L’Afghanistan è un paese in cui solo il 12 per cento delle terre sono coltivabili, ma l’85 per cento della popolazione è legata all’agricoltura e più della metà è direttamente impiegata in attività di produzione agricola. Dei circa 34 milioni di Afghani, tre quarti vivono all’interno di aree rurali con un’economia di sussistenza estremamente precaria. A fronte di una forte vocazione agricola e nonostante il 25 per cento del prodotto interno lordo derivi dall’agricoltura legale, l’Afghanistan però è un importatore di derrate agricole con una cronica dipendenza dall’estero. Dal 1978 a oggi, le aree irrigabili sono diminuite del 60 per cento a causa della guerra e dei mutamenti climatici: quello che era un paese produttore ed esportatore di cereali, frutta e verdura, è oggi importatore: nel 2018–19 l’importazione di generi alimentari agricoli è stata pari a circa 3,3 milioni di tonnellate, l’8 per cento in più rispetto al biennio precedente e oltre il 25 per cento della media dei cinque anni precedenti.
Guardando ai vent’anni di guerra insurrezionale contro il governo centrale e le truppe straniere, la stagione della primavera in Afghanistan è stata caratterizzata dall’inizio dell’offensiva insurrezionale e della ripresa della coltivazione di oppio: due elementi tra di loro correlati che interessano anche, e in misura crescente, le province di Herat, Badghis e Farah – area che erano di responsabilità del contingente italiano durante la missione ISAF della NATO –, dove i Talebani sono legati in un rapporto di collaborazione-competizione con i locali signori della guerra (warlord) e della droga (druglord) e le molteplici organizzazioni criminali. In particolare, nei distretti di Farah – dove la coltivazione di oppio è diffusa e di tipo estensivo – la presenza di organizzazioni legate al narcotraffico è endemica e radicata, nonché facilitata nell’esportazione dalla vicinanza con il confine iraniano.
L’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) conferma la possibile correlazione tra scarsa assistenza all’agricoltura e la coltivazione dell’oppio: i villaggi che non riceverebbero assistenza produrrebbero più papavero da oppio rispetto a quelli che hanno ottenuto un contributo materiale o incentivi. Nel complesso, le province di Farah, Baghdis e Nimroz sono quelle in cui è stato registrato un incremento moderato nella produzione di oppio, mentre un aumento significativo ha caratterizzato la provincia di Herat (area di Shindand). A sud e a est, sono le province di Helmand e Kandahar a essere le più interessate dal fenomeno. Nella sola provincia di Helmand – quella sino al 2014 era posta sotto la responsabilità del Regno Unito per poi passare alle forze statunitensi prima del loro ritiro nel 2021 – oltre un terzo della terra coltivabile è destinata alla produzione di oppio. Anche aree in precedenza non interessate al fenomeno, come Balkh, Faryab e Takhar – aree rurali classificate come “meno sicure” dall’ONU negli anni 2010–2013 – hanno assistito a un progressivo processo di “conversione” dei raccolti a favore dell’oppio.
Campi di papavero in Afghanistan.
La produzione di oppio è stata centrale nell’economia afghana, ben prima dell’intervento statunitense e della NATO, ma i numeri caratterizzanti il business del narcotraffico oggi ci descrivono una situazione molto critica. L’Afghanistan produce il 93 per cento di tutte le droghe oppiacee al mondo, sebbene sino a tempi recenti non ne fosse un importante consumatore. Oggi il numero di tossicodipendenti, uomini, donne e minorenni, sta crescendo in maniera preoccupante, portando a un aumento della domanda interna. Nel complesso, la produzione di oppio è passata dalle 700 tonnellate del 1979, alle 4.200 nel 2004, 6.400 nel 2014 e 9.000 nel 2017, con un incremento del 63 per cento rispetto all’anno precedente. Benché altalenante, anche l’andamento dei prezzi è cresciuto negli ultimi anni: nel 2010 l’oppio afghano variava tra i 60 e gli 85 dollari al chilo, nel 2011 tra i 300 e il 600 dollari, nel 2012–2013 tra 160 e 440 dollari al chilo (un prezzo più basso degli anni precedenti, ma comunque più alto di quanto lo fosse tra il 2005 e 2009). Parallelamente, la produzione di eroina nel territorio afghano non ha smesso di aumentare da quando, nel 2001, è stata avviata la “guerra al terrore” nonostante i raid aerei statunitensi finalizzati alla distruzione dei laboratori e delle strutture di raffinazione, il cui totale è stato valutato in numero di circa 500 in tutto l’Afghanistan nazionale prima della presa del potere da parte talebana nel 2021. Soltanto nel 2012 la produzione di eroina è aumentata del 18 per cento, portando da 131.000 a oltre 154.000 gli ettari di terreno agricolo dedicati alla coltivazione del papavero da oppio, diventati 224.000 nel 2014 e 328.000 nel 2018.
