Relazioni Ue-Cina senza reciprocità

Negli scorsi mesi due importanti notizie sono state pressoché ignorate dai media italiani, concentrati sulle elezioni europee e sulle promesse di future riforme: il superamento della soglia del 2% nella compagine azionaria sia di Enel che di Eni da parte della Banca centrale cinese e l’acquisizione ad opera di Shanghai Electric di una quota pari al 40% del capitale di Ansaldo Energia. Concentrando l’attenzione sulla seconda vicenda, occorre segnalare come la stessa società – quotata a Hong Kong e Shanghai ma facente parte del gruppo State Grid Corporation of China – sia già stata molto attiva sul mercato europeo negli ultimi mesi: è del marzo scorso l’acquisizione di una quota del 33% di Enemalta.

L’ingresso di Shanghai Electric nel capitale di Ansaldo Energia è stata l’ennesima occasione persa per fare una seria riflessione sul principio di reciprocità nei rapporti tra Cina ed Italia nonché, più in generale, tra Cina ed Unione europea.

Il principio di reciprocità prevede, tra le sue diverse declinazioni, che un paese A riconosca un determinato diritto ad una persona fisica o giuridica di un paese B a condizione che il paese B riconosca il medesimo diritto ad una persona fisica o giuridica del paese A. Generalmente considerato come principio fondamentale del diritto internazionale, il principio di reciprocità è espressamente riconosciuto dal diritto italiano (articolo 16 delle disposizioni preliminari al codice civile).

Ove questo basilare principio venisse effettivamente applicato dalle autorità italiane/europee la libertà di investimento delle imprese cinesi nel vecchio continente sarebbe fortemente limitata, cosi come del resto lo è per le imprese italiane/europee che intendono operare ed operano in Cina. Dal momento che la Cina limita fortemente gli investimenti stranieri attraverso un dettagliato catalogo, ove il principio di reciprocità fosse applicato alla lettera gli investimenti cinesi in Italia sarebbero soggetti alle medesime limitazioni.

Lo stesso può dirsi di altri segmenti dell’economia, il settore bancario ad esempio: le principali banche occidentali hanno provato ad entrare nel mercato cinese sin dagli anni ottanta, trovando enormi ostacoli, sicché il loro ruolo resta tuttora assolutamente marginale e l’ambito di operatività fortemente limitato. Al contrario, alle banche cinesi viene nella più parte dei casi steso il tappeto rosso affinché si stabiliscano in Europa. Negli scorsi anni si è assistito ad una sorta di competizione tra i paesi europei per attrarre le banche cinesi: il Regno Unito, ad esempio, ha inteso offrire alle banche cinesi la possibilità di aprire delle filiali che, a differenza di società incorporate in Inghilterra, restano quindi sostanzialmente soggette alla vigilanza delle autorità cinesi. Il Lussemburgo si sta gradualmente affermando come piattaforma bancaria e finanziaria delle imprese e banche cinesi in Europa, che possono poi aprire filiali negli altri paesi Ue beneficiando della morbida normativa e vigilanza lussemburghese (un esempio significativo è quello di Industrial and Commercial Bank of China, Icbc). Banche italiane ed europee non potrebbero neanche sognare questo tipo di opportunità per le proprie attività in Cina.

A questa situazione si può correttamente obbiettare che le concezioni di mercato, di libera concorrenza e di apertura agli investimenti esteri della Cina da un lato e di Italia ed Unione europea dall’altro sono significativamente diverse. Nonostante negli scorsi anni alcuni paesi Ue abbiano introdotto/rafforzato meccanismi di analisi ed approvazione degli investimenti esteri (esempi significativi sono la Germania nel 2009 e la Francia quest’anno) non ci si auspica certamente una chiusura ulteriore del mercato europeo ad investimenti stranieri, che – se ben “gestiti” – possono portare benefici all’economia del vecchio continente. Sarebbe però necessario utilizzare il principio di reciprocità sopra descritto per chiedere ed ottenere dalle autorità cinesi una maggiore libertà di investimento in Cina per le imprese straniere.

Mai come ora le imprese cinesi sono interessate ad investire in Europa al fine di acquisire tecnologia, marchi, know-how e quote di un mercato che, seppure in una fase economica non positiva, rappresenta pur sempre più di 500 milioni di persone con un Pil pro-capite medio di sei volte superiore a quello cinese. Questo interesse può essere utilizzato come contropartita negoziale per ottenere maggiori opportunità per le imprese italiane/europee in Cina, oppure essere trascurato in continuità con le scelte di questi ultimi anni. La questione non può che essere affrontata a livello comunitario, al fine di fare leva sul forte peso che i 28 paesi membri rappresentano congiuntamente. Nella speranza che tale scenario ideale possa concretizzarsi all’indomani del rinnovo delle istituzioni comunitarie, spetta ai singoli paesi mantenere aperto questo dossier su tutti i tavoli politici, diplomatici e legali. L’Italia, cui spetta il semestre di turno dell’Unione, ha una responsabilità particolare: anche le relazioni bilaterali Cina-Ue sono parte del cambiamento di verso che occorre imprimere al funzionamento dell’Unione.

Published in:

  • Events & Training Programs

Copyright © 2024. Torino World Affairs Institute All rights reserved

  • Privacy Policy
  • Cookie Policy