All’ombra di una guerra maggiore: i riflessi caucasici del conflitto in Ucraina, tra riposizionamenti strategici, negoziati e violenza

L’aggressione russa all’Ucraina ha modificato in profondità gli assetti di sicurezza in Europa, ribaltando in breve tempo percezioni, prospettive e posizioni consolidate. Uno stravolgimento complessivo che ha spinto alcuni paesi ad aderire alla NATO, rinunciando così alla loro caratteristica neutralità, mentre altri – se non addirittura gli stessi – hanno deciso di aumentare le loro spese militari e adottare politiche più liberali sull’esportazione di armi.

Riverberi importanti si avvertono anche in contesti periferici, fuori dalla nostra visuale consueta. È il caso del Caucaso meridionale e dei suoi conflitti pluridecennali spesso definiti, secondo una visione più impressionistica che analitica, “congelati”: le due secessioni, variamente sponsorizzate dalla Russia che frammentano il territorio georgiano, Abkhazia e Ossezia meridionale, e il conflitto del Nagorno-Karabakh che vede Armenia e Azerbaijan ancora coinvolti in una diatriba che precede la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Gli effetti della guerra in Ucraina sul Caucaso meridionale sono molteplici, complessi e a lungo termine, e offrono notevoli spunti di riflessione sul futuro di una regione che costituisce il vicinato europeo e che presenta un rilievo strategico crescente in termini di sicurezza, connessioni globali ed approvvigionamento energetico.

A seguito e in funzione dell’invasione dell’Ucraina, la Russia ha ritirato numerosi contingenti che stazionavano in diverse parti del Caucaso, dall’Abkhazia, all’Ossezia meridionale e all’Armenia. Il rapido consumo di ingenti risorse militari e l’esito modesto dell’offensiva in Ucraina hanno pesantemente danneggiato la capacità della Russia di proiettare altrove il potere armato su cui, presumibilmente, si basava buona parte della sua influenza nei vari “cortili di casa”. Di conseguenza, si è molto ridotta anche la sua capacità, reale e percepita, di porsi come paciere o negoziatore nei diversi conflitti caucasici e di offrire garanzie di sicurezza ai propri ‘clienti’ locali come nel caso dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC) – un’alleanza militare euroasiatica a guida russa – che si è dimostrata completamente inerte e inadeguata a difendere l’Armenia, suo paese membro, dalle incursioni militari dell’Azerbaijan, nel settembre del 2022. Contestualmente, alla guerra in Ucraina ha fatto seguito un ulteriore indebolimento di diversi fori multilaterali di cui la Russia fa parte, come l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), la cui operatività è bloccata dalla frattura tra Mosca e il blocco occidentale, allargatasi con l’invasione dell’Ucraina.

Il vuoto strategico lasciato dalla Russia ha indotto diversi attori caucasici a cercare alleanze e protezioni alternative, a irrigidire le proprie posizioni in sedi negoziali, o ad approfittare della situazione a proprio vantaggio. Ciò ha portato in alcuni casi a un aumento della conflittualità locale (come tra Azerbaijan e Armenia), alla delegittimizzazione degli sforzi di risoluzione dei conflitti (a prescindere dal coinvolgimento o meno della Russia) e alla comparsa sulla scena di mediatori che in precedenza non erano particolarmente attivi nella regione, come l’Unione europea (UE) e gli Stati Uniti. Avvicinando lo sguardo alla regione, però, si osserva come l’effetto di questi fattori vari nei diversi contesti subregionali.

