Niente è per sempre: fine del modello Guangdong?

Nell’autunno 2011 vengono segnali contrastanti dall’economia cinese: l’inflazione sembra essere sotto controllo, ma la crisi in Occidente frenerà le esportazioni, con conseguenti difficoltà occupazionali, e renderà più urgente l’attuazione di piani di riconversione dell’economia.

In ottobre, il tasso di inflazione su base annua è sceso al 5,5% (a settembre era al 6,1%). Il governo prevede che a novembre scenda ancora, raggiungendo il 4,3%, soprattutto grazie alla forte riduzione dei prezzi alimentari, che in Cina rappresentano un terzo del paniere dei beni che compongono l’indice dei prezzi al consumo. In ogni caso, il governo non è finora riuscito a contenere l’aumento dei prezzi entro il 4%, l’obiettivo che si era prefissato per il 2011. Tuttavia il primo ministro Wen Jiabao, mostrando un certo grado di ottimismo, ha dichiarato a ottobre che è tempo di rallentare la stretta monetaria dell’ultimo anno. Visitando la città di Wenzhou, in cui molte imprese sono entrate in crisi a causa della stretta creditizia, Wen Jiabao ha invitato le banche a erogare prestiti alle piccole aziende, sottraendole alla morsa dell’usura. La decisione del 30 novembre della Banca centrale di tagliare il tasso delle riserve obbligatorie per gli istituti di credito (dal 21,5% al 21%) va in questa direzione.

La nuova politica “moderatamente espansionistica” non si estende però al mercato immobiliare, che non dà affatto segni di ripresa: in ottobre, le transazioni immobiliari sono crollate del 39% su base annua nelle 15 maggiori città cinesi e dell’11,6% a livello nazionale. Molti operatori del settore edilizio hanno perciò difficoltà a restituire i debiti contratti nel 2009 e nel 2010, quando il governo aumentò la liquidità presente nel sistema per reagire alla crisi globale. Con la rapida urbanizzazione del paese, il settore dell’edilizia residenziale è arrivato a rappresentare nel 2010 il 13% dell’economia cinese. Evidentemente, il governo non ritiene che la bolla immobiliare sia già scoppiata, ma in ogni caso molti lavoratori, soprattutto appartenenti al popolo fluttuante dei migranti, non vengono pagati da mesi.

Le fragilità dell’economia cinese sono aggravate dalla crisi in cui si dibatte l’Unione europea. Quest’ultima è per la Cina il primo mercato di esportazione (1/5 del totale). La riduzione dei consumi in Europa ha perciò un effetto immediato sul contesto produttivo cinese, soprattutto nelle aree costiere orientate alle esportazioni. Le esportazioni in ottobre sono aumentate solo del 7,5% su base annua, mentre in settembre, l’aumento era stato del 9,8%. Il governatore del Guangdong, ad esempio, citato dal Financial Times, ha affermato che le esportazioni della provincia sono scese a ottobre del 9% rispetto a settembre. Secondo Gavekal Dragonomics, citato dalla medesima fonte, la crescita totale delle esportazioni nel 2012 sarà del 9%, in netto calo rispetto alla media degli ultimi anni. Gli effetti si fanno sentire a livello occupazionale: a novembre più di 10.000 lavoratori hanno scioperato a Shenzhen e Dongguan; qui, in particolare, gli operai di una fabbrica di scarpe che produce per i colossi Nike e Adidas hanno protestato contro la riduzione degli straordinari, parte essenziale dei salari, e contro la decisione dell’azienda di spostare parte della produzione in Vietnam e nella Cina interna. Infatti, il costo del lavoro in Cina è aumentato all’incirca del 20% su base annua negli ultimi anni, per effetto della politica del governo cinese di giungere al raddoppio dei salari degli operai mediante una costante revisione verso l’alto del salario minimo. Così molti imprenditori si lamentano di essere ormai “fuori mercato”. Potrebbe stare esaurendosi la c.d. “fase di Lewis” dello sviluppo economico, caratterizzata da un vasto bacino di manodopera a salari reali almeno costanti. Si profila quindi la fine del modello di crescita trainata dalle esportazioni.

In un recente articolo pubblicato da Stratfor Global Intelligence, si sostiene che la crisi dell’Europa obbliga il governo cinese a mettere in pratica ciò che esso sa da tempo e afferma anche pubblicamente (lo ha ricordato ad esempio il 26 novembre il vice-primo ministro Li Keqiang): è necessario ristrutturare l’economia per orientarla di più verso la domanda interna. Pechino sperava, dopo la crisi del 2009-2010, che l’Europa si sarebbe ripresa, ma così non è stato. Inoltre, secondo questa visione, il governo ha coltivato l’illusione che l’urbanizzazione creasse lavoro per le masse, e che i lavoratori diventassero così automaticamente i nuovi consumatori. I migranti invece faticano a trovare lavoro e non hanno ricchezza sufficiente ad acquistare case i cui prezzi sono ancora troppo alti. I mercati del lavoro, quello finanziario e quello immobiliare sono intrecciati in un circolo perverso, per rompere il quale il Fondo monetario suggerisce di partire dalla riforma del settore finanziario, cessando ad esempio di utilizzare direttamente la leva del credito commerciale bancario per ottenere risultati di politica economica.

In realtà, è paradossalmente più difficile smantellare una rete produttiva che ha dato buona prova di sé (e che ormai ha creato anche professionalità medio-alte) che crearne una nuova, magari in Paesi emergenti ma privi della dotazione infrastrutturale della Cina. Molti aumenti salariali sono stati “scaricati” sui consumatori occidentali tramite l’aumento dei prezzi, e non è un caso che il mercato del lusso sia in espansione in Asia: per ora i mercati occidentali sono insostituibili, ma niente è per sempre. D’altra parte, il mercato delle esportazioni negli Stati Uniti sembra tenere, anche se i dati vanno letti tenendo presente che si avvicina la stagione degli acquisti natalizi: a ottobre, l’export verso gli Stati Uniti è aumentato del 13,9%, un risultato migliore di quello di settembre (+11,6%). Parafrasando il titolo di una vecchia canzone rock, forse stiamo solo assistendo alla fine del Guangdong per come l’abbiamo conosciuto.

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