Prima del disimpegno militare degli Stati Uniti, l’economia afghana dipendeva, quasi esclusivamente, da due fonti di reddito: gli aiuti concessi dalla comunità internazionale e il traffico dell’oppio. Con la presa del potere da parte dei Talebani sono stati sospesi gli aiuti internazionali. La severa politica di contenimento della produzione di oppio negli ultimi anni non va quindi letta in un’ottica di contrasto al fenomeno bensì come tentativo (riuscito) dei Talebani di riportare i prezzi di vendita a livelli vantaggiosi (giacché l’eccessiva produzione aveva comportato un abbassamento significativo del prezzo di vendita).
L’Afghanistan è sempre più un narco-stato: un paese in cui il traffico di stupefacenti domina l’economia, condiziona le scelte politiche e determina il destino degli interventi stranieri. Una situazione complessiva che deriva in parte dall’assenza di una strategia politica nazionale (peraltro affiancata a una radicata corruzione endemica), dalla sostanziale rinuncia da parte della comunità internazionale a impegnarsi nel contrasto e, in parte, dall’effetto di un consolidato attivismo dei gruppi di opposizione armata, sempre più legati alla criminalità locale e transnazionale.
Marines statunitensi durante un pattugliamento in un campo di papaveri nella provincia di Helmand.
Nessun programma antidroga intrapreso dagli Stati Uniti dal 2002 al 2021, dai loro alleati, dalla NATO, o dal governo afghano ha portato a una reale diminuzione della coltivazione del papavero o della produzione di oppio. Nell’Helmand e altre province strategiche, le forze di sicurezza afghane hanno fin da subito perso la guerra per il controllo dei campi coltivati a oppio e dei profitti che ne derivano – una guerra che ha visto coinvolti anche gli amministratori e i funzionari, locali e nazionali, e i politici. Infatti, al di là dei proclami ufficiali e indirizzati alle opinioni pubbliche delle nazioni contribuenti allo sforzo bellico in Afghanistan, i numerosi tentativi di contenimento della produzione di oppiacei adottati dalla NATO sono stati fallimentari e in contrasto con gli obiettivi della politica di “conquista dei cuori e delle menti degli afghani” che, in un contesto socio-economico disastrato e affetto da corruzione cronica, proprio nel narcotraffico trovano l’unica fonte di sopravvivenza: agire con efficacia su questo fronte avrebbe comportato, per l’Alleanza atlantica, un aumento delle ostilità nei confronti della missione internazionale con conseguente allargamento dell’entità insurrezionale e severe ripercussioni a livello operativo e politico-strategico.
Per illustrare questo punto vale la pena ricordare che, nel 2004, il segretario di stato statunitense Colin Powell avanzò la proposta di usare il defogliante come in Colombia, ma l’ambasciatore americano in Afghanistan, Zalmay Khalilzad, riuscì a farlo desistere dalle sue intenzioni anche grazie al sostegno del suo alleato locale, Ashraf Ghani, allora ministro delle finanze del paese (e, dal 2014 al 2019, presidente). Le ragioni esposte si basavano sul ragionamento che un programma di sradicamento totale avrebbe portato a un “impoverimento diffuso”, se non bilanciato da un “vero programma di sostentamento alternativo” che avrebbe richiesto almeno 20 miliardi di dollari in aiuti stranieri. Come compromesso, Washington optò allora per l’esternalizzazione, alla compagnia di servizi privata DynCorp, dell’addestramento di unità afghane nel contrasto alla produzione di oppiacei. Anche il principale programma di contrasto alla produzione dell’oppio, messo a partire dal 2008, nasceva da considerazioni di carattere economico: un ettaro di terreno coltivato a grano garantirebbe una rendita di 1.200 dollari, 4.500 per uno a oppio, a fronte di 12.000 dollari per uno a zafferano (ma con tre anni di attesa per un effettivo profitto). Al fine di limitare la produzione di oppio, come alternativa italiana all’approccio sino ad allora utilizzato e basato sull’azione di “convincimento” e della “conquista dei cuori e delle menti”, nella seconda metà del 2010 il Provincial Reconstruction Team italiano di Herat distribuì oltre cinquanta tonnellate di bulbi di zafferano destinate alla coltivazione di almeno trenta ettari. Ma i risultati non sono stati soddisfacenti e la cosiddetta “offensiva dello zafferano” non ha avuto successo.
