Lo spettro del debito americano

Il 19 aprile scorso l’agenzia internazionale di rating Standard & Poor’s (S&P), pur confermando la tripla A al debito pubblico statunitense, per la prima volta in 70 anni l’ha accompagnata con una modifica dell’outlook da “stabile” a “negativo”, registrando la sfiducia dei mercati nella capacità del governo e del Congresso Usa di mettere in atto efficaci politiche di riduzione del debito pubblico, che ormai si avvicina all’80% del Prodotto interno lordo, mentre solo nel 2006 era di poco superiore al 40%. S&P ha anche rilevato che c’è il 30% di possibilità di rivedere il rating verso il basso nei prossimi due anni, se il governo americano non agisce subito.

La decisione di S&P rappresenta l’ultimo e definitivo segnale di una tendenza già in atto: nel novembre 2010 l’agenzia di rating cinese Dagong (si veda OrizzonteCina vol. 1 n. 4, p.10) aveva addirittura abbassato la valutazione del debito americano da AA a A+, con outlook negativo, a causa dell’aumento del deficit pubblico.

Immediata la reazione del Presidente Obama, che ha definito la scelta di S&P “frutto di un giudizio politico”, che sottostima la volontà dell’amministrazione di porre rimedio alla situazione dei conti pubblici. Il giorno successivo il portavoce del ministero degli esteri cinese e la State Administration of Foreign Exchange (Safe) hanno espresso l’auspicio che Washington realizzi “politiche e misure responsabili” per proteggere gli interessi degli investitori. La presa di posizione di Pechino è comprensibile: se le riserve in valuta estera hanno superato l’astronomica cifra di 3.000 miliardi di dollari, almeno 1.150 miliardi, secondo il Tesoro americano, sono investiti in titoli di stato Usa. Il che espone la Cina alla cosiddetta “trappola del dollaro”: il timore di una svalutazione del dollaro le consiglierebbe di ridurre la sua attività nella valuta Usa, ma proprio ciò potrebbe indebolire il dollaro ulteriormente, con il rischio di gravi perdite per Pechino.

Il governatore della banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan, ha dichiarato che le riserve in valuta estera hanno ormai superato ogni “ragionevole” necessità e che bisogna pertanto migliorarne la gestione e continuarne la diversificazione. Xia Bin, membro del comitato di politica monetaria della banca centrale, ha stimato che 1.000 miliardi di dollari costituirebbero una riserva sufficiente, sostenendo che i capitali rimanenti dovrebbero essere spesi per acquisire risorse e tecnologia (ricordiamo però che la Cina è anche impegnata a contenere le spinte inflattive). Secondo Tang Shuangning, presidente del China Everbright Group, citato dall’agenzia ufficiale Xinhua, le riserve dovrebbero collocarsi tra 800 e 1.300 miliardi di dollari, utilizzando le quote eccedenti nell’economia reale, ad esempio per ristrutturare le aziende di stato, investire in istruzione e sanità, espandere gli investimenti esteri. Impressiona l’elenco esemplificativo, stilato dal settimanale The Economist, di quel che la banca centrale cinese potrebbe acquistare con le proprie riserve: dall’88% della produzione annuale mondiale di petrolio (3.410 miliardi), a tutto il debito sovrano di Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna (1.510 miliardi), all’intero patrimonio del Dipartimento della Difesa Usa (1.900 miliardi).

Non è detto però che i timori per il crescente indebitamento degli Usa si tramutino in sfiducia nel ruolo di valuta di riserva del dollaro americano. Infatti, dopo un repentino crollo, i prezzi dei titoli di Stato americani sono tornati a crescere. La reazione di Obama sembra peraltro dimostrare che S&P ha colpito nel segno, rendendo più urgente (e quindi più probabile) un accordo tra democratici e repubblicani per invertire la tendenza al peggioramento dei conti.

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