vuole compromettere i risultati acquisiti.

A questi problemi strutturali se ne aggiungono altri più immediati, che hanno eroso la fiducia tra le due parti, riducendola ai minimi termini. Con tempismo alquanto dubbio, nel 2000 papa Giovanni Paolo II aveva canonizzato 120 martiri cinesi proprio il 1° ottobre, giorno in cui la Rpc celebra la propria fondazione e la fine del “secolo delle umiliazioni”. Altalenante anche la vicenda della nomina di vescovi da parte di Pechino, una pratica iniziata nel 1958 e vissuta in Vaticano ogni volta come una “profonda ferita della comunità ecclesiale”. Nel corso del decennio scorso la Santa Sede aveva trovato un punto di equilibrio con Pechino nella prassi di indicare un nome o una rosa di nomi di candidati vescovi, lasciando all’Apcc il diritto di scelta. Ma nel 2006 fu nominato vescovo di Kunming, capitale della provincia meridionale dello Yunnan, il prelato quarantenne Ma Yinglin, tuttora non riconosciuto dal Papa. Ora, dal 9 gennaio scorso, Ma è per volere di Pechino anche Presidente del Collegio dei vescovi cattolici di Cina. Questa nomina ha causato profondo sconcerto nella comunità cattolica cinese, anche perché vescovi e sacerdoti esprimono sovente una posizione molto avanzata, adoperandosi per ricomporre l’unità tra aderenti alla chiesa patriottica e fedeli clandestini. Ad animare questi sforzi di riconciliazione, che traggono ispirazione dalla Lettera indirizzata da Papa Benedetto ai cattolici di Cina nel 2007, sono soprattutto i vescovi riconosciuti da entrambe le autorità.

La reazione vaticana, di ferma condanna, della nomina di Ma segue di pochi giorni il messaggio Urbi et Orbi che il Pontefice ha pronunciato il giorno di Natale, scegliendo di dedicare l’ultimo paragrafo specificamente ai “fedeli della Chiesa nella Cina continentale, affinché non si perdano d’animo per le limitazioni alla loro libertà di religione e di coscienza e, perseverando nella fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa, mantengano viva la fiamma della speranza”. Secondo una lettura strettamente diplomatica, il Papa fa riferimento al comportamento delle autorità cinesi, che obbligherebbero i vescovi riconosciuti dall’Apcc e dalla Santa Sede a presenziare all’ordinazione episcopale di sacerdoti che non hanno ricevuto l’approvazione del Papa. Il caso più recente è quello del reverendo Joseph Guo Jincai, ora vescovo illegittimo di Chengde. Ma c’è chi ha voluto leggere nelle parole del pontefice – in particolare nel fatto che abbia menzionato non solo la libertà “di religione”, ma anche quella “di coscienza” – una denuncia a più ampio spettro delle limitazioni alla libertà cui sono sottoposti i credenti (e cittadini) cinesi. Ciò significherebbe, secondo alcuni, che il Vaticano è pronto ad affrontare – o comunque ritiene inevitabile – un inasprimento dei rapporti con le autorità cinesi. Nella Curia si confrontano d’altronde, due approcci sulla politica da tenere nei confronti di Pechino: l’uno più pronto all’apertura “sul terreno”, l’altro ancorato alla difesa di principi ritenuti inderogabili (specie in presenza di una controparte ritenuta del tutto inaffidabile). Al momento, la seconda linea di pensiero sembra nettamente prevalere sulla prima.

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