Marketing in Cina: una prospettiva culturale

Il China Policy Lab (Cpl) è un’iniziativa di condivisione delle agende di ricerca sulla Cina contemporanea, organizzata e ospitata dal Center for Italian Studies della Zhejiang University.

I l secondo seminario del Cpl ha visto come ospite il professor Zhang Gangfeng, docente di International Business, Corporate Culture and Cross Cultural Management presso la Zhejiang University. L’intervento si è focalizzato sulle peculiarità culturali che contraddistinguono il vasto mercato cinese e sulle strategie di marketing necessarie a incontrare i gusti e le preferenze di una popolazione che, per molti aspetti, rimane estranea agli operatori italiani e occidentali in generale. Dall’inizio delle riforme volte all’apertura dell’economia cinese al commercio e agli investimenti esteri, le multinazionali occidentali hanno cercato in Cina sbocchi per i loro prodotti, attratte dalle enormi potenzialità di un mercato in espansione e da una classe media con un potere d’acquisto crescente. Nonostante una breve battuta d’arresto nel 2008, la Cina è rimasta una delle destinazioni più attraenti per le società multinazionali e nel 2011 è diventata il primo paese per volume di investimenti diretti esteri in entrata (280 miliardi dollari Usa) mentre su scala globale si registrava una riduzione complessiva degli investimenti esteri, soprattutto verso i paesi industrializzati.

Tuttavia, solo alcune imprese sono riuscite a consolidare la propria presenza e reputazione, conquistando una fetta consistente dell’ambìto mercato. I casi d’insuccesso sono stati numerosi e continuano tuttora a moltiplicarsi, determinati il più delle volte dalla fretta di accedere a un mercato erroneamente percepito come di agevole penetrazione per via delle dimensioni, da una strategia commerciale superficiale e dal mancato adeguamento di brand e prodotti alla tipicità della cultura locale. Tra gli insuccessi più clamorosi presentati da Zhang, fanno scuola E-Bay, Best-Buy, Kellogg, Home Depot, Fiat e Piaggio, solide realtà a livello internazionale che non sono però riuscite a cogliere il momentum offerto dalla crescita cinese. Il caso di Kellogg, che aprì un impianto di produzione a Guangzhou nel 1995 per chiuderlo poco tempo dopo, offre un semplice ma utile esempio per cogliere tali difficoltà: le abitudini alimentari dei cinesi semplicemente non erano pronte, vent’anni fa, ad accogliere con entusiasmo latte e cereali come primo pasto del giorno.

Alcune imprese sembrano avere imparato la lezione, pianificando il lancio dei prodotti con attenzione ai gusti e agli usi dei potenziali acquirenti. Illuminanti sono i casi di Ikea, trainata dal successo tra i giovani cinesi, e quello di Audi, primo produttore di auto di alta fascia nel paese per volume di vendite. Entrambi i marchi hanno personalizzato la loro offerta grazie a un’ottima comprensione delle abitudini locali. Nel primo caso, Ikea ha individuato correttamente in quali spazi domestici usare materiali pregiati e costosi (salotto) e in quali, invece, prediligere un ambiente spartano, funzionale e dunque più economico (cucina). Nel caso di Audi, l’azienda tedesca ha intuito che, nel paese asiatico, la vendita di auto di alta fascia interessava una categoria di acquirenti che raramente avrebbe occupato il posto di guida, bensì il sedile posteriore. Da qui il semplice accorgimento di creare un modello con un telaio allungato per privilegiare il comfort del passeggero, piuttosto che dell’autista.

Oltre alle ovvie differenze nei gusti e nelle abitudini, fare marketing in Cina richiede un’attenzione metodica verso gli aspetti linguistici e visuali, ambiti cruciali in una cultura millenaria e così distante dall’Occidente. Numerosi i casi di traduzioni infelici. Tra i più famosi, la Coca Cola entrò in Cina nel lontano 1927 (per uscirne ovviamente nel ‘49) e, a insaputa della compagnia, fu pubblicizzata dai rivenditori locali usando quattro caratteri foneticamente simili al nome originale, il cui significato poteva intendersi come “mordi un girino di cera”. Oggi, la compagnia americana sfoggia un brand (Kekoukele, 可口可乐, traducibile con “deliziosa felicità”) che ha fatto scuola per la qualità evocativa dei suoi ideogrammi.

La panoramica offerta da Zhang evidenzia come le tecniche di marketing debbano vagliare e rispondere a precise specificità culturali. Per le aziende italiane non è una sfida da poco. La diffusione dei prodotti che testimoniano le nostre eccellenze è ancora lontana dal realizzare il proprio pieno potenziale, mentre altri paesi, come la Francia, hanno fatto di meglio nel conquistare l’apprezzamento dei consumatori cinesi. Oltre al marketing, altri importanti fattori condizionano negativamente l’export italiano: piccole dimensioni delle aziende, scarsa sinergia tra di esse, protezionismo cinese in alcuni settori, assenza di grandi catene di distribuzione italiane. Tuttavia, vi è sicuramente la mancanza di una vision organica e nazionale di promozione del made in Italy e, come sostiene Zhang, uno scarso appeal del nostro paese, le cui aziende, in alcuni ambiti, sono percepite come meno affidabili rispetto a quelle francesi, tedesche e ovviamente americane.

Ne consegue, dal lato delle imprese, che la strategia d’internazionalizzazione dovrebbe sempre essere accompagnata da una profonda comprensione della cultura, della storia e della lingua del paese destinazione di uno sforzo di proiezione. Se questa esigenza fosse riconosciuta, professioni e competenze umanistiche potrebbero beneficiare di un inquadramento più adeguato e contribuirebbero inoltre ad assorbire offerta di lavoro qualificata tanto in Italia quanto in Cina. La seconda conseguenza, sul versante della domanda, riguarda la necessità di conquistare la Cina prima di tutto dal punto di vista culturale: facendo conoscere l’Italia, la sua qualità, la creatività e l’eccellenza, introducendo la sua storia e – seguendo l’esempio francese – promuovendo in maniera più strutturata lo studio della sua lingua presso il pubblico cinese. Ciò aiuterebbe i prodotti del Belpaese, rendendo al contempo più fluida e agevole la presenza in loco delle imprese italiane, che in questo modo troverebbero interlocutori più preparati e ricettivi verso la nostra offerta.

 

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