[LA RECENSIONE] Una vita cinese. Il tempo del padre

Li Kunwu e Philippe Ôtié, Una vita cinese. Il tempo del padre, Torino: add editore, 2016

Può un fumetto in bianco e nero ancora suscitare emozioni nell’era digitale e (post)technicolor? Possono eventi ormai molto noti (ed esplorati in lungo e in largo da cinema e letteratura) quali il Grande balzo in avanti e la Rivoluzione culturale essere visti da un’angolatura diversa? A queste domande, la lettura di Una vita cinese. Il tempo del padre ci permette di rispondere positivamente. Li Kunwu è un disegnatore “specializzato in cartoon di propaganda” come recita la terza di copertina, e – grazie alla sceneggiatura di Philippe Ôtié (un manager di cui viene solo detto che conosce il mandarino e nutre passione per il fumetto) – confeziona un piccolo gioiello di potenza narrativa non inferiore a quella dello strumento cinematografico. Li Kunwu – essendo nato nel 1955 – appartiene alla generazione che ha vissuto in prima linea gli anni del parossismo maoista, e nel fumetto racconta la sua infanzia e l’adolescenza a Kunming, nella provincia dello Yunnan, mentre la Cina viene trascinata negli episodi di mobilitazione delle masse tra i più significativi e tragici del XX secolo.

Liu Kunwu ha un padre naturale, importante quadro locale che a un certo punto della Rivoluzione culturale viene denunciato perché erede di una famiglia di ex proprietari terrieri e deve scontare anni nel campo di rieducazione per compagni che hanno perso la retta via. Ma a poco a poco, agli occhi del bambino che con stupore osserva lo strano mondo degli adulti, e le convinzioni (prima) e i dubbi (poi) del padre, la figura di Mao prende forma come la vera guida, il Padre della nazione che tutto divinamente sovrasta e che cancella – poiché di grado inferiore – le lealtà famigliari: come recita una canzone della scuola elementare riprodotta all’inizio del primo capitolo (significativamente intitolato “Rosso puro”), “l’amore materno e paterno non vale l’amore del Presidente Mao”. Già dalla più tenera età Xiao Li (il piccolo Li) guarda stranito il padre che gli intima di urlare Mao zhuxi wansui! (毛主席 万岁! – che il Presidente Mao possa vivere diecimila anni!) e presto si trova attorniato da folle urlanti il medesimo slogan, tutte protese verso la realizzazione del Grande balzo in avanti, esperimento economico che nella sua deriva quantitativa concentra gli sforzi nell’industria, abbandonando di fatto la cura della terra. Presto Xiao Li ne vede gli effetti, quando va a trovare i parenti in campagna e scopre che l’indigenza e la fame sono largamente diffuse, e comincia a intuire che ci sia qualcosa che non va, in questo strano mondo degli adulti. Ad esempio, perché mai non dovrebbero tollerare il racconto di una vecchia fiaba trasmesso dalla tata Nainai?

Ma a sgombrare il campo dai primi dubbi del piccolo Li arriva, maestoso, il fulgido esempio dello “spirito di Lei Feng” (Lei Feng jingshen, 雷 锋精神), il compagno da emulare nelle sue azioni a servizio del popolo, per farlo avanzare sulla via del socialismo. In un crescendo dottrinario che porta i ragazzi a entusiasmarsi per una missione collettiva di costruzione di un nuovo mondo, arriva la primavera del 1966: “Ci rivelarono che i nostri nemici all’estero e all’interno si erano alleati per distruggere la nostra felicità. Solo la Rivoluzione culturale poteva ancora salvarci. Ma perché ci odiavano così tanto? E cosa voleva dire Rivoluzione culturale? A 11 anni, fui investito da un’ondata di domande prive di risposta” (p. 109). Ancora una volta, le risposte arrivano dal grande Padre della nazione, dalle sue parole contenute nel libretto rosso (Mao Zhuxi yulu, 毛主席语录): “A quell’età la mente è malleabile: quello che vi imprimi ci resta a lungo. A tal punto che ancora oggi, a distanza di 40 anni, posso intonare senza difficoltà le decine di canzoni contenute nel mio Yu Lu” (p. 111). Le tavole del fumetto scorrono veloci, e assistiamo alla trasformazione del bambino Li nell’adolescente che fervidamente mette in pratica gli insegnamenti di Mao. Con ironia e affetto per il ragazzo che fu, l’autore sceglie episodi che volutamente fanno sorridere, perché la Cina di oggi – basta una semplice passeggiata nelle sue metropoli per accorgersene – è andata esattamente nella direzione opposta alle azioni dei giovani guardiani della rivoluzione di allora. Avanti, al ristorante sotto casa per denunciare i vecchi nomi dei cibi e la loro raffinatezza, e per invitare a mangiare meno carne e pesce! Avanti, dal fotografo: “la cosa peggiore sono le vostre foto dei matrimoni, che scimmiottano sistematicamente l’Occidente” (p. 121)! Avanti, dal sarto: basta con gli abiti dal cattivo gusto piccolo borghese! Avanti, dal parrucchiere: basta con le acconciature elaborate, ci vuole sobrietà!

Dalle scorribande di quartiere all’annientamento psicologico e fisico del presunto nemico di classe il passo è breve: “Aah… che bello lasciarsi andare così alla follia! Ieri eravamo milioni di gocce d’acqua, oggi alimentavamo un torrente al cui impeto nulla poteva resistere, né l’antico, né il potente, né il sacro” (p. 145). Ma quando la violenza raggiunge il suo apice, improvvisamente la tavola – divenuta nera e cupa – svanisce fino a farsi pagina bianca, perché la memoria non può – o non vuole – ricordare l’indicibile e riaprire antiche ferite: “come tanti, cerco di evitare di guardare troppo indietro, di non lasciarmi trascinare dalla memoria giù per la china del rimorso” (p. 147).

Una vita cinese è un percorso catartico, che si conclude con la morte di Mao e il passaggio dall’adolescenza alla maturità, da Xiao Li a Lao Li. La tavola a tutta pagina che mostra lo sconcerto assoluto dei soldati in adunata che ascoltano la notizia della morte del Grande timoniere è un piccolo capolavoro, e trasmette più di tante parole il significato di ciò che Mao ha rappresentato per quella generazione: il senso dell’esistenza. E all’ingenuità e alla passione subentra il disincanto. Il vero capolavoro politico di Mao, in fondo, fu affidarsi ai giovani per ottenere i propri obiettivi, in un’età della vita in cui pensi che il mondo sia tuo da costruire ex novo, e che i vecchi siano un corpo estraneo alla società, e non semplicemente ciò che tu avrai (forse) la fortuna di diventare. E nel lettore subentra l’amarezza di constatare come la natura umana sia predisposta – forse perché ricerchiamo continuamente un senso di appartenenza – a seguire leader che parlano alle viscere offrendo soluzioni a buon mercato per un mondo artatamente dipinto in bianco e nero, quando invece la gestione razionale dei problemi di una realtà in (post)technicolor è forse l’unica limitazione del danno che possiamo pretendere, innanzitutto da noi stessi.

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