Come già accennato, l’ONU attribuisce l’aumento della produzione di oppio al profitto competitivo della coltura in un paese in cui non esistono migliori alternative. Ma la produzione di oppio ha anche permesso ai Talebani di sostenere e alimentare una “macchina da guerra” funzionale ed efficace, tanto sul piano militare quanto su quello politico-economico. Per ogni passaggio produttivo, infatti, i Talebani raccolgono il 10 per cento di tasse, imponendosi come principali attori del narcotraffico mondiale. Così facendo, già nel 2008 i Talebani raccoglievano 425 milioni di dollari in “tasse”, abbastanza per pagare lo stipendio al proprio esercito di giovani pagati 300 dollari al mese, molto di più di un bracciante agricolo o di un piccolo proprietario terriero. Secondo lo United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC), i Talebani sono in grado di ricavare economicamente dalla droga più di quanto non lo fossero durante il regime del loro Emirato islamico negli anni Novanta. Un business che, nel 2016, rappresentava per i Talebani il 60 per cento delle entrate totali e che, prima della presa del potere nel 2021, si stima si aggirasse intorno ai 700 milioni di dollari annui. I proventi derivanti dalla produzione di papavero da oppio e il suo commercio hanno dunque garantito all’insurrezione afghana ingenti somme di denaro utilizzate per sostenere la lotta di resistenza contro il governo afghano.
Eppure gli oppositori non sarebbero stati sempre i Talebani propriamente detti; il narcotraffico ha infatti portato alla nascita di gruppi di “para-insorti” interessati al massimo profitto derivante dal commercio di droga, nascondendosi tra i gruppi di opposizione e spesso collaborando con loro, sebbene non condividendone ragioni ideologiche o politiche. La criminalità si è affiancata così ai gruppi di opposizione. E in questa fase dello scontro il peso della droga si è fatto sentire. Mentre il governo centrale si impegnava in un blando processo di contrasto alla produzione di papavero da oppio – unica fonte di sostentamento per molte delle comunità rurali – gli insorti garantivano la sicurezza dei campi, l’acquisto delle produzioni stagionali con pagamenti anticipati e il supporto logistico alle comunità dedite a questo tipo di coltura. Ciò ha provocato un processo di indebitamento di molte famiglie contadine che, a fronte del parziale tentativo di eradicazione dell’oppio da parte del governo di Kabul (per lo più concentrato sulle piccole produzioni famigliari e poco su quelle dei grandi proprietari terrieri), hanno dovuto compensare il denaro dovuto attraverso la formula “debt marriage”, l’uso di ragazze (le figlie dei debitori) come merce di scambio tra contadini e trafficanti. I Talebani si sono così avvicinati alla popolazione civile anche attraverso una fine azione di convincimento, basata su risposte concrete ai bisogni immediati delle comunità periferiche e marginali.
Per far fronte a tale situazione, nel 2016 Washington ha inviato nuove unità nella provincia di Helmand con l’obiettivo di negare agli insorti la possibilità di trarre vantaggio economico dal controllo della coltivazione dell’oppio. Il comando della missione statunitense – in aderenza alla linea strategica offensiva voluta dal presidente Donald Trump – ha impiegato, per la prima volta in assoluto, aerei da caccia F-22 e bombardieri B-52 per distruggere 10 laboratori di eroina talebani nell’Helmand: una piccola parte delle 500 raffinerie allestite dai gruppi insurrezionali e criminali del paese. Nel corso del 2018, gli Stati Uniti hanno compiuto numerose missioni contro obiettivi legati al traffico di droga come parte di un più ampio sforzo militare diretto a colpire le fonti di finanziamento degli insorti per limitare le entrate di alcuni leader insurrezionali, così da indurli ad aderire al processo di riconciliazione. Nonostante il dispendio di ben 7,6 miliardi di dollari in programmi di “eradicazione della droga”, però, il tentativo è fallito, come dimostrato a Helmand dove la produzione di papavero da oppio è aumentata del 79 per cento, con un’estensione dell’area coltivata di 144.000 ettari, pari al 44 per cento del raccolto totale del paese.
Il disimpegno di grandi numeri di unità militari straniere dalla guerra in Afghanistan e l’“irreversibile” transizione che nel 2015 ha consegnato la responsabilità della sicurezza del paese in mano al debole governo afghano sino alla presa del potere talebano nell’agosto 2021. La caduta di Kabul ha dimostrato come i Talebani abbiano perseguito una politica della doppia velocità volta, da un lato, a occupare gli spazi lasciati vuoti dalle forze della Coalizione e, dall’altro, a colpire in maniera incisiva laddove l’impegno militare delle forze occidentali e governative avrebbe dovuto dimostrarsi più efficace; in questo provocando un’escalation della violenza nei punti chiave dell’Afghanistan da pacificare, le provincie di Kandahar, Paktya, Kabul, ma anche Herat, Nangarhar e Kunduz. I fatti e la storia hanno però posto di fronte agli osservatori l’evidenza del fallimento sul fronte della lotta al narcotraffico: un fallimento che lega gli Stati Uniti, la NATO e la comunità internazionale tutta.
Per saperne di più
Bertolotti, C. (2019) Afghanistan contemporaneo. Dentro la Guerra più lunga, START InSight.
UNODOC (2022) Opium Cultivation In Afghanistan: Latest findings and emerging threats, UNODC Research Brief. Disponibile su: https://www.unodc.org/documents/crop-monitoring/Afghanistan/Opium_cultivation_Afghanistan_2022.pdf
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