In Georgia, il riverbero della guerra in Ucraina è visibile nelle attività delle Discussioni internazionali di Ginevra (GID). Presiedute congiuntamente da OSCE, UE e Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) le GID rappresentano la cornice in cui si affrontano le conseguenze del conflitto del 2008 in Georgia e riuniscono i rappresentanti di tutti i partecipanti al conflitto: Georgia, Russia e le province separatiste di Abkhazia e Ossezia del Sud — oltre che gli Stati Uniti come facilitatore. Oltre a discutere il ritorno di rifugiati e sfollati nelle aree di origine e altre questioni umanitarie (come quella delle persone scomparse a seguito del conflitto, della libertà di movimento e dell’uso della lingua georgiana nelle scuole dell’Abkhazia), le GID affrontano il tema dell’uso, o meglio del non-uso, della forza: la Georgia ha assunto unilateralmente l’impegno a non utilizzare la forza nel 2010 mentre la Russia rifiuta di farlo asserendo di non essere una parte in conflitto e insiste che la Georgia firmi accordi sul non uso della forza direttamente con le province separatiste, cosa che la Georgia rifiuta di fare ritenendo le due province parte integrante del suo territorio sovrano.

L’aggressione russa all’Ucraina ha posto i co-presidenti delle GID davanti a numerosi dilemmi: da un lato vi sono la necessità di proteggere le GID dai dissidi globali derivanti dal conflitto in Ucraina e la volontà di non offrire alla Russia una piattaforma in cui si potesse presentare come una forza pacificatrice in Caucaso mentre conduce una guerra di aggressione. Dall’altro lato vi è la necessità delle parti in conflitto (in Georgia) di avere un foro di confronto su questioni quotidiane e di lungo termine, funzione assolta solo dalle GID. La sessione delle GID prevista per il marzo 2022 è stata sospesa, e si è tenuta solo nell’ottobre del 2022 in versione ‘ridotta’, per marcare una discontinuità con le fasi precedenti e segnalare l’anomalia del ruolo della Russia. Secondo la stessa logica, e per mettere il processo al riparo dagli sviluppi regionali più generali, i co-presidenti hanno deciso di ridurre la frequenza degli incontri. Questi accorgimenti sono stati criticati dalla Russia e dalle province secessioniste, che chiedevano il rispetto delle modalità classiche di svolgimento delle GID. Oltre ai disaccordi sul formato, le posizioni sulla sostanza da parte dei partecipanti si sono radicalizzate. I partecipanti russi rifiutano la proposta dei co-presidenti di rivisitare il mandato delle GID e di discutere questioni fondamentali quali il ritiro delle truppe russe dalle province secessioniste, un possibile monitoraggio internazionale nelle “entità”, e questioni relative a sfollati e rifugiati, concentrando invece i propri sforzi sull’ottenimento di un accordo vincolante sul non uso della forza tra Georgia, Abkhazia e Ossezia meridionale, negando qualsiasi responsabilità nel conflitto georgiano e anzi attribuendosi un ruolo di ‘facilitatore’. Specularmente, anche i rappresentanti georgiani hanno adottato una posizione più radicale, indicando che il proprio coinvolgimento nel processo fosse d’ora in poi condizionato a progressi sulle core issues, esattamente quelle che la Russia non voleva affrontare. Da ultimo, la Georgia ha denunciato pressioni da parte dei paesi occidentali, inclusa la UE, affinché aprisse un secondo fronte con la Russia, accuse che i negoziatori UE hanno definito del tutto infondate, ma rilanciate strumentalmente dalla Russia stessa. Gli effetti della guerra in Ucraina sul conflitto in Georgia hanno dunque riguardato principalmente il processo negoziale volto alla soluzione del conflitto, mettendone in discussione il formato, ostacolandone la dinamica e radicalizzando le posizioni degli attori.

Ancora più evidenti e possibilmente di più ampia portata sono gli effetti sul conflitto in Nagorno-Karabakh tra Armenia e Azerbaijan. Il Nagorno-Karabakh è una regione a maggioranza armena che faceva parte della repubblica sovietica dell’Azerbaijan, con uno statuto di autonomia, che nel 1988, aprendo uno squarcio nella prassi politica e legale sovietica e interrogando la perestrojka di Gorbačëv, chiese di essere annesso all’Armenia. A seguito del fallimento di diversi tentativi di mediazione scoppiò un conflitto armato (1992-1994) in cui l’Armenia prevalse e occupo’ militarmente il Nagorno-Karabakh e le aree dell’Azerbaijan ad esso adiacenti, creando una forma di cuscinetto. Il conflitto provocò 25mila vittime, un milione di sfollati, e l’esodo di centinaia di migliaia di Azeri. Dai primi anni Novanta il cosiddetto “gruppo di Minsk” dell’OSCE, co-presieduto da Francia, Russia e Stati Uniti, si era impegnato nel trovare una soluzione al conflitto, con negoziati estenuanti, ricognizioni sul campo e proposte anche molto sofisticate, ma soggette ai precari equilibri politici nei due paesi e alle loro opposte visioni del conflitto. In Armenia il ‘partito’ di coloro originari del Nagorno-Karabakh era particolarmente influente, poco propenso a soluzioni di compromesso e in generale convinto di poter contare su una continua supremazia militare. Questo calcolo si rivelò tragicamente errato quando l’Azerbaijan, sempre più insofferente dello status quo, utilizzò i proventi del commercio delle sue risorse energetiche per una poderosa campagna di riarmo, con il contributo del suo alleato storico, la Turchia. Nel settembre del 2020 iniziò la seconda guerra del Nagorno-Karabakh, in cui in 44 giorni l’Azerbaijan ribaltò gli esiti del conflitto precedente, riconquistando i territori persi a favore dell’Armenia nei primi anni Novanta e circa un terzo del territorio del Nagorno-Karabakh in senso proprio. Il secondo conflitto si chiuse con un cessate il fuoco mediato dalla Russia (indipendentemente e all’insaputa degli altri membri del gruppo di Minsk) nel novembre 2020, che prevedeva: il dispiegamento di un contingente di duemila peacekeeper russi per cinque anni nelle aree del Nagorno-Karabakh non “riconquistate” dall’Azerbaijan, e lungo un corridoio che collega queste aree con l’Armenia, il corridoio di Lachin; la libera e sicura circolazione lungo tale corridoio; il ritorno all’Azerbaijan dei territori occupati dall’Armenia negli anni Novanta; la creazione di collegamenti tra l’Azerbaijan e la sua exclave del Nakhchivan attraverso l’Armenia, e di lì verso il resto della regione.

I termini del cessate il fuoco del novembre del 2020 rappresentano l’agenda concreta di una possibile normalizzazione dei rapporti tra Armenia e Azerbaijan, e la base di un accordo di pace dopo oltre trent’anni di conflitto. La Russia si è ritagliata un ruolo centrale in questo processo, tanto come mediatore tra le leadership dei due paesi quanto nell’ambito dei negoziati tuttora in corso sulla questione della demarcazione dei confini e della creazione di connessioni e infrastrutture generali, e sulla redazione di un possibile trattato di pace. Tuttavia, la guerra in Ucraina ha fortemente indebolito la capacità della Russia di far rispettare i termini del cessate il fuoco del novembre del 2020, di impedire l’aumento delle tensioni a livello locale e di far progredire i negoziati di pace. Oltre a ‘distrarre’ la Russia militarmente e politicamente, il conflitto in Ucraina ha anche reso più strategiche le risorse energetiche azere e l’Azerbaijan, sempre più spavaldo e sicuro di sé, ha ripetutamente testato la capacità di reazione dei peceakeeper russi, arrivando a bloccare quasi completamente il corridoio di Lachin e sottoponendo la popolazione armena del Karabakh a un assedio che dura dal dicembre 2022, con gravi e crescenti conseguenze umanitarie (la logica dell’Azerbaijan è che le circostanze del cessate il fuoco siano cambiate, sostenendo che il corridoio di Lachin veniva usato dall’Armenia per fornire armi e uomini alle forze armate degli armeni locali e che quindi gli armeni del Karabakh dovrebbero ottenere rifornimenti dall’Azerbaijan e non dall’Armenia). Nel settembre 2022, poi, l’Azerbaijan ha sferrato una pesante offensiva non sulla linea di contatto ma sul confine bilaterale tra Armenia e Azerbaijan, che in soli due giorni ha causato quasi trecento vittime e centinaia di feriti da entrambi i lati (con un numero sorprendentemente alto di vittime anche tra i soldati azeri).

Se l’Azerbaijan ha evidentemente tratto vantaggio dalla nuova situazione strategica determinata dalla guerra in Ucraina, l’Armenia si è trovata priva del suo alleato e difensore tradizionale, la Russia, e ha cercato nuove alleanze e possibili protettori. L’UE e in parte gli Stati Uniti hanno assunto un ruolo crescente, parzialmente colmando il vuoto strategico ma scontrandosi con le tensioni sul terreno, la disparità delle forze in campo e la difficoltà di sciogliere il nodo principale: i diritti e la sicurezza degli armeni in Nagorno-Karabakh. Gli effetti specifici della guerra in Ucraina sul conflitto tra Armenia e Azerbaijan sono dunque una drammatica riduzione del potere deterrente e negoziale della Russia, la conseguente difficoltà a far rispettare i termini negoziali del cessate il fuoco, l’aumento della conflittualità tra attori locali e la comparsa e la relativa affermazione di nuovi soggetti nel processo negoziale.

Infatti, se è vero che l’UE ha avuto un ruolo prominente negli sforzi per risolvere il conflitto in Georgia sin dal 2008 – co-presiedendo le GID e attraverso una fondamentale missione di monitoraggio sulle linee di confine amministrativo tra la Georgia e le province secessioniste – è anche vero il suo coinvolgimento nel conflitto tra Amenia e Azerbaijan è sempre stato abbastanza limitato, avendo delegato i tentativi di risoluzione al gruppo di Minsk. Dopo la marginalizzazione di quest’ultimo a seguito della guerra del 2020 in Nagorno-Karabakh, l’UE ha sorpreso molti osservatori assumendo un ruolo centrale nel processo di normalizzazione e imprimendovi un ritmo importante: dal dicembre 2021 al luglio del 2023 il Presidente del Consiglio europeo Michel ha riunito i leader di Armenia e Azerbaijan sei volte, affrontando uno spettro di temi che vanno dal rispetto dell’integrità territoriale alla demarcazione dei confini, alle questioni umanitarie (persone scomparse, sminamento, prigionieri), alla connettività e ai diritti degli Armeni in Nagorno-Karabakh. I temi in agenda sono grossomodo quelli delineati nel novembre 2020, ma sono ora affrontati simultaneamente e a livello di leadership: si tratta infatti dell’unico formato in cui i leader dei due paesi si incontrano con continuità. Il “processo di Bruxelles”, dopo aver permesso alle parti uno scambio continuo e approfondito per individuare soluzioni concrete e progredire verso la normalizzazione, anche sfruttando le sinergie del sistema UE (la presenza e il ruolo cruciale di un rappresentante speciale dedicato, accordi bilaterali e partnership politiche, programmi di assistenza finanziaria, ruolo dei paesi membri) ha subito una battuta d’arresto con l’escalation del settembre 2022. L’UE, colta di sorpresa, ha tuttavia disposto l’invio di osservatori sul confine tra i due paesi, dispiegati prima in forma provvisoria (usando risorse della missione in Georgia) e poi, dal febbraio del 2023, come missione a sé stante nell’ambito della sua Politica di Sicurezza e Difesa Comune (PSDC), la prima in un paese aderente all’OTSC. Gli osservatori europei forniscono all’UE informazioni di prima mano sulla situazione lungo il confine, anche in funzione del processo di normalizzazione e di pace.

In seguito all’invasione dell‘Ucraina, Mosca ha percepito gli sforzi dell’UE in modo sempre più ostile, accusando Bruxelles di inesperienza, di voler esacerbare la situazione ed escludere la Russia dall’area, ribadendo invece il proprio ruolo come principale garante del cessate il fuoco del 2020. L’UE ha risposto che non ha interesse in una competizione sulle reciproche sfere di influenzama solo in un Caucaso meridionale pacifico e prospero. La Russia sembra quindi prediligere meccanismi che le assicurino il ruolo di arbitro e una presenza costante nella regione in una logica di controllo, mentre il modello di pacificazione proposto dall’UE si incentra su una prospettiva trasformativa (benché le considerazioni rispetto alla rilevanza strategica dell’area in termini energetici e di comunicazione con l’Asia centrale e la Cina non possono ritenersi completamente estranee alla scelta dell’UE di svolgere un ruolo più significativo nel Caucaso meridionale). I maggiori ostacoli che l’Ue incontra sono tuttavia sul terreno: il relativo successo dei negoziati condotti a Bruxelles non ha ridotto significativamente le tensioni e non ha evitato il ricorso alla violenza da parte soprattutto dell’Azerbaijan per mettere pressione all’Armenia e agli Armeni in Nagorno-Karabakh. Se Bruxelles è uno spazio sicuro, in cui le parti hanno modo di discutere e accorciare la distanza tra le loro posizioni, gli scontri a bassa intensità sul confine tra i due stati e l’assedio del Nagorno-Karabakh disegnano uno squilibrio di forze a sfavore dell’Armenia, e soprattutto degli Armeni in Nagorno-Karabakh, dove le condizioni della popolazione peggiorano quotidianamente. Nonostante l’Azerbaijan abbia più volte ribadito il suo interesse nel processo di Bruxelles, sembra però spesso più interessato a imporre le sue condizioni e ad apporre una patina di credibilità internazionale alla propria supremazia militare.

Il vero nodo gordiano sono i diritti e la sicurezza degli Armeni in Nagorno-Karabakh, che il processo di Bruxelles continua a mettere in primo piano. L’Armenia ha riconosciuto che il Nagorno-Karabakh fa parte dell’Azerbaijan, ma, assieme alla comunità internazionale, richiede che Baku avvii un dialogo con i rappresentanti degli Armeni in Nagorno-Karabakh sul loro futuro. La risposta azera nei fatti è stata finora il perdurante blocco del corridoio di Lachin e la creazione di una crisi umanitaria. La soluzione di questo punto del processo di normalizzazione rappresenta il test più importante per le ambizioni dell’UE nel Caucaso meridionale.

In conclusione, la guerra in Ucraina ha ridotto la capacità della Russia di condizionare le traiettorie dei conflitti nel Caucaso meridionale, ostacolato le dinamiche dei processi negoziali in corso e influenzato le considerazioni strategiche delle parti in campo. Alcuni attori locali ne hanno approfitatto per forzare la situazione a proprio vantaggio mentre alcuni attori globali, come l’UE, stanno provando ad assumere un ruolo più significativo. Per quanto meno influente, la Russia continua tuttavia a essere un attore con cui fare conti, tanto per i partecipanti al conflitto quanto per i loro interlocutori regionali e globali. La via per una pace sostenibile, che continua ad apparire distante, passa per un superamento delle logiche a somma zero e delle soluzioni militari, in un’ottica di cooperazione e normalizzazione delle relazioni politiche, non basate sulla presenza di arbitri interessati (la pax russica) ma frutto di scelte autonome e consapevoli delle parti. La capacità dell’UE di offrire una piattaforma a questo scopo non è scontata, e dipenderà dalla sua risposta alla crisi in Karabakh e a una sua possibile, ulteriore escalation militare.


Per saperne di più:

Conciliation Resources (2022) Under the Pall of War. Implications of Russia’s Invasion of Ukraine for Peace Processes in the South Caucasus. Disponibile su: https://www.c-r.org/learning-hub/under-pall-war

Deen, B., Wouter, Z. and Linder, C. (2023) The EU in the South Caucasus. Navigating a geopolitical labyrinth in turmoil. Disponibile su: https://www.clingendael.org/pub/2023/the-eu-in-the-south-caucasus/

International Crisis Group (2023) New Troubles in Nagorno-Karabakh: Understanding the Lachin Corridor Crisis. Disponibile su: https://www.crisisgroup.org/europe-central-asia/caucasus/nagorno-karabakh-conflict/new-troubles-nagorno-karabakh-understanding-lachin-corridor-crisis

Zakaryan, L. (2023), Blockade: (re)creating collective trauma in Nagorno-Karabakh. Disponibile su: https://indiepeace.org/blockade-recreating-collective-trauma